Mario Tronti: Un pensiero lungo sui rapporti tra capitale e lavoro

| 25 Ottobre 2011 | Comments (0)

 

 

 

DIBATTITO SU STORIA DEI RAPPORTI TRA CAPITALE E LAVORO

Sulla storia dei  rapporti tra capitale e lavoro pubblichiamo l’intervento di  Mario Tronti, nel recente convegno “La dignità del lavoro nel tempo della crisi” organizzato nell’Eremo di Monte Giove, nei pressi di Fano, partendo dal valore politico del lavoro rilancia un progetto di coalizione sociale del lavoro unita a una coalizione sociale della sinistra.


Riprendo il filo che è stato tracciato il primo giorno dalle due relazioni: un filo storico, teorico, filosofico e anche teologico. La giornata di ieri ha opportunamente ravvicinato il problema, ha sottolineato la seconda parte del titolo di questo convegno “La dignità del lavoro  nel  tempo della crisi”  e si è entrati molto bene, con un dibattito acceso, appunto, nel  “tempo della crisi”,  analizzando il lavoro oggi,  in un passaggio molto critico dal punto di vista economico-finanziario e anche dal punto di vista sociale.

Questo è nello stile degli incontri di Monte Giove, dove c’è sempre uno sfondo strategico, un pensiero lungo, che poi però plana delicatamente dentro le grandi questioni del presente, tenendo sempre in rapporto un pensiero sulle cose e una presenza dentro le cose, dentro gli avvenimenti che accadono. Il filo è partito dalla idea del lavoro, anche premoderno, che si liberava dal tradizionale tratto servile, dall’idea di fatica che il lavoro ha sempre avuto, cercando di emanciparlo da questa origine, che, sappiamo, è anche un’origine teologica. Sono stati così ricostruiti i grandi passaggi. Dal monachesimo, soprattutto benedettino, che prende il tema del lavoro come una sorta di forma umana, come presenza nel mondo, e lo mette allo stesso livello della preghiera, della meditazione, della contemplazione, si è passati, con la Riforma, al lavoro come vocazione professionale, come chiamata divina per l’uomo. Viene così dato un grande senso, grande dignità, al lavoro umano che arriva  poi, come approdo ulteriore, al lavoro nella esperienza del  movimento operaio, che riprende questa tradizione. Il movimento  operaio è importante vederlo non come una irruzione improvvisa nella storia, una irruzione che arriva nella modernità. Il movimento operaio ha dietro di sé un cammino di lunga durata, affondando le sue radici non solo nella storia delle classi subalterne, ma anche nella proposta di soluzioni di solidarietà, da trovare tra chi lavora. Un esempio è l’esperienza del compagnonnage medievale, che arriva alla cooperazione e al mutualismo ottocenteschi, al lavoro professionale come lavoro artigianale, alle arts and crafts, fino al lavoro alienato della grande industria. La storia del movimento operaio non si può perciò vederla conclusa, perché venendo così da lontano va anche lontano. Perciò, anche se oggi alcuni aspetti sembrerebbero indicare la conclusione di questa storia, non bisogna fermarsi a questa apparenza ed è nostro compito, di pensiero, di riflessione, cercare di capire come questa storia possa proseguire.

Vorrei fare una prima breve riflessione su un passaggio: lavoro e pensiero. Schematicamente posso enunciarla in questo modo: il lavoro ha prodotto pensiero e sul lavoro si è speso pensiero umano sia in epoche lontane che, tanto più, nella modernità. Questo è molto importante, perché quando una condizione umana ha bisogno di pensiero e si esprime attraverso il pensiero vuol dire che si tratta di un aspetto fondamentale, un tratto di fondo della generale esistenza umana. Il problema allora è come continuare questo pensiero sul lavoro. In questa lunga storia c’è stato, appunto, uno scatto nella modernità. Quando nasce la figura del lavoratore libero, il lavoratore non più schiavo né servo, si tratta di una condizione importante, materiale e sociale, che non è solo il risultato di una rivendicazione di chi lavora, ma anche una condizione provocata da un movimento strutturale della società: nella modernità, infatti, inizia la grande storia del capitalismo contemporaneo. Il capitale, che ha espresso nei primi lunghi terribili decenni della accumulazione primitiva tanta violenza e brutalità, il suo lato orribile che oggi si tende a dimenticare, ha avuto bisogno esso stesso, per continuare ad accumularsi, della libertà del lavoro, di far circolare la forza lavoro, di liberare il lavoro dalle sue servitù in modo da potervi accedere con facilità. Nel momento in cui si presenta il lavoro libero c’è come bisogno allora di uno scatto ulteriore, emerge la necessità di pensare il lavoro. Nasce allora l’economia politica classica che, da Adam Smith in poi, è tutta una riflessione sul lavoro come momento fondante, cioè produttivo, rispetto al capitale.

È importante una precisazione, e mi preme sottolinearla con forza. Nella lettura che faccio di questa storia, io leggo il lavoro come un concetto politico e non come concetto economico. Si può ovviamente leggere il lavoro come concetto economico ed è questa la lettura più corrente, ma io ho imparato a leggerlo come concetto politico, per esperienza diretta, frequentando da vicino le lotte di quella che è stata l’ultima classe operaia, quella emersa nel Novecento. Contemporaneamente ho confermato l’esperienza con ragioni teoriche, a partire dall’opera di Marx. Il lavoro è una grande categoria politica della modernità. A sollevarla da concetto economico al terreno alto della politica, perché quando si parla di politica è sempre un terreno alto, questo è stato il merito storico del movimento operaio. Nessuno avrebbe potuto fare questo se non l’esperienza del movimento operaio con tutta la grande teoria che ha espresso, ripeto, a partire dall’opera di Marx e negli sviluppi del marxismo, soprattutto novecentesco. E questo innalzamento del lavoro a categoria politica è tanto vero che, nella prima modernità, il lavoro non viene soltanto pensato da parte degli economisti ma anche dai grandi pensatori politici. Locke, pensatore padre del liberalismo, dedica molte pagine al lavoro umano. E in generale si può affermare che il lavoro ha ricevuto attenzione più dai pensatori liberali che da quelli democratici: ad esempio più da Locke che da Rousseau.  E questo perché i liberali sono sempre pensatori più realisti rispetto a quelli democratici ed è per questo che dedico spesso molto attenzione alle loro opere, perché danno più direttamente conto della realtà delle cose. Non solo il pensiero politico ma anche la classica filosofia moderna ha pensato il lavoro. Hegel è stato un grande pensatore del lavoro. Da giovane, a Jena, nella Realphilosophie e poi nella Fenomenologia dello spirito. Kojève, rileggendo magistralmente questo libro, ha ritrovato in Hegel le due decisive categorie: il lavoro e la lotta. Ancora, nei Lineamenti di filosofia del diritto il lavoro viene analizzato all’interno della società civile, dentro il  sistema dei bisogni, a fondamento dello Stato. Quindi anche la filosofia ha pensato il lavoro. Poi c’è stato Marx, il massimo pensatore del lavoro, che ha riassunto un po’ tutte queste dimensioni, attraversando tutte queste discipline. Da giovanissimo si occupa del lavoro da filosofo con gli scritti del ’44, i Manoscritti economico-filosofici, poi se ne occupa da economista, da critico della economia politica, quindi se ne occupa da storico delle lotte operaie e dei conflitti di classe. Nei moti rivoluzionari, del 1848, del 1871, egli vede spesso più di quello che c’era nella realtà, perché, come tutti i grandi pensatori, egli anticipa ciò che avverrà. Le lotte che egli immaginava nella Parigi del tempo non erano operaie, ma egli le prevede e le lotte operaie verranno nel Novecento.  Poi se ne occupa come politica pratica chiedendosi, dalla prima Internazionale in poi, come può essere organizzato politicamente il lavoro, quando il lavoro astratto, che è l’idea marxiana della forza lavoro, parte interna del capitale, parte antinomica del capitale stesso, si ricongiunge a quella del lavoratore libero, questo incontro provoca l’idea e la pratica di un nuovo soggetto che entra nella storia, il soggetto lavoro, che si presenta come soggetto politico, in quanto soggetto operaio.

Detto questo, la giornata di ieri è stata importante perché ha presentato analiticamente riflessioni sul diritto, sui cambiamenti tecnologici più avanzati, sul sindacato oggi. Il lavoro così viene avanti non come una categoria fissa. Il mondo del lavoro non è immobile. Nel tempo storico in generale, e non solo nel tempo della crisi, si parla di trasformazioni del lavoro che dobbiamo tenere sempre d’occhio e che oggi sono praticamente eccezionali anche rispetto al passato, perché sempre più profonde, accelerate, radicali. Il tempo che avevamo alle spalle era più lento, il tempo attuale è enormemente accelerato e le trasformazioni, sia quelle tecnologiche che quelle sociali, si fanno sempre più pressanti. Raccomando sempre ai soggetti alternativi antagonisti di non inseguire in modo subalterno questi cambiamenti, ma di farsi capaci a volte di trattenere questa accelerazione, di rallentarla. La mia idea é che non bisogna seguire mai l’innovazione in quanto tale, bensì  metterla sotto critica per vedere dove favorisce e dove danneggia la parte lavoro. Bisogna avere la forza di trattenere questa accelerazione per fare in modo che anche le conquiste tecnologiche siano assimilate prima che ne giunga un’altra e in modo tale che ci sia lo spazio per una risposta alternativa.

Non si può parlare di lavoro senza parlare di capitale. Sono due dirimpettai che stanno  sempre insieme e quando cadranno, se cadranno, lo faranno insieme. Il capitalismo è un grande sistema dinamico di contraddizioni, vive per la contraddizione. Oggi siamo in una fase in cui tutti ci si lascia trascinare a rimorchio delle emergenze, anche delle emergenze di crisi mentre bisognerebbe rilanciare, e non ne vedo tracce in giro, una grande critica, globale, e di nuovo strategica, del capitalismo in quanto tale. La crisi di oggi non è normale ma non credo, come è stato detto anche qui, che sia  irreversibile. Il capitalismo è un sistema di crisi, ha bisogno della crisi per rilanciare il suo sviluppo. C’è sempre un intreccio continuo tra crisi e sviluppo, anche se  ci sono delle crisi, eccezionali, che il capitale  fa fatica a controllare, come è stata la crisi del ’29 che per uscirne  ha avuto bisogno molto più delle politiche keynesiane, ha avuto bisogno  della seconda guerra mondiale. Oggi la crisi sembra di quel tipo, una crisi che il capitale ha difficoltà a controllare e quindi passibile di vari sviluppi. Ma è sempre una crisi che può rientrare non so se verso un rilancio  dello sviluppo,  comunque, sicuramente, verso un ordine mai messo in discussione.  Il capitalismo, se non c’è un soggetto altro che lo mette in discussione, da solo non può che cercare, come si dice, di rimettersi in carreggiata.

La crisi di oggi viene attribuita al recente dominio assoluto del neoliberismo. La fase è quella di un capitalismo vissuto nella illusione di un proprio autogoverno, basato sulla onnipotenza di una lex mercatoria, sul primato del mercato sulla politica, della produzione globale sullo Stato nazionale. Il capitalismo ha pensato che il mercato fosse sufficiente a risolvere a livello mondiale le proprie contraddizioni interne, economiche e finanziarie, e quando questo non è avvenuto, ha fatto e fa di nuovo ricorso alla politica. Allora arriva Obama a salvare le banche americane, arrivano le banche centrali a comprare i titoli per aggiustare gli spread, arrivano gli Stati nazionali a fare la guardia al loro capitalismo: una storia che abbiamo già conosciuto. Il capitalismo per risolvere le sue contraddizioni economiche e finanziarie avrà sempre più bisogno dell’aiuto della politica, della forma statuale, anche in figura sovranazionale. Il capitalismo, per andare avanti, ha sempre avuto bisogno di nuove frontiere, di nuove sfide. È questa la sua struttura logica per svilupparsi. La nuova frontiera americana è stata necessaria al capitalismo americano. E ci deve sempre essere una nuova frontiera per lo stesso capitalismo-mondo. La globalizzazione va vista come una progressiva conquista del capitalismo di tutti i territori del pianeta. Ma quando tutto il mondo sarà globalizzato, quando non ci saranno più margini di conquista di nuovi territori, cosa accadrà del capitalismo? Questa è la grande domanda da porci. Quando il capitalismo arriverà a quel punto, allora forse si potrà pensare ad una crisi irreversibile del capitalismo; solo a quel punto ci si potrà domandare se il destino del capitalismo sarà la catastrofe, oppure l’invenzione di qualcosa di completamente nuovo.

Mi viene in mente un’idea, forse, balzana. Penso che il capitalismo si sia quasi pentito di avere abbattuto il socialismo. In fondo, aveva bisogno, per progredire, della presenza di questo avversario, che lo interrogava, lo pungolava dall’esterno, lo costringeva a trasformarsi e quindi a svilupparsi. Uno dei motivi della grande crisi odierna è proprio che al capitalismo manca questo interlocutore nemico, un avversario vero, perché i nemici che si crea adesso, il terrorismo, il fondamentalismo, non sono avversari alla sua altezza. Bush e i neo conservatori erano realisti ed erano preoccupati di essere restati senza nemico, ritenevano di non poter andare avanti senza nemico e dopo l’11 settembre hanno indicato il nemico, che  però è risultato  un nemico apparente  rispetto a quel nemico vero, e veramente pericoloso, che era rappresentato dal tentativo comunista di costruzione del socialismo.

Il capitalismo ha poi sentito un altro bisogno, quello di superare la fase taylorista-fordista, che ha rappresentato il punto acuto della lotta di classe, il punto più dicotomico, lo scontro diretto tra capitale e lavoro nella grande industria, con l’automazione, il macchinismo, la catena di montaggio, dove si formava e cresceva, minacciosa, la figura dell’operaio massa. Quello è stato veramente un pericolo reale per il capitalismo, che ha visto insorgere questo antagonista, che non riusciva a controllare. Il passaggio dalla fase fordista alla fase postfordista rivela subito a partire dal termine postfordista la differenza tra le due fasi. Quando una fase non riesce a definirsi autonomamente, ma solo in riferimento alla precedente,  significa che la prima era una fase seria mentre la seconda non lo è. La grandissima minaccia operaia nella fase fordista ha portato il capitalismo a mutare tutta l’organizzazione del lavoro, a smontare la catena di montaggio, a decentrare la concentrazione operaia, che aveva rappresentato il massimo del pericolo. Quando nella Fiat c’erano duecentomila operai che uscivano dalle fabbriche, quella era una forza ben diversa dai cinquemila di Mirafiori, con le loro enormi difficoltà di oggi. E questo è avvenuto non solo alla Fiat, ma nei grandi santuari dell’industria, automobilistica e meccanica in genere. Pensate solo a Detroit. È da qui, da questa nuova condizione della produzione, che nasce il lavoro che viene definito frantumato, diffuso, orizzontale, il lavoro delle piccole e piccolissime imprese. E questo ha funzionato molto bene dal loro punto di vista. Il pericolo mortale non c’è più. Ci sono altri pericoli nel controllo della forza lavoro ma tutto è diventato più facile per il capitalismo. Da questo ricaviamo che la concentrazione del lavoro e la ben maggiore possibilità di organizzare questo lavoro concentrato sono state una componente politica fondamentale di lotta.

Sorgono le domande: come si fa ad organizzare questo lavoro diffuso? Come si fa a sindacalizzare quel lavoro che si trova nella maggior parte delle imprese che hanno solo due o tre addetti? E teniamo presente che la rappresentanza sindacale del lavoro è  parte fondante di una sua rappresentazione politica. Una delle grandi difficoltà della sinistra italiana è che non riuscendo a organizzare questa forma di lavoro è tentata di abbandonarla. Il ritornello corrente è che la classe operaia non c’è più, ma questo non è vero. In Italia quei sette milioni di operai salariati che erano presenti negli anni ’70 ci sono ancora, solo che non sono più concentrati, sono spalmati sul territorio e sembrano non esistere più. Prima i duecentomila della Fiat si vedevano. Oggi, quando c’è uno sciopero generale, non si riesce neppure a contarli, perfino i calcoli sono approssimativi. L’universo del lavoro si è trasformato in un multiverso. Quei sette milioni di operai di fabbrica inoltre non si sono solo diffusi sul famoso territorio, oggi quei sette milioni non rappresentano una centralità, perché il lavoro si è trasformato, molto oltre i confini del lavoro dipendente in fabbrica. Abbiamo, in questa fase post-fordista, tutte le nuove figure del lavoro autonomo, di cui ci sono ormai diverse generazioni, le famose partite Iva. Il lavoro rimane, sono lavoratori in carne ed ossa, ma il lavoro passa dalla dipendenza all’autonomia. Ci sono poi altre trasformazioni. Il piccolo imprenditore che, soprattutto nel nord-est, è spesso una figura operaia che ha messo su impresa e che ha tre o quattro operai, è anche lui un lavoratore? È una domanda. Quando parliamo di impresa e di imprenditore non bisogna pensare solo alla  figura di un Agnelli o di un Marchionne che organizzano e danno lavoro. Oggi nella maggioranza delle imprese che sono di piccole e piccolissime dimensioni abbiamo la figura di chi coordina e di chi esegue come se la mini impresa fosse tutta e solo lavoro. È una condizione inedita. Poi c’è la grande distinzione tra lavoro materiale e lavoro immateriale. Anche qui ci sono delle analisi molto interessanti su questa figura nuova, emergente, del lavoratore della conoscenza. Sono figure reali, al di la dell’apparato ideologico che vi si può costruire sopra. E infine la nuova figura prodotta dalla crisi che è il lavoratore precario. Questa figura di lavoratore a tempo è prevalentemente e  pesantemente presente nel precariato intellettuale, ma c’è anche un precariato materiale: il  lavoratore precario di  fabbrica che viene assunto per pochi mesi e poi licenziato e poi riassunto e questo di nuovo nelle piccole e medie imprese.

Occorre poi tener conto che il capitale si è concentrato al livello mondo. È diventato il capitale mondo, e a questo livello ha generato un lavoro mondo, il lavoro che fa parte di un mercato del lavoro globale. Marchionne  può perciò dire a chi lavora per la Fiat in Italia:  o accettate le mie condizioni oppure io trasferisco la produzione in altre aree del mondo, dove c’è un esercito di riserva sottopagato e senza diritti, che mi permette di realizzare a minor costo le mie merci  da vendere.  Questo lavoro mondo ha anche un altro aspetto visibile ad occhio nudo, anche senza troppe analisi. Dobbiamo renderci conto che nei paesi degli altri continenti, basta pensare a Cina e India, ci sono centinaia di milioni di operai,  in crescita esponenziale, sfruttati con la stessa violenza e brutalità che il capitalismo ha utilizzato in Europa per la sua accumulazione primitiva. Allora in Europa fu necessaria una monarchia assoluta per permettere quella violenza e brutalità. Oggi in nazioni come la Cina, per un paradosso della storia, c’è stato bisogno di un Partito Comunista, al posto di una monarchia assoluta, per permettere questa accumulazione capitalistica che sta avvenendo con la stessa violenza. Una storia quindi straordinaria, imprevedibile, che apre squarci che generano quasi ammirazione per le novità che rappresentano.

Per concludere, plano anch’ io sull’attualità. Abbiamo innanzi tutto bisogno di un concetto nuovo di lavoro, che io definerei lavoro allargato, prendendo questo termine da Marx. Va abbandonata l’idea operaistica di lavoro, per avanzare proprio sul terreno di organizzazione politica del lavoro,  prendere atto  che il lavoro non è più concentrato nelle grandi fabbriche e nell’industria. Considerare il lavoro ristretto all’industria è stato, oltre che una grande opportunità rivoluzionaria, anche in fondo un limite del movimento operaio: perché oggettivamente la sua presenza risultava  troppo ridotta per  rompere l’involucro del capitalismo. Se si riuscisse invece ad organizzare il lavoro allargato, mettendo insieme tutte le figure di lavoratori,  avremmo una forza  enorme a disposizione, che se, ripeto, organizzata politicamente  –  questa è la condizione indispensabile – potrebbe mettere in crisi il capitalismo, dal punto di visto teorico e pratico, attaccandolo dall’interno prima che il capitalismo si riorganizzi attraverso le sue crisi interne. La rivista Polemos, di un gruppo di intellettuali dell’Università La Sapienza di Roma, ha fatto un bel numero su queste tematiche. Per fare che cosa? Se riusciamo a possedere con il pensiero e con l’analisi questo allargamento del fronte del lavoro, avremmo un progetto politico, e  non un processo solo sindacale,  ma soprattutto  politico. Non un progetto di semplice rappresentanza del lavoro ma di quello che chiamo di rappresentazione del lavoro. Dobbiamo rappresentare il lavoro nella sua dignità. Qui faccio una precisazione.  Non sono entusiasta della parola dignità del lavoro. Rischia di privilegiare una dimensione etica del discorso, che invece va declinato nella e con la politica. Gli va messa accanto allora l’altra parola, forza, che dà senso vero, realistico a una prospettiva di lotta. Oggi bisogna ridare forza al lavoro. Il lavoro allargato deve essere rappresentato in tutta la sua  dignità e forza per presentarsi, potente, di fronte al capitale, con tutte le sue caratteristiche proprie, autonome. Dobbiamo rilanciare l’idea che il lavoro ha valore politico e non solo economico. Una coalizione sociale del lavoro deve essere, deve diventare, la vera base di massa di una coalizione politica della sinistra. La coalizione sociale del lavoro  un tempo si chiamava blocco sociale, poi sono stati utilizzati termini sempre più deboli, fino ad arrivare all’attuale area di consenso, soprattutto elettorale. Un progetto politico della sinistra deve avere dietro di se la forza di una coalizione sociale del lavoro con la quale può  minacciare i governi, la Confindustria, tutti quelli che hanno oggi  nei confronti del lavoro o un atteggiamento di supponenza, che vede il lavoro come soggetto marginale,  oppure una aggressività totale, come quella espressa dai governi di destra in tutta Europa, che vede il paradosso dei ministri del lavoro come i più acerrimi nemici dei lavoratori. Il caso italiano insegna.

Quindi: valore politico del lavoro, coalizione sociale del lavoro, coalizione politica della sinistra, è questo un progetto su cui vale la pena di impegnarsi.

 

Questo intervento, trascritto e rivisto dal suo autore, è stato tenuto l’11 settembre 2011 al convegno “La dignità del lavoro nel tempo della crisi” all’Eremo di Monte Giove. Oltre a Tronti sono intervenuti Ubaldo Cortoni, Mario Miegge, Michele Faioli, Luigi Alfieri, Ilaria Lani, Giordano Mancini. L’intervento è pubblicato sulla rivista «Inchiesta» luglio-settembre 2011.


 

Category: Dibattiti, Politica

About Mario Tronti: Mario Tronti (1931) negli anni Cinquanta aderisce al PCI. Cofondatore con Raniero Panzieri della rivista «Quaderni Rossi», dirige – a partire dal 1963 – la rivista «Classe operaia»; partecipa a «Contropiano»; e fonda, nel 1981, la rivista «Laboratorio politico». Ha insegnato Filosofia politica presso l'Università di Siena e per una legislatura (dal 1992 al 1994) è stato Senatore, eletto fra le fila del Partito Democratico della Sinistra. Attualmente presiede la Fondazione CRS (Centro per la Riforma dello Stato), un luogo di studi e iniziative fondato da Umberto Terracini e a lungo presieduto da Pietro Ingrao. È uno dei principali fondatori dell’operaismo italiano. Il suo libro Operai e capitale – pubblicato da Einaudi nel 1966 e ripubblicato, a quarant’anni di distanza, nel 2006 da DeriveApprodi – è unanimente riconosciuto il testo fondamentale di questa originale e radicale componente del marxismo teorico europeo, la cui diffusione, negli anni Sessanta, ha determinato la formazione di una mentalità e di un lessico fortemente innovativi, diventando un libro culto per le giovani generazioni del Sessantotto. Tra i suoi ultimi libri: Con le spalle al futuro (Editori Riuniti, 1992), La politica al tramonto (Einaudi, 1998), Teologia e politica al crocevia della storia (con Massimo Cacciari, AlboVersorio, 2007), Passaggio Obama. L’America, l’Europa, la Sinistra (Ediesse, 2009), Non si può accettare (Ediesse, 2009), Noi operaisti (DeriveApprodi, 2009), Dall’estremo possibile (Ediesse, 2011).

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