Docenti preoccupati: Basta con la polizia dentro l’Università
Sabato mattina la polizia è entrata nel Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna e ha sgomberato gli spazi occupati il 9 aprile dal collettivo “HOBO. Laboratorio dei saperi comuni”, mettendo sotto sequestro i materiali che lì si trovavano. Si tratta di un copione che sfortunatamente, negli ultimi tempi, abbiamo visto spesso, troppo spesso, e che non ci piace: calpesta infatti tutti quei principi – dialogo, ascolto, intelligenza, capacità di interpretare i (e rispondere ai) segnali provenienti dal mondo reale – che dovrebbero caratterizzare un’istituzione come l’Università.
Ci risulta che la situazione a Psicologia fosse molto tranquilla: gli studenti non avevano fatto altro che rianimare spazi sottoutilizzati, trovando supporto e collaborazione anche tra i docenti e i TA, addirittura intervenendo a un Consiglio di Dipartimento, per mantenere aperto il confronto con le diverse componenti universitarie. Il collettivo aveva cominciato a lanciare una serie di iniziative sulla legge 240, sulla valutazione e su altri temi cruciali per il presente e il futuro dell’Università: lo sgombero interrompe dunque brutalmente un percorso di riflessione e di condivisione che stava nascendo.
E qui sorge la domanda: perché? E’ di pochi giorni fa la notizia che l’Ateneo di Bologna sta avviando una sperimentazione – promossa dall’ANVUR – per valutare le competenze generaliste dei laureandi, con l’esplicito obiettivo di misurare – tra le altre cose – il “pensiero critico”: è d’obbligo constatare come la volontà di “misurarlo” (bizzarra idea, sia detto per inciso) appaia inversamente proporzionale al desiderio che un autentico pensiero critico si produca o si liberi in una dimensione di autonomia, dentro spazi autogestiti e non pre-formattati.
La consuetudine, che sta prendendo piede nell’Ateneo di Bologna, di risolvere ogni problema chiamando la polizia, ossia di ricondurre qualunque domanda di democrazia e di spazi, qualunque conflitto, a una questione di ordine pubblico, ci sembra davvero inquietante e apre scenari cupissimi. L’obiezione, da molti brandita in simili occasioni, che l’Ateneo di Bologna non può dare locali a chiunque occupi, a ogni collettivo che nasce, è poco più che demagogia. Lo schema – a ben vedere – va rovesciato. Se sempre più spesso, nell’Università come nella città, spazi vengono occupati, e animati, da gruppi di studenti, di precari, di giovani, di cittadini, questo dovrebbe dire qualcosa ai vertici dell’Ateneo. Dovrebbe suggerire loro che ci sono bisogni, tensioni sociali, progetti e saperi che non trovano espressione nei cosiddetti canali istituzionali. Dovrebbe spingerli a riflettere sul fatto che quei canali, forse, sono ormai logori e svuotati, e che necessitano di essere ripensati nei termini di una democrazia sostanziale e non solo formale. Una bella occasione per esercitare un po’ di “pensiero critico”.
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