La nascita della rivista INCHIESTA

Per raccontare la nascita della rivista Inchiesta è necessario ricordare gli scenari e le esperienze che ad essa si collegano. La rivista nasce formalmente nel ‘71, anno del primo numero, ma in realtà quando la storia della sociologia in Italia si interseca con quella delle lotte operaie e studentesche del ’68: è senza dubbio una singolare confluenza. Questa confluenza spiega la formazione del gruppo che dà vita alla rivista in parte formato da sociologi e da sociologhe che avevano comunque avuto una vicenda accademica particolare (ricordiamo che allora non c’era un insegnamento di sociologia e che la sociologia con il fascismo era stata proibita) e in parte formata da persone appartenenti ad altre discipline o impegnate intellettualmente e politicamente senza particolari percorsi accademici.

Per spiegare questo complicato inizio faccio riferimento alla mia esperienza personale per leggere, attraverso questa storia, alcune vicende più generali della sociologia in Italia e negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda la mia storia è da chiarire che nessuno mi ha mai insegnato sociologia; all’università che frequentavo (era l’Università Bocconi di Milano) non c’era tra le materie la sociologia e anche quando sono diventato assistente sono stato assistente di statistica, non di sociologia. Ricordo questa storia perché chi oggi studia sociologia segue un iter strutturato: prima l’università e poi le varie tappe accademiche. La mia storia è invece caratterizzata da incontri particolari ed inattesi: una storia, diremmo oggi utilizzando il testo di Merton, caratterizzata dalla serendipity.

Sono nato e ho fatto le scuole superiori a Pistoia con una formazione dominata da una passione totale per la letteratura (i miei autori preferiti erano, Dostoevski, Poe e Sartre) ed ero arrivato alla Bocconi in seguito a una complessa negoziazione tra mio padre (che insegnava economia agraria e aveva studiato economia a Firenze con Sapori, docente di storia medievale, che era diventato rettore della Bocconi) e mia madre (che insegnava scienze naturali e che era disponibile anche a farmi proseguire gli studi verso la mia amata letteratura).

Vinse mio padre e così arrivai nel 1956 al Pensionato Bocconi, che si inaugurava proprio quell’anno, trovando alla Bocconi una strana situazione con una frattura politica evidente: da una parte c’erano i docenti di economia che erano, diremmo oggi, di sinistra insegnandoci direttamente le opere di Keynes (Di Fenizio) e lo stato sociale moderno (De Maria) e dall’altra parte c’erano invece gli aziendalisti (Dell’Amore, Pivato ecc..) che erano, oggi diremmo, molto berlusconiani (nel consiglio della Bocconi sedeva tutta la Confindustria dell’epoca). Tra questo due mondi non comunicabili c’erano i matematici (Brambilla e Ricci ) che non solo erano di sinistra ma avevano fatto la resistenza e tutti e due erano stati presi e torturati dalla Banda fascista della Muti.

Il primo esame che sostenni alla Bocconi fu quello con Brambilla di statistica (che allora chiamavamo “matematica” per distinguerla dalla statistica “economica” che insegnava Libero Lenti del tutto organico all’area aziendalistica) e la serendipity decise di agire nei miei confronti. Brambilla, che era un professore con un volto bello e significativo, alto e massiccio di corporatura, autorevole e distaccato (mi ha sempre dato del lei) dopo l’esame mi guardò attentamente e mi disse “vedo nei suoi occhi la passione per la matematica, venga domani nel mio studio”. Andai nel suo studio e Brambilla mi comunicò: “ Ho deciso di non avere più assistenti che vengono solo al momento della tesi e che poi dopo mi lasciano per guadagnare con la ricerca operativa (il Bollettino per la ricerca operativa era la rivista che Brambilla dirigeva) ”. “La matematica – proseguì Brambilla con tono ispirato – deve essere una passione”. (Un’altra frase tipica di Brambilla era “La matematica è bella e un modello matematico deve essere bello non utile; se il modello matematico non funziona rispetto alla realtà, è colpa della realtà”). “Se accetta di farmi da assistente frequenterà il Centro e le insegnerò la matematica e si ricordi: noi studiamo la statistica matematica anglosassone di Kendall; non la misera statistica dell’Innominabile”

Allora i rapporti con i docenti erano diversi da quelli che si hanno adesso e poi, occorre ricordare, io venivo da Pistoia. Se questo importante professore di Milano aveva letto nei miei occhi la passione per la matematica non poteva sbagliare. Accettai senza nemmeno chiedere ulteriori spiegazioni e il giorno dopo iniziai a frequentare il suo Centro con un’unica domanda : avevo capito il titolo del libro che dovevo comperare; mi restava da capire chi era quell’innominabile da cui dovevo guardarmi. Non osavo ovviamente chiedere spiegazioni a Brambilla (se era “innominabile” doveva esserci una ragione oscura che non poteva essere rivelata a chi iniziava a studiare) e dopo una lunga contrattazione (facevo notare che non potevo evitare un nemico se non sapevo come si chiamava) ottenni finalmente dalla segretaria Dora Branduardi in un sussurro la risposta: si trattava di Corrado Gini. Mi si chiedeva di evitare le opere di questo studioso perché secondo Brambilla non conosceva la matematica e anche perché da uomo di potere (Gini era stato presidente dell’ISTAT) aveva scritto testi inneggianti al fascismo . Mi si chiedeva di non pronunciare il suo nome perché il solo pronunciarlo faceva accadere disastri non prevedibili (la sua sola presenza aveva fatto cadere un lampadario nel teatro La scala di Milano, aveva creato un naufragio di una nave che andava verso l’America del sud e così via)

Edotto sui ciò che dovevo studiare e ciò che dovevo evitare iniziai a frequentare sistematicamente il Centro per la ricerca operativa insieme ad altre due matricole a cui Brambilla aveva fatto lo stesso discorso (Michele Cifarelli, oggi ordinario di statistica al posto di Brambilla, e Giorgio Faini, a lungo direttore del Centro di calcolo della Bocconi) dove Brambilla con una serie di docenti (tra questi ricordo Avendo Bodino) ci facevano lezioni di calcolo matriciale, teoria della code, teoria dei grafi ecc.. La mia formazione matematica/statistica fu quindi tutta derivata da quei seminari tenendo comunque presente che alla Bocconi di quei tempi c’era anche un corso di economia matematica (i testi erano quelli chiamati Allen 1 e Allen 2) e tre corsi di analisi con Ricci. Arrivai così al momento della tesi e scelsi come titolo “i processi stocastici markoviani”. Tutto sembrava orientarmi verso una carriera accademica in quella direzione ma la serendipity non era ancora andata in vacanza.

Brambilla un giorno del 1960 ci disse in uno di questi seminari : “vi porto un amico che si occupa di una materia un po’ diversa dalla matematica, che però può interessarvi. Questa materia si chiama sociologia ”. Ci presentò quindi Angelo Pagani, che ci fece un corso intitolato “le classi sociali”. Il mio retroterra letterario ne fu ovviamente affascinato e mi venne in mente di cambiare la tesi e applicare i processi stocastici markoviani alla mobilità sociale. Una tesi quindi discussa nel 1981 a metà tra matematica e sociologia con relatore Brambilla e correlatore Pagani (una tesi insolita che venne pubblicata inizialmente nel Bollettino per la ricerca operativa, che Brambilla aprì a Pagani perché ne facesse una sezione sociologica, e poi in francese negli Archives Europeennes de Sociologie).

Ero quindi entrato in contatto con la sociologia e cominciai a collaborare con Pagani come assistente “informale” (formalmente ero assistente di statistica alla Bocconi e facevo come gli altri giovani colleghi il corso, gli esami ecc..) collaborando soprattutto alla rivista Longevità che dirigeva e alla sezione sociologica del Bollettino per la ricerca operativa.

La serendipity era però ancora attiva e mi procurò due incontri importanti. Il primo avvenne nel 1961. Ero andato a un convegno dell’Olivetti Bull sull’uso dei computer e avevo conosciuto l’Ing. Milani che dirigeva il Centro di psicologia dell’Olivetti. Gli avevo parlato dei modelli matematici e a questo Ingegnere venne in mente che avrei potuto applicarli alla job evaluation che l’Olivetti pensava di sperimentare. Mi fece un piccolo contratto di ricercatore junior e mi aprì la porta dell’Olivetti dove all’epoca era possibile fare incontri veramente importanti. All’Olivetti infatti erano passati Ferarotti e Pizzorno, Gallino dirigeva il Centro studi di sociologia (con Gilli assistente) e nel Centro di Psicologia trovai Cesare Musatti responsabile scientifico e due carissimi amici Renato Rozzi e Franco Novara che mi presero sotto la loro protezione (anche scientifica) chiarendomi i punti fondamentali dei conflitti in fabbrica e la grande utopia di Adriano Olivetti che aveva creato il Centro di Psicologia per bilanciare lo squilibrio di potere in fabbrica (il Centro infatti doveva fare ricerca dal punto di vista degli operai e doveva dare i risultati non alla dirigenza che lo finanziava ma ai sindacati).

Il secondo incontro avvenne nel 1962. Paul Lazarsfeld (che era allora direttore del Bureau of Applied Social Sciences della Columbia University) decise di tornare in Europa nella sua amata Vienna e mandò a tutti i Dipartimenti di Statistica italiani, francesi e tedeschi un invito per partecipare a Gosing (in Austria) ad un seminario da lui coordinato e finanziato dall’Unesco dal titolo “Mathematics and Social Sciences” (gli atti uscirono con questo titolo a cura di Sternberg, Capecchi, Kloek e Leenders nel 1965 per le edizioni Mouton di Parigi).

Rimasi affascinato dalla personalità di Lazarsfeld che aveva nella sua storia una famiglia importante frequentata dalla migliore Vienna letteraria e intellettuale dell’epoca e che aderiva politicamente al marxismo romantico di Adler. Lazarsfeld si era laureato in fisica, aveva competenze matematiche, si era avvicinato alla psicologia sociale e nel 1933 pubblicò Die Arbeitslosen von Marienthal che Enrico Pugliese ha giustamente fatto tradurre nelle Edizioni Lavoro. Il nazismo dilagante anche in Austria portano Lazarsfeld ad andare negli Stati Uniti e, alla Columbia University, con il suo amico Robert Merton pubblicò sia ricerche di mercato come Personal Influence (1955) sia ricerche politicamente impegnate come The Academic Mind (1958) per denunciare il Maccartismo.

La collaborazione con Lazarsfeld proseguì dopo il convegno e mi impegnai a far conoscere le sue opere in Italia mentre Raymond Boudon (che Lazarsfeld mi fece conoscere a Parigi) si impegnava a diffonderle in Francia. Per curare l’edizione delle sue opere (che uscirà per Il Mulino nel 1967) mi ritrovai così a New York negli anni ’60. Lazarsfeld desiderava che venisse fondata una rivista in inglese per diffondere in Europa la matematica applicata alla sociologia e a prima vista questa sembrava una mission impossible.

Ma la serendipity aveva deciso di risolvere tutti i miei piccoli problemi. Durante i miei studi alla Bocconi ero diventato amico di Paolo Ceccarelli e di Francesco Indovina e Paolo aveva avuto una piccola quota di partecipazione nella casa editrice Marsilio e l’idea di pubblicare una rivista per un amico anche se invendibile lo attraeva. La rivista “Quality and Quantity” da me fondata e diretta (con condirettore Raymond Boudon) uscì del tutto invenduta nel 1967 con editore Marsilio di Venezia per poi essere rilevata nel 1969 dal Mulino dove il mio amico Giovanni Evangelisti era abituato ad affrontare per gli amici libri che non si vendevano (aveva già pubblicato nel 1967 l’opera di Lazarsfeld: 982 pagine più una mia introduzione di 146 pagine che all’epoca non poteva definirsi un best seller). Breve nota tra parentesi: “Quality and Quantity” dopo alcuni anni di non vendite in Italia emigrò in Olanda (dove si sono alternati Elsevier, Kluwer e oggi Springer) e questi editori olandesi sono riusciti incredibilmente a guadagnarci tanto che oggi è edita sia on line che a stampa e da trimestrale è dovuta passare a bimensile dato il successo non previsto con il mercato asiatico .

La nascita di Inchiesta era però nell’aria. Negli anni ’60 a New York era infatti impossibile frequentare solo il Bureau of Applied Social Reserach di Lazarsfeld e Merton. La presidenza di Kennedy e la fine del Maccartismo avevano aperto uno spazio in cui si erano inserite più forze positive: dai movimenti a favore dei neri (Martin Luther King, le Black panters, Malcon X) al movimento studentesco, dai primi movimenti femministi a quello dei figli dei fiori, dalla Radical sociology alla Radical economy.

Come potevo continuare a fare solo il direttore di “Quality and Quantity” quando tante forze erano impegnate verso un futuro migliore? Era evidente che stava diventando necessaria una nuova rivista che fosse espressione, anche in Italia, delle lotte operaie e studentesche del ’68. La matematica e Lazarsfeld mi avevano portato ad avere nell’anno accademico 1968-69 un doppio incarico: a Bologna a Magistero e a Trento (dove oltre a un incarico di metodologia Alberoni mi aveva voluto direttore delle ricerche (una carica che oggi non esiste più). Nel 1970 lasciai con la famiglia Milano per arrivare a Bologna e avendo in mente le lotte operaie diventai amico di Claudio Sabattini e Francesco Garibaldo che mi proposero di dirigere il centro studi della FLM.

La rivista trimestrale “Inchiesta” , il cui primo numero uscì nel gennaio del 1971, nasceva dall’esigenza di avere una rivista di economia, sociologia e psichiatria aperta anche ad altre discipline come la psicologia, la pedagogia e la storia e, soprattutto, si avvertiva l’importanza di una rivista che pubblicasse ricerche politicamente impegnate ma anche metodologicamente corrette. Le due riviste più vicine politicamente a “Inchiesta” erano all’epoca “Quaderni Piacentini” e “Quaderni Rossi” ed è a persone che già avevano scritto in queste riviste che mi rivolsi per costituire il nuovo gruppo.

Chiesi ad esempio a Goffredo Fofi se voleva entrare in “Inchiesta” e lui mi suggerì due giovani del Sud che stimava: i ben noti Giovanni Mottura ed Enrico Pugliese. Entrò in “Inchiesta” anche Francesco Ciafaloni che scrisse l’editoriale del primo numero e alle prime riunioni di “Inchiesta” partecipò in modo significativo Mario Miegge che pubblicò nel primo numero della rivista un articolo su capitalismo e scuola lunga mentre un altro valdese, lo storico Giorgio Rochat, scrisse un testo allora molto apprezzato su come era organizzato (male) l’esercito italiano e perché, dato questo disastro organizzativo, non c’erano rischi di golpe. Per la psichiatria e la psicologia entrarono in “Inchiesta” Giovanni Jervis, Letizia Comba e Renato Rozzi, il gruppo di Giulio Maccaccaro e quello dei medici che facevano le inchieste sulla salute in fabbrica e nell’area della pedagogia collaborarono fin dai primi anni ad “Inchiesta” Antonio Faeti, Antonio Genovese e Mario Gattullo. In quanto alla sociologia una delle caratteristiche più forti della rivista fu lo spazio occupato dalle sociologhe (Laura Balbo, Chiara Saraceno, Bianca Beccalli, Giuliana Chiaretti, Ada Cavazzani, Ota de Leonardis, Letizia Bianchi ed altre) per cui numeri su “Speciale donna”, “Doppia presenza e mercato del lavoro femminile”, “Donne, doppio lavoro discriminazione” si alternavano a numeri del titolo “Speciale agricoltura”, “Ristrutturazione industriale, piccola impresa e lavoro a domicilio” a cui collaboravano oltre ai nomi prima ricordati, Massimo Paci, Tullio Aimone, Paolo Calzabini, Enzo Mingione, Marzio Barbagli, con i contributi dei sociologi politici Carlo Donolo e Giordano Sivini, In quanto all’economia oltre alla collaborazione stabile di Luigi Frey e Luca Meldolesi si stabili una stretta collaborazione con la Facoltà di economia di Modena che aveva allora come preside Michele Salvati ed economisti vicini alla FLM come Sebastiano Brusco, Andrea Ginzburg, Paolo Bosi, Ferdinando Vianello e con il numero “Economia 150 ore” uscito nel 1974 si raggiunse il massimo numero delle vendite (“Inchiesta” tirava in quei lontani anni ’70 sulle 60.000 copie ma quel numero, lanciato dalle 150 ore , raggiunse le 80.000 copie). Le 150 ore avevano portato a Bologna Adele Pesce, oggi mia moglie, che faceva la giornalista sindacale e che Claudio Sabattini volle per dirigere le 150 di Bologna. Adele Pesce diventò poi la prima donna segretaria regionale della FLM e, attraverso la sua attiva collaborazione alla direzione della rivista, entrò in “Inchiesta” sia la documentazione sulle lotte delle donne in fabbrica sia, in anni successivi, il femminismo internazionale con collaborazioni importanti come quella di Luce Irigaray.

La grande forza di “Inchiesta” è stata di essere una rivista all’incrocio tra discipline diverse, fatta da persone di sinistra più legate ai sindacati e ai gruppi di azione extraparlamentare che non ai partiti, con appartenenze religiose diverse (la maggioranza confessionale dei primi anni di “Inchiesta” era quella valdese), con radici nelle regioni del Nord come in quelle del Centro e del Sud. La lettrice e il lettore di “Inchiesta” trovavano, fin dai primi numeri, ricerche fatte nelle fabbriche di Torino e di Bologna insieme a ricerche sulla sanità a Napoli, sulle conseguenze del terremoto nella Valle del Belice, sulle carceri di Palermo, sulla mafia a Bagheria ecc… Mio fratello Giuliano dirigeva allora il Centro di documentazione di Pistoia e sulla rivista compariva alla fine una sua rubrica fissa che indicava i diversi materiali prodotti dai più disparati gruppi impegnati in lotte nella scuola, nell’assistenza, nelle fabbriche e anche questo lavoro paziente di documentazione rese “Inchiesta” più letta e diffusa.

Su “Inchiesta” insieme alla ricerca era possibile trovare numeri monografici di teoria; restano nella storia di questa rivista il numero su Braudel (che venne a presentarlo personalmente a Bologna), i due numeri coordinati da Luce Irigaray , i due numeri su Polanyi e Hirshman, il numero “La politica e la persona” con una lunga analisi inedita della situazione politica italiana in un dialogo tra Vittorio Foa e Adele Pesce.

Nella storia di ogni rivista, dopo aver indicato chi ha collaborato ai suoi primi numeri ci sono due momenti da chiarire: la scelta dell’editore e la scelta del nome. Per quanto riguarda l’editore la serendipity agì in modo positivo e rapido come aveva agito per “Quality and Quantity”. “Inchiesta” nacque nel 1970 a Milano in un caffè vicino al grattacielo Pirelli dove mi incontrai con Raimondo Coga delle Edizioni Dedalo di Bari che mi era stato presentato da Mario Spinella. Raimondo aveva stampato l’edizione italiana della Monthly Review e la rivista mensile “Il Manifesto” il cui gruppo dirigente aveva già deciso che nel 1971 sarebbe stata trasformata in un tentare quotidiano. C’era quindi un format libero e “Inchiesta” lo occupò. Raimondo mi disse soltanto: la rivista “Il Manifesto” ha la copertina in cui i titoli degli articoli sono suddivisi in spazi orizzontali; la vostra rivista potrebbe suddividere i titoli in copertina in spazi verticali.

In quanto al nome la scelta iniziale era di dargli un nome poco appariscente come “Materiali” ma poi si scoprì che questo nome era già stato utilizzato. All’epoca io, e anche altri della rivista, collaboravamo a “Vento dell’Est” diretta da Maria Regis e Filippo Coccia e nel 1971 ero anche andato con loro in Cina insieme a Renato Rozzi e Giovanni Jervis. Venne allora abbastanza facile proporre il nome “Inchiesta” ricordando la frase di Mao “Chi non fa inchiesta non ha diritto alla parola”.

La foto di “Inchiesta “ dei primi anni ’70 è perciò quella di un gruppo di donne e uomini giovani che operavano dentro e fuori l’università e che credevano nell’importanza della ricerca, della documentazione e dell’analisi teorica in un contesto politico in cui per noi contavano tre attori: la FLM (aperta a tematiche come la scuola, la salute, le lotte di fabbrica), l’Università attraversata dalle lotte studentesche ed aperta con le 150 ore alla “classe operaia” e poi una rete di Centri, gruppi, circoli, persone che operavano negli ospedali, scuole, enti locali, sindacati ecc.. che credevano nello stesso progetto.

Oggi, ripensando a quel periodo, l’unico commento che mi sento di fare a quella foto di gruppo è sintetizzato in una vignetta a colori di Altan che, ritagliata da un settimanale, è da un po’ di tempo esposta nel mio studio. Ci sono due dei più tipici personaggi di Altan con baschetto e maglioncino. Uno commenta: “Poteva andare molto peggio”. L’altro valuta pacato: “No!”

[Questo testo è stato pubblicato in Enrico Pugliese (a cura di), L’Inchiesta sociale in Italia , Carocci, Roma, 2008]