Profumo di donna
Una doverosa premessa
Certo il paragone è improponibile: da un avvocato fallito, incapace persino di sostenere gli esami abilitanti al proprio paesello, o nell’intero perimetro della Padania, qualsiasi cosa essa sia, siamo passati a un Rettore, ingegnere, gestore di un prestigioso politecnico. Verrebbe da dire: nunc est bibendum, nuc pede libero pulsanda tellus. Purtroppo tuttavia (o per fortuna) la politica non è proporzionale alla cultura, né alla qualificazione personale e intrinseca, almeno allo stato attuale della conoscenza che abbiamo sull’intelligenza umana. È ben noto come la cosa più difficile, causa sistematica di crisi della Intelligenza artificiale, sia la rappresentazione del così detto “buon senso”. E allora la domanda si fa cruciale: chi può fare più danni alla ricerca, chi scava tunnel sotto il Gran Sasso procedendo a vanvera, strumento cieco di occhiuta tremontica rapina, o chi ha tutti gli strumenti culturali per realizzare un disegno suo proprio, e magari proprio quello che non ci vorrebbe?
Gli ottimisti
C’erano gli ottimisti: ora voi che siete al governo, e avete giurato e stragiurato (spergiurato?) che la legge Neutrini l’avreste stravolta, ora pagate l’obolo. Scriviamo subito così ai tanti, a Bersani, a Di Pietro.
Risposta scontata (e comoda): noi non siamo mica al governo, il nostro compito è quello di salvare quello che sì può delle terga.
Mi sono opposto, infatti, nel mio piccolissimo, a tali iniziative. Buona grazie se si fosse riusciti a limitare i danni che la 240, come scheggia nelle carni di kierkegardiana memoria, sta facendo. Alle prime avvisaglie, mi pare il il nuovo ministro, nome prestigioso ed in più sensi aulente, certo più avvezzo ai consigli di amministrazione che ai laboratori di ricerca, abbia sostenuto e ribadito con vigore un concetto: ora l’università ha bisogno di stabilità. È una stabilità assurda, contraggenia al nostro sentire, una sterco-stabilità? Bene, ma è stabilità.
Segnali di continuità
Il nuovo Ministro Profumo, non presente alla illustrazione della “manovra” (e già, che c’entra la ricerca con lo sviluppo), è stato fino ad ora assai parco di esternazioni. Ma qualcuna delle poche che ha fatto merita grande attenzione. “Io voglio usare bene le risorse che ci sono. Finora non è stato fatto” (intervista di Andrea Rossi su La Stampa).
Questo perché? Dove sta lo spreco? “Non si è investito in tecnologia. La conseguenza è che una parte della spesa è parassitaria”.
Ecco, da qui dovremmo cominciare a preoccuparci. Che cosa si vuole davvero, trasformare la ricerca italiana in un mega politecnico, che serva a far durare di più le gomme della Pirelli? Che sforni tanti brevetti da fare invidia al mondo intero? Quand’anche fosse possibile (esempio paradigmatico di controfattuale, poiché si sa bene che in questo campo i risultati sono strettamente correlati agli investimenti), è questo che vogliamo dalla nostra accademia?
Durante i più recenti “programmi quadro” l’UE ha insistito molto sul concetto di “cultural heritage”; a solo titolo di esempio rimandiamo all’intervento «Cultural heritage as a vehicle of cultural identity».
Ora, qual è la nostra identità culturale? E, rispetto ad essa, di che accademia abbiamo bisogno? Siamo sicuri che la sfida che ci attende sia quella di misurarci con gli ingegneri indiani sulla produzione del software, o con quelli coreani nel realizzare le schede madre dei computer?
Più in generale, dalle affermazioni di Profumo emergono vari tratti in piena continuità con il pensiero della Gelmini (che qui si usa come eponimo, non che la persona sia accusata di una qualche consapevolezza). La fotografia del passato: sprechi, scarsa attenzione al mondo dell’impresa, che è visto come terminus ad quem, cioè finalità sovrana della ricerca, forte preferenza per la ricerca applicativa e di breve durata. È davvero questa la nostra cultural heritage? C’è un fumus gelminicus nelle prime affermazioni nel nuovo ministro. Ma di oltre tremiliardiemezzo di donne, proprio di quella dovevamo trattenere il profumo?
Altre vie possibili
Oggi si vanno facendo strada teorie economiche che non assumono più l’incremento della ricchezza e delle merci come assioma. E questo dischiude automaticamente la questione di che cosa sia, allora il “progresso”. Da qui Ciccarelli e Allegri, ne La furia dei cervelli, hanno l’ardire, a nostro parere ancora non colto appieno da pur tanti attenti lettori, di mettere in discussione nientemeno che l’articolo 1 della Costituzione. La nostra società è davvero, necessariamente, fondata sul lavoro? Il fine ultimo, il telos dell’homo sapiens sapiens, è e deve essere per sempre una lotta disperata per l’aumento progressivo e monotòno delle merci e della ricchezza? Da questa irridente e provocatoria domanda discende in modo diretto l’altra domanda: che cultura, che accademia, che ricerca ci serve? Dove il “ci serve” è riferito al senso della vita, non alla tenuta delle gomme Pirelli.
La domanda ha il retrogusto, forte e amaro, della più fondamentale delle questioni filosofiche. O, al contrario, il fato, più potente anche degli dei, vuole che cerchiamo brevetti tutta la vita, che sostituiamo all’heideggeriano “vivere per la morte” il più pragmatico, e certamente meno lugubre, “vivere per il brevetto”?
Dante? Be’, che c’entra, lo possiamo buttare via no? E’ indubbiamente il caso più emblematico di “cultura parassitaria”, non vorremo mica brevettare la barca di Caronte?
È questa la nostra, nostra di europei, padani compresi, cultural heritage? È questo che vogliamo, noi, il 99%?
Il nuovo ministro si è affrettato ad emanare un bando per i PRIN, i “progetti di ricerca di interesse nazionale”. Con una chiara dipendenza dalla mentalità ingegneristico-applicativa, e con una serie di ingenuità tali che, subito a ruota, ha dovuto provvedere a numerose modifiche, e a correggere quel minimo per salvare la faccia.
Il pactum subjectionis al dio mercato
E d’altra parte, se vale il monito “il dio mercato lex suprema esto”, il disegno è coerente, l’istruzione un dovuto corollario. Ma è questo che vogliamo per il nostro futuro, meglio, per il futuro dei nostri figli? Indulgiamo a un vizio dell’intelligenza, o, meglio della fantasia, gioca insieme a me una volta ancora tu, lettore ipocrita, che coltivi in segreto tutti i vizi dell’intelligenza. Siccome oggi mi sento allegro, ecco, mi immagino sul letto di morte, dopo avere lavorato una vita per fare studiare mio figlio; e gli parlo: “Ecco, vedi figliolo, devi essermi grato: quanto ho lavorato per te, per farti studiare; quanti straordinari, quante rinunce! Ma adesso tu, figliolo, puoi ben dire che sai come rendere un po’ più rosso un aperitivo facendo meno uso dell’E124. Ed è per questo che muoio contento!”
Luminoso futuro per il popolo di santi, navigatori, poeti e coloratori. L’unico dubbio è che sono quasi certo che mio figlio mi ribatterebbe: “Papà, mi prendi per il culo anche sul letto di morte?”
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