Petronia Carillo, Maurizio Matteuzzi: Università di serie A e di serie B: vogliamo farci del male?
Entro l’epica campagna mediatica denigratoria dell’Università, sapientemente orchestrata prima per indorare la velenosa pillola della legge 240/10 “Gelmini”, e poi per giustificarla nonostante i suoi evidenti ineffabili insuccessi, trovano un posto di tutto rispetto alcune evidenti falsità; tanto ad esempio, ma l’imbarazzo della scelta è veramente tanto, il giudizio irriguardoso sul livello della ricerca italiana, la tesi che i docenti sarebbero troppi, la tesi che in Italia ci sarebbero troppe Università. Vogliamo partire da quest’ultimo punto. In Italia ci sono 76 Università pubbliche, le altre, ivi comprese le telematiche, essendo irrilevanti per il prosieguo del presente ragionamento. La popolazione italiana, come si sa, si aggira sui 60 milioni di persone. Volendo prendere a termine di paragone, come inevitabilmente i nostri ipotetici contraddittori ci inducono a fare (a dire il vero, solo quando gli conviene) gli Stati Uniti, si dovrà ammettere che le istituzioni di istruzione superiore si contano, anziché a decine, a migliaia; con una cifra che si può collocare tra 1000 e 2000, a seconda della precisa definizione di tali istituzioni. A fronte di una popolazione 5/6 volte la nostra. Lasciamo al lettore la gioia di fare due conti, e trarne il dato rilevante, il rapporto tra Istituti e popolazione.
Uno dei leitmotiv che si fanno discendere da questa, dunque evidente falsità, è che occorre distinguere, come in effetti avviene negli USA, tra Università in cui si fa ricerca, e Università in cui ci si limita alla didattica. Corollari che ne derivano sono: occorre mettere in concorrenza gli Atenei tra di loro; occorre distinguere due categorie, Atenei di serie A e Atenei di serie B. Tesi che ben si saldano con la nuova parola sulla bocca di tutti i soloni in gioco, politici o accademici che siano, la fatidica (e fatale, se si va avanti per questa via), “meritocrazia”, parola sacrale assurta ormai agli onori degli altari, ancorché grandi miracoli non le si possano ancora attribuire. Al contrario ha avuto dei tragicomici effetti, vedi l’introduzione delle mediane une e trine, l’ASN e i suoi oltre 2000 ricorsi al TAR, il disordine di un caos che ha favorito, anziché arginare, il malaffare; ma chissà, forse proprio questo era l’obiettivo politico, ampiamente raggiunto. Ma stendiamo pure un velo di pietoso silenzio a coprire le vergogne nazionali, come da italica inveterata abitudine.
I primi inutili sforzi di applicare una “meritocrazia” agli Atenei hanno provocato effetti comici (premettiamo che bisogna essere dotati di un macabro senso dell’umorismo per comprenderlo): si è fatta una valutazione, e si è ipotizzato di distribuire i fondi in base alla “virtuosità” degli Atenei; poi però, si è introdotta la norma che nessuna sede poteva essere taglieggiata di più del 5%, e così tutto è sostanzialmente tornato come prima, secondo la consolidata filosofia di Tomasi di Lampedusa. Ma almeno le nostre macchiette hanno potuto riempirsi la bocca di fonemi in libertà, e imbrattare la penisola con centinaia di circolari, decreti e interpretazioni “autentiche”.
Veniamo al nocciolo della questione. E’ ben noto che, quanto ai parametri ideati dai nostri politici e alti dirigenti, il divario tra nord e sud della penisola è assai accentuato, e, alle condizioni date, destinato ad accentuarsi ulteriormente. E questa banale verità fa tremare le vene nei polsi se messa in correlazione con il primo commento che il nostro attuale premier fece alla legge Gelmini: sostanzialmente definì l’ipotesi di chiudere qualche Università troppo poco coraggiosa. Se volessimo andare fino in fondo di Università ne dovremmo chiudere più della metà. Questo il Renzi-pensiero; quanto meno quel che disse.
D’altra parte la scelta di un Ministro dell’Università di matrice neoliberista non PD non lasciava presupporre nulla di buono. E non si pensi che la scelta sia stata affrettata o dettata da una logica di spartizione tra i partiti imposta dall’alto. E’ molto semplice fare in modo che i tagli vengano fatti da qualcuno che non sia del PD con il tacito consenso del PD. Quindi attingiamo ancora e ancora al salvadanaio Università ma senza intaccare la bella immagine di un partito che dovrebbe essere al servizio della gente e non contro.
Il PD ora sta semplicemente perseguendo la strategia PDL di mettere una pezza al problema economico e al contempo privatizzare tutto, anche la cultura, anche l’accesso al sapere. Perché per poter avere una mente pensante è bene mettersi in testa che bisogna pagare, e se i poveri non possono pagare restino come e dove sono o facciano un prestito d’onore, e se si indebitano e rovinano già prima di cominciare a lavorare… ci penseranno i ricchi a continuare a comandare e a gestire. Non lo hanno sempre fatto? E poi se i poveri rimangono ignoranti danno anche meno problemi.
Che la cosa sia stata ben studiata emerge da documenti redatti ben prima del 2010 in cui si evidenziava come il contesto economico in cui si inseriva un Ateneo potesse influenzarne le performance della ricerca. Da dati ISTAT del 2005, infatti, si evinceva che gli investimenti in ricerca e sviluppo del nostro paese ammontavano solo al 12% al sud e al 5% nelle isole. Legare la valutazione delle Università alla capacità di attrarre finanziamenti da privati, ben conoscendo queste informazioni, significava e significa condannare senza appello sud e isole. Bene allora, chiudiamole queste Università. Lasciamone un paio giusto per salvare le apparenze…
Qualcuno di questi politici da anni a questa parte si è più interrogato su quale fosse la vera funzione dell’Università nelle diverse parti d’Italia? Bisogna ammette che ha certamente valenze diverse. E non perché in entrambe non sia possibile fare ricerca (se si avesse un minimo di fondi) ma perché gli studenti e il territorio sono diversi. Dappertutto l’Università ha la funzione di ascensore sociale e formazione di menti pensanti, oltre ai temi specifici dei singoli corsi di studio. Al sud, però, non dico nelle principali città ma nelle città di provincia come Caserta e nell’entroterra di Terra di lavoro, l’Università Statale è un avamposto sul territorio. Queste Università hanno moltissimi studenti di Casal di Principe, Castel Volturno, San Cipriano di Aversa, comuni sciolti per infiltrazioni malavitose e governati nell’ultimo biennio da commissioni prefettizie, quindi zone ancora sotto il controllo dei clan. Ma lo stesso potrebbe accadere in provincia di Napoli, Bari, Reggio Calabria o Palermo.
Cosa è necessario insegnare agli studenti provenienti da questi territori difficili? Prima di tutto la tolleranza, la capacità di convivere con chi è diverso, l’idea che al di fuori del loro piccolo mondo c’è la possibilità di vivere la vita con più leggerezza, più speranza, più tolleranza, più rispetto per gli altri e soprattutto per la res publica. L’idea di proteggere qualcosa che in realtà non mi appartiene veramente ma che è comunque mio è difficile da far accettare qui. Ma si deve provare. Bisogna liberargli la mente e allargare i loro limitatissimi orizzonti, far intravedere la bellezza delle cose, di tutte le cose.
Come insegnano i docenti universitari al sud? Sostanzialmente bene, come al nord. Tant’ è che i laureati più intraprendenti lavorano tutti. Tutti al sud? No!!!!! Ma dovunque vadano la loro preparazione, il loro spirito di adattamento, la loro flessibilità consentono loro di inserirsi. Non solo in Italia ma anche all’estero. Quindi, come è l’Università Statale del sud? Diversa ma ugualmente efficace (volendo assumere gli stilemi gelminici).
Quelli che non ci lavorano e vivono non possono immaginare cosa siano le sedute di laurea per quelle famiglie che non hanno mai avuto non solo altri laureati in famiglia ma neanche diplomati.
Non possono immaginare cosa sia vedere una propria allieva, una donna, peraltro figlia di contadini analfabeti di San Marzano sul Sarno, lavorare in un Max Planck Institut für molekulare Pflanzenphysiologie in Germania e parlare inglese e tedesco. Ogni suo successo è un successo del docente che l’ha seguita e formata.
Possiamo però fermarci qui e lasciare che tutti i nostri sforzi vengano resi vani da questa visione, miope, al limite del paradosso, di una certa classe politica? Forse dobbiamo fare uno sforzo ulteriore, dobbiamo sforzarci di far capire a questi soloni dell’economia neoliberista come si presidia un territorio, come si combatte davvero la criminalità, la dittatura dei clan e dappertutto, in Italia, l’evasione fiscale perfino. Non lo si fa certamente con i carri armati e i carabinieri. Abbandonare il territorio, consegnarlo alle mafie, alla corruzione, alla speculazione, fare una volta di più dello Stato il grande assente è l’errore più tragico e sistematico. I semplici di spirito capiscono, e non sempre, quel che cade direttamente sotto i loro sensi. Così pensano a strade e a caserme, a ponti, e in questi elementi fisici identificano il presidio del territorio. Non dovrebbe essere difficile, viceversa, capire che la prima dimensione da occupare è quella della testa delle persone. E nella testa delle persone non si entra con un trapano, ma con la cultura. La coscienza sociale non si trasmette con gli spot televisivi o l’azione energica delle questure. Un secolo e mezzo di storia non ha evidentemente ancora insegnato niente.
Noi oggi proviamo a fare capire tutto questo alle persone che vivono fuori dall’Università, alla gente comune, ai media, ai politici, coinvolgendoli, facendoli entrare e vivere nella nostra Università, nell’Università Statale del progresso e del riscatto sociale. Noi oggi lo facciamo con l’iniziativa UNIPERTUTTI, http://www.unipertutti.it/. Mostriamo le infinite possibilità e opportunità che l’Università Statale può offrire! Facciamolo raccontando storie, le nostre storie e quelle dei nostri allievi.
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