Rete “Cresce il welfare cresce l’Italia”: Il welfare è un costo?

| 9 Luglio 2013 | Comments (1)

 

 

 

 

Il contributo delle politiche sociali alla creazione di nuova occupazione in Europa e in Italia

Scheda di sintesi del documento introduttivo alla ricerca promossa dalla Rete “Cresce il Welfare, cresce l’Italia”, disponibile nella versione integrale nel sito: www.cresceilwelfare.it

Gruppo di lavoro: Andrea Ciarini Sapienza Università di Roma (coordinatore), Roberto Fantozzi Istat e Sapienza Università di Roma, Silvia Lucciarini Sapienza Università di Roma, Anna Maria Simonazzi Sapienza Università di Roma, Emmanuele Pavolini Università politecnica della Marche, Sara Picchi Sapienza Università di Roma, Michele Raitano Sapienza Università di Roma

Il taglio della spesa pubblica che continua ad insistere sulle istituzioni del welfare deriva dalla convinzione che i servizi e le prestazioni sociali rappresentino un costo improduttivo se non uno spreco che alimenta la spirale del debito pubblico.

Al contrario investire oculatamente nel welfare non significa solo migliorare la qualità di vita delle persone e delle loro famiglie (evidenti i problemi dell’invecchiamento della popolazione, della non autosufficienza, della conciliazione vita-lavoro, della cura e assistenza all’infanzia), ma anche favorire celermente ed efficacemente l’occupazione.

La forte domanda di questi servizi è testimoniata da un dato: tra il 2008 e il 2012 (nel pieno della crisi) a fronte di una perdita di occupazione nei comparti manifatturieri di 3 milioni e 123 mila unità (Eu 15) l’incremento nei servizi di welfare, cura e assistenza è stato pari a 1 milione e 623 mila unità (+7,8%).

I Paesi europei hanno reagito in modo diverso a questa evidente crescita della domanda. Alcuni hanno puntato decisamente sull’occupazione formalizzata, pubblica o privata. Altri hanno preferito lasciare questa domanda nell’informalità e cioè “delegando” alle famiglie la ricerca di risposte. Gli esiti sia per la qualità di vita dei cittadini che per la qualità e quantità di occupazione sono stati conseguentemente diversi.

La Francia, ad esempio, ha puntato su una strategia di integrazione tra politiche di welfare e politiche per la creazione di occupazione regolare nella cura e assistenza alle persone attraverso strumenti volti a rendere solvibile la domanda, cioè a mettere le famiglie in grado di pagare i servizi con sgravi contributivi, voucher, titoli d’acquisto. Queste scelte, hanno concorso a fare emergere dal mercato informale molte delle prestazioni sociali a domicilio, contribuendo a sviluppare l’occupazione regolare nei servizi alle persone. Il settore dei servizi alle persone si è andato rapidamente sviluppando. Nel 2011 sono state 3,4 milioni (il 13% del totale) le famiglie che hanno usufruito di servizi di cura e assistenza personale, con un incremento rispetto al 2005 dell’8%. E il numero dei lavoratori salariati è giunto a 1,8 milioni.

In parte diverse le politiche della Germania. Nell’ambito delle misure adottate per stimolare l’occupazione dei segmenti più marginali del mercato del lavoro e per l’emersione del sommerso, il sistema dei cosiddetti mini jobs (impieghi remunerati per un massimo di 450 euro/mese privi di versamenti fiscali e contributivi) ha accompagnato l’introduzione di procedure semplificate per l’assunzione di personale al domicilio da parte delle famiglie, le quali possono beneficiare di sgravi contributivi e fiscali. Nel 2012 i mini jobs sono arrivati a più di 243 mila unità andando tuttavia ad ingrossare un segmento di forza lavoro strutturalmente confinata in occupazioni a bassi salari e bassi livelli di protezione sociale.

L’altro lato della medaglia è che lo sviluppo dell’occupazione nei servizi sociali – che potrebbe essere ben maggiore in particolare in Italia – ha premiato soprattutto la crescita numerica degli impieghi, senza un pari sviluppo sul versante della qualificazione dell’occupazione creata, spesso a più bassi salari o sprovvista di adeguate tutele. L’effetto certamente positivo dell’emersione del lavoro sommerso non è sufficiente: gli investimenti sulla crescita dell’occupazione nei servizi di cura devono puntare anche alla qualificazione e alla tutela sociale dei lavoratori.

Ma qual è la situazione nel nostro Paese? L’Italia si trova in ritardo su molti fronti, sul piano dello sviluppo dei servizi di cura, ma soprattutto rispetto alla individuazione di una vera strategia nazionale di sviluppo del welfare che abbia in animo la promozione dell’occupazione, oltre che la prioritaria tutela di nuovi e vecchi bisogni sociali. E ci sono degli elementi distintivi che contraddistinguono questo ritardo.

La “delega” alle famiglie e l’attribuzione ad esse del lavoro di cura è forse l’elemento di maggiore impatto. In Italia sono più di 15 milioni (il 38,4% della popolazione tra i 15 e i 64 anni) le persone impegnate regolarmente nel lavoro di cura nei confronti di figli coabitanti di meno di 15 anni, altri bambini della stessa fascia di età e/o di adulti anziani, malati, non autosufficienti, con disabilità.

Questa attività di cura familiare interessa soprattutto le donne, sia in valore assoluto (8,4 milioni di donne contro 6,8 milioni di uomini), sia in termini percentuali (il 42,3% a fronte del 34,5%). Secondo stime dell’Istat sono ben 240 mila le donne occupate che scelgono il part-time invece dell’orario a tempo pieno per mancanza di servizi all’infanzia adeguati. 489 mila sono invece le donne non occupate ostacolate all’ingresso nel mercato del lavoro per mancanza di alternative di conciliazione.

Ma oltre a questo impegno diretto, le famiglie ricorrono spesso a “badanti” o assistenti. Alcune stime indicano che la spesa delle famiglie per il lavoro di cura privato, nel 2009, è stata pari a 9,8 miliardi di euro contro i 7,1 miliardi di euro dell’intera spesa sociale dei Comuni registrata nello stesso anno. L’insufficienza di questi servizi e la bassa capacità di pagamento delle famiglie hanno fatto esplodere il fenomeno delle “badanti”, il vero pilastro del welfare all’italiana.

Ma si tratta spesso di lavoro sommerso. Detrazioni e deduzioni fiscali per chi assume regolarmente una colf o una badante sono molto limitate. Al contempo voucher e buoni lavoro non sono stati ideati per il settore specifico della cura e dell’assistenza alle persone, ma piuttosto per altre prestazioni occasionali e accessorie, dai servizi personali al lavoro in agricoltura.

Anche in questo è evidente l’assenza di una strategia di sviluppo dell’occupazione dei servizi di welfare che lascia intatti molti dei meccanismi che alimentano appunto il ricorso al mercato sommerso e al “welfare fai-da-te”.

L’invecchiamento della popolazione e l’innalzamento dell’età media generano nuovi bisogni spesso correlati alla non autosufficienza. L’Italia è uno dei pochi Paesi a non avere ancora elaborato una politica ad hoc per la non autosufficienza: si pensi che nel pur ridondante corpus normativo italiano non esiste nemmeno una definizione giuridica univoca di “persona non autosufficiente”. Nel 2007 era stato istituito uno specifico Fondo nazionale per la non autosufficienza, la cui copertura è giunta all’azzeramento nel 2010, per poi essere rifinanziata nel 2013. Fra il 2008 e il 2012 la destinazione di risorse ai Fondi sociali è crollata del 90%. Solo nel 2013 il Fondo nazionale politiche sociali è stato rifinanziato per un totale di 300 milioni, a cui vanno ad aggiungersi 275 milioni di euro per il Fondo non autosufficienza. E per il 2014, al momento, il Fondo nazionale politiche sociali e il Fondo per la non autosufficienza risultano azzerati.

In questo scenario il costante taglio dei fondi ha lasciato incompiuta la prospettiva di crescita delle prestazioni sociali e della conseguente occupazione, innescando una spirale al ribasso anche per le organizzazioni del terzo settore, di fatto messe alla stretta dalla drastica diminuzione della spesa sociale. Infine, nell’ambito delle prestazioni sociali si evidenzia un profondo squilibrio da Nord e Sud con distanze che tendono ad allargarsi in un quadro di regionalismo a scarso coordinamento dal centro.

Emblematica è la condizione dei servizi di cura per la prima infanzia. I tassi di copertura degli asili nido sono nettamente al di sotto delle reali dimensioni della domanda. L’indice di presa in carico 0-2 anni (anno 2010) è dell’11,8% a livello nazionale, ma con forti variazioni regionali, dal 25,4% dell’Emilia-Romagna e 22,3% dell’Umbria, al 2,3% della Calabria e 1,9% della Campania. A fronte di regioni (nel Centro-Nord) vicine agli obiettivi fissati dal Consiglio europeo di Barcellona del 2002 (il 33% di copertura dei servizi in tutti i Paesi europei entro il 2010), ve ne sono altre, tutte nel Mezzogiorno, in pesante ritardo.

La stessa percezione dei Cittadini rispetto alla loro salute si modifica al mutare della quantità e qualità dei servizi sociali. Incrociando i dati dell’indagine ISTAT sugli interventi e servizi sociali dei comuni con la percezione delle condizioni di salute emerge chiaramente una correlazione negativa tra la spesa nei servizi sociali e il grado di disuguaglianza nella salute percepita dai Cittadini. Laddove la spesa sociale è più alta, più basso è il grado di disuguaglianza nella salute percepita dai Cittadini. In altri termini l’aumento della spesa sociale (o meglio nelle regioni che spendono di più in cura e servizi sociali) diminuisce la disuguaglianza nella percezione delle condizioni di salute.

Come è stato di recente sottolineato da alcuni studi, l’uso della spesa pubblica per creare lavoro (in particolare nei settori ad alta intensità di lavoro e tra questi certamente il welfare dei servizi) ha effetti sull’occupazione molto più alti e in tempi più rapidi rispetto ad altri tipi di misure: fino a 10 volte superiori rispetto al taglio delle tasse, da 2 a 4 rispetto all’aumento di spesa negli ammortizzatori sociali o alla riduzione dei contributi sul lavoro per le imprese.

Sarebbe una “ricetta”, quindi, diversa (o forse solo complementare) rispetto alla prevalente, concentrata quasi esclusivamente sulle agevolazioni fiscali e gli incentivi all’assunzione. In sintesi: per rilanciare l’occupazione si stanno preferendo politiche che agiscono sull’offerta, mentre – e nell’ambito del welfare ne abbiamo l’esempio – sarebbe vincente puntare anche sulla “domanda”, laddove ce ne siano i presupposti. Se bene congegnato l’investimento nei servizi di welfare è un fattore che non solo migliora il grado di salute per quote tendenzialmente ampie e omogenee di popolazione, ma aiuta anche a bilanciare i processi di de-ospedalizzazione e gli interventi di “razionalizzazione” sulla rete ospedaliera, destinatari, in seguito all’ultima spending review, di forti tagli.

Gli interventi per favorire l’occupazione non sembrano andare in questa direzione. C’è una forte enfasi sull’investimento in educazione e formazione e sulle politiche attive del lavoro come leva strategica per la ripresa occupazionale. Il settore dei servizi sociali viene visto come uno degli ambiti nei quali innovare l’intervento dei programmi dell’Unione, con particolare riferimento – tra l’altro – alla promozione di buona occupazione. Si continua però a puntare sostanzialmente sul miglioramento delle condizioni di occupabilità e adattabilità dei lavoratori. Insomma siamo ancora dentro un paradigma di politiche solo offertiste. Di contro niente è rimesso alla creazione diretta di occupazione attraverso un innalzamento degli investimenti finanziari nelle politiche sociali, come leva strategica per la creazione di nuovo lavoro.

Positivo anche il recente vertice europeo di fine Giugno 2013: sono previste misure innovative per il contrasto della disoccupazione, soprattutto quella giovanile con 6 miliardi per l’istituzione della Youth european guarantee nei Paesi (tra cui l’Italia) con tassi di disoccupazione giovanile superiori al 25%.

Tuttavia il problema appare lontano dall’essere risolto se affrontato con soli strumenti che intervengono sull’offerta di lavoro (più flessibilità, più occupabilità), senza politiche in grado di incidere anche sulla domanda.

In questa prospettiva sarebbe invece opportuno raccogliere l’opportunità offerta dalla decisione della Commissione UE che ha concesso, proprio in queste ore, all’Italia una maggiore flessibilità di bilancio nel 2014 per investimenti produttivi e per rilanciare la crescita.

Questo testo è stato pubblicato il 5 luglio 2013 in www.cresceil welfare.it

 


Category: Welfare e Salute

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