Non credo di peccare di ciò che si definisce “giovanilismo”, se ricordo che qui da noi, in Italia, una larga parte della più giovane generazione ancora una volta ha determinato una svolta a vantaggio dei sentimenti migliori dell’animo umano. Di fronte al dilagare di una campagna di odio – contro i migranti, contro le idee di solidarietà, contro tutti i diversi, contro tutto ciò che potesse apparire anche vagamente progressivo o di sinistra – di fronte alla ripresa di toni razzisti, e il risollevarsi di accenti apertamente fascisti sono stati gruppi di giovani ad avere l’idea di unirsi come le Sardine scendendo in piazza in nome della correttezza istituzionale degli eletti, dell’adesione ai fatti nell’informazione, dell’esclusione della violenza nella contesa politica, del rifiuto dei famigerati “decreti sicurezza”. Erano questi i punti che chiamavano agli incontri di piazza. E sia lecito confessare la commozione nel sentire che si levava da quelle straordinarie assemblee il canto dei partigiani.
Fu giusto, dopo il successo in Emilia del governatore uscente, il ringraziamento speciale alle Sardine del segretario del Pd, il partito maggiore della coalizione uscita vincente da un confronto che la destra aveva voluto del tutto politico. Una coalizione, va ricordato, unitaria sino a una gran parte della sinistra alternativa (la cui prima esponente ha raccolto il maggior numero di preferenze tra tutti i candidati). Senza quella mobilitazione delle coscienze promossa da gruppi di giovani il buon governo regionale, ampiamente riconosciuto, non sarebbe bastato a reagire all’urto di una campagna demagogica che faceva e fa leva sul deposito di paure ancestrali e sul disagio o sulle sofferenze non sempre avvertite da chi dirige. Il “giovanilismo” consiste nel ritenere che qualunque cosa dicano o facciano i giovani sia perciò stesso giusto. Altra cosa è riconoscere il contributo determinante delle giovani generazioni in momenti decisivi della storia nazionale che sono, sempre, non solo vicende economiche ma riguardano idee, sentimenti, passioni.
Certo, non c’erano solo giovani nelle piazze affollate delle Sardine, com’era logico che accadesse e come era accaduto in altri momenti decisivi. Al tempo della lotta di liberazione dai nazisti e dai fascisti non ci sarebbe stata la Resistenza senza il contributo determinante della nuova generazione di allora, anche se erano stati i vecchi antifascisti a propugnare con l’esempio e con l’azione le idee e la passione per la libertà di contro a chi voleva mantenere viva la tirannide. E quando fu tentato nel 1960 un governo con i neofascisti furono i ragazzi “dalle magliette a strisce” a scendere in piazza in nome dei valori della ReIl corpo e l’anima 3 editoriale sistenza e della democrazia, sfidando una dura e sanguinosa repressione, trascinando così i partiti di sinistra e gli italiani, determinando la rapida fine di una sciagurata esperienza.
Nel 1968 degli studenti, seguito dal 1969 dei lavoratori in lotta, quei giovani nelle scuole e nelle fabbriche furono mossi dall’insofferenza per l’autoritarismo, per il burocratismo, per gli arbitri padronali e divennero protagonisti di un cambio di mentalità, di costume e di norme legislative che portò alla affermazione di essenziali diritti di libertà, dallo statuto dei diritti dei lavoratori alla soppressione del potere maschile in famiglia, dal divorzio al riconoscimento dell’autodeterminazione delle donne nell’interruzione di gravidanza. Nei tempi più recenti, volevano essere certamente positive le intenzioni dei giovani che venivano constatando la sclerosi dei partiti della sinistra, incapaci di prendersi cura del loro disagio e di quello dei tanti colpiti dalla crisi e dalla globalizzazione, e pensarono di reagire alla stagnazione politica, alla mancanza di avvenire, a un destino di precariato a vita con la richiesta di una sorta di repulisti totale (la dannazione, il “vaffa”, per tutti i “politici”) predicato dal creatore dei 5 stelle. Una richiesta poi semplificata ulteriormente con l’invocazione, divenuta esclusiva, all’onestà. Come credo si ricordi, la presenza delle Sardine, ma inscatolate cioè defunte e decapitate, fu evocata dalla promessa di «aprire il Parlamento come una scatola di sardine». Espressione sostitutiva della riduzione del parlamento a «bivacco di manipoli» ma, certo, vagamente minacciosa. Che si è risolta nella continuazione di un costume perverso di riduzione continua della funzione parlamentare a vantaggio del governo e in un taglio del numero di parlamentari che riduce la rappresentatività delle Camere e porta ad un risparmio assolutamente esiguo (57 milioni all’anno, 0,007 della spesa pubblica). Cifra lontana – la metà – di quella propagandata, e facilmente realizzabile col taglio degli stipendi anziché della rappresentanza territoriale. Molta demagogia, poco costrutto.
Al contrario le Sardine non in scatola ma vive, hanno mostrato di voler combattere la demagogia e hanno proclamano la necessità di non dare risposte sommarie e semplicistiche a questioni complesse. Accade ora che la formazione di maggioranza relativa in Parlamento – conquistata nelle ultime elezioni politiche – appaia in forte declino. Non hanno giovato le proposte talora illusorie, talora erronee e la ambiguità – segnalata non solo da noi a suo tempo – delle posizioni che avrebbero dovuto essere identitarie come quella di proclamarsi “né di destra né di sinistra”, collocazione editoriale 4 generalmente usata, come si sa, per coprire la destra e attirare elettori di quella parte. Il che divenne chiaro durante l’alleanza con un partito, la Lega, esplicitamente schierato a destra (con un capo furbesco, smargiasso e fascistizzante) e perciò fautore di soluzioni retrive, dall’immigrazione alla tassazione, il che fatalmente svuotò il movimento dei 5 stelle, riottoso a tale deriva, di tutta quella metà degli elettori che a destra volevano andare. Sarebbe certamente un errore, però, pensare di contribuire dalla parte del centro sinistra al processo di caduta di quel movimento.
Credo che occorra guardare con rispetto ad una discussione dai toni accesi, e che chiunque si collochi a sinistra, a partire dai moderati, dovrebbe proporsi di capire bene le ragioni migliori che hanno mosso tanti giovani a promuoverlo o a sostenerlo. Penso che tra le Sardine che hanno riempito piazza Maggiore a Bologna unitamente ai ragazzi e alle ragazze delle ultime leve, oltre a donne e uomini di fede democratica e progressista, ci siano stati non pochi di coloro che dieci anni fa sulla medesima piazza fecero navigare Beppe Grillo in gommone sulle loro teste. Credo che sia stato un errore, dinnanzi a una battaglia così radicalizzata fin dalle sue premesse, questo correre isolati dei 5 stelle. Ma recuperare quel movimento a una politica unitaria ora che si chiarisce che il confronto è tra destra e sinistra significa anche farsi carico delle sue migliori ragioni, tra cui la critica a un modo sbagliato di concepire la politica come affare di un ceto.
Credo inoltre che non ci si debba illudere, quali che abbiano da essere le sorti del governo, che il consenso registrato dal candidato di centro sinistra nella battaglia delle regionali in Emilia – un consenso di cui fanno parte anche tanti voti dei 5 stelle – sia da considerarsi acquisito per sempre. D’altra parte non si deve dimenticare che, perdente in Emilia e vincente in Calabria come in altre regioni meridionali e del Nord, si conferma l’esistenza di una corrente popolare verso posizioni pericolose innanzitutto per gli stessi lavoratori, che hanno pur votato in gran numero per una destra xenofoba e autoritaria ritenendo di fare i propri interessi e, forse, attratti, come in Inghilterra, dall’idea di un nazionalismo “forte” con un governo “forte”. Bisogna capire bene i motivi di un consenso che si mantiene così vasto. Il discorso della destra detta “populista” è tale perché si presenta anche come un discorso “di classe”: il popolo contro l’élite, i “radical chic” votano a sinistra, l’élite sta bene e se ne frega di chi soffre, non mettono le tasse sulle multinazionali perché sono loro amici… e via dicendo. Lo stesso consenso a posizioni di 5 editoriale odio razziale si alimenta, com’è ovvio, di temi “classisti”: gli immigrati, si dice, portano via il lavoro e fanno abbassare i salari.
Molti elettori della sinistra storica votano Lega perché si sono sentiti abbandonati dalla loro parte e non è un paradosso che si sia diffuso un malanimo verso i settori politici che dicendosi di sinistra avrebbero dovuto essere considerati i meno responsabili dei guasti creati dalle forze dominanti dell’economia con la crisi e con la globalizzazione. L’ansia di dimostrarsi più capaci della destra nella conduzione dell’economia dominata dal capitale finanziario comportava l’accettazione della dottrina che spiega i disagi o le sofferenze nelle classi subalterne come danni collaterali e temporanei di un processo da considerarsi in ogni modo positivo e progressivo. In più laddove, come in Italia, le maggiori forze della sinistra novecentesca avevano ripudiato tutto il loro passato anziché discernere le parti caduche o erronee da quelle vitali, la sinistra moderata è apparsa come un corpo senza anima anche a quei settori democratici che pure avevano fortemente lavorato per una piena mutazione genetica. Col risultato aberrante, ad esempio, di sentirsi rinfacciare l’esempio di Berlinguer dagli eredi di coloro che l’avevano combattuto per tutta la vita.
Quelle Sardine non sono state unicamente, come si è detto, un richiamo al vecchio costume di scendere in piazza. Sono state senza strepiti e senza retorica, il richiamo a un mondo di valori spesso considerati sorpassati, e spesso dimenticati. L’antifascismo, l’antirazzismo, la Resistenza, la democrazia come partecipazione, il bisogno di unità tra diversi ma accomunati da un sentimento comune. Nessuna nostalgia. Ma, certo, il bisogno di un’anima.