Sergio Caserta: Enrico Berlinguer, un mito

| 28 Novembre 2014 | Comments (0)

 

 

La presentazione venerdì 28 novembre 2014 del libro di Chiara Valentini Enrico Berlinguer (ed. Feltrinelli, 2014 ) al Centro sociale e culturale Andrea Costa di Bologna è stata l’occasione di una riflessione sul segretario del PCI, alla fine di quest’anno in cui è ricorso il trentesimo anniversario della morte e molti eventi hanno celebrato la figura del leader comunista

Non ho mai conosciuto Berlinguer di persona purtroppo, anche se ho l’’ho ascoltato in tante occasioni dal pubblico o tra i delegati nelle assisi nazionali, conferenze e festival de l’Unità.

Una volta mi è passato vicino e l’ho salutato con deferenza come si faceva verso “gli intoccabili”, tali apparivano i dirigenti nazionali del partito a un giovane attivista meridionale. Erano gli anni 70, quelli della grande avanzata, del compromesso storico, della vittoria alle amministrative nelle quali i maggiori capoluoghi anche al SUD come al Nord vedevano vittoriose le liste di sinistra nel segno del cambiamento.

Ciò alimentava il mito di Berlinguer come una delle personalità più importanti non solo del mondo politico italiano ma di statura internazionale. Sappiamo poi che dopo pochi anni lo scenario mutò radicalmente. Soprattutto dopo il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, la prospettiva in Italia di una “rivoluzione democratica” come l’auspicava Berlinguer . era stata definitivamente sconfitta.

Berlinguer morì improvvisamente il 15 giugno del 1984 e la sua scomparsa segnò simbolicamente anche la fine di una fase politica che era durata dal dopoguerra.

Si avvicinavano mutamenti radicali del quadro politico nazionale. Sull’onda del Craxismo emergente si rompeva una fase di collaborazione tra le forze democratiche per tornare alla conventio ad excludendum del pentapartito che escludeva il PCI dall’area di governo.

Contemporaneamente nello scenario internazionale, finiva l’epoca del compromesso Keynesiano e si affermava una destra liberista, arrogante portatrice di valori opposti a quelli che avevano bene o male dominato nei decenni precedenti.

Era la destra di Reagan e della Tachter e dei turbo capitalisti che avevano iniziato quel processo di globalizzazione liberista che ci ha condotto fino all’attuale crisi.

Fine dell’intervento dello Stato in economia, privatizzazioni, abbattimento dei diritti e individualismo darwiniano come risposta alla modernizzazione liberista.

Il libro di Chiara Valentini descrive con dovizia di documentazione inedita, attinta dagli archivi ormai pubblici del PCI, il percorso formativo del dirigente comunista fin dal suo arrivo a Roma a Botteghe Oscure su esplicita proposta di Togliatti.

Una carriera impegnativa a tratti durissima, fatta di fasi di ascesa e successi ed anche di momenti di arretramento e d’insicurezza. Ma colui che sarebbe stato il più deciso rinnovatore della cultura comunista, aveva compiuto un percorso che l’aveva formato come uno dei più autorevoli dirigenti comunisti sul piano internazionale, quand’era ancora pressoché sconosciuto in Italia.

Il profilo del leader comunista esce arricchito da tratti della personalità inediti: un carattere poliedrico ed eclettico, in cui i tumulti della passione erano trattenuti e mitigati dalla serietà e l’impegno totalizzante con cui aveva abbracciato la sua missione politica.

La tenacia e il coraggio insieme alla paziente capacità di negoziazione gli avevano consentito di imporre al PCUS di accettare che il PCI esprimesse un giudizio negativo sull’invasione della Cecoslovacchia.

In tal modo portò a compimento il processo iniziato da Togliatti di autonomia da Mosca e di liberazione della cultura comunista dal dogmatismo e dal peso dello stalinismo (che però continuò ad allignare negli interstizi della struttura del partito).

 

 

 

 

 

1.Emanuele Macaluso: “Ideario Berlinguer”. Per rileggere il suo pensiero e la personalità

(Il Manifestobologna 21 giugno 2014)

 

Questo libro di Emiliano Sbaraglia – Ideario Berlinguer. Passioni e parole di un leader scomodo (Nova Delphi, 2014) che contiene un’intervista a Luciana Castellina – ha una “premessa” in cui si racconta il rapporto dell’autore con il padre, comunista per convinzione profonda e militanza, berlingueriano per amore verso una persona che comunica pensieri e comportamenti tali da rimotivare i suoi convincimenti e la sua militanza. Un padre che vive una vita “separata” dal figlio adolescente, il quale lo ritrova, con sentimenti teneri e passioni politiche forti, in un momento difficile per un uomo solo e malato.

Pagine belle, queste del giovane Sbaraglia, che proprio attraverso il rapporto con il padre incontra Berlinguer nelle immagini, nelle pagine di giornale, nelle tv che trasmettono l’ultimo suo comizio a Padova e i funerali: quei funerali che coinvolsero non solo i militanti di un grande partito, ma un popolo.

Il ragazzo cresce, con queste immagini che si confondono con quelle del padre che morirà, e il libro che ha scritto ci offre una ricerca appassionata e attenta sul pensiero politico di Berlinguer, filtrata e a volte appannata da un rapporto che definirei “filiale”: c’è infatti, nello scritto di Sbaraglia, ragionamento e amore, identificazione.

Io ho conosciuto bene Berlinguer, con lui ho lavorato per anni, sino al momento della sua scomparsa: ero direttore de “l’Unità”, soprattutto per sua decisione, e nei giorni della malattia e della morte l’accompagnai con scritti e titoli del giornale che espressero sentimenti collettivi, ma anche personali.

Voglio dire che ho voluto bene ad Enrico e lui ricambiava stima e affetto per me. Ma questo non ci impedì mai di manifestare con lealtà i nostri dissensi anche in momenti difficili per la vita del partito. Ne parlo nel mio libro, Cinquant’anni nel Pci, nel capitolo dedicato a Berlinguer, “Il segretario più amato”, e nello scambio di opinioni con Paolo Franchi che conclude il mio racconto e le mie riflessioni sui comunisti italiani.

Quando Emiliano Sbaraglia mi chiese di scrivere una prefazione ad un suo libro su Berlinguer, gli dissi subito di sì, perché ero interessato al fatto che un giovane scrivesse sul segretario del Pci nell’anno del ventesimo anniversario della sua morte, dopo che tanti “vecchi” avevano detto, da sponde diverse, molte cose, vere e meno vere, interessanti e banali.

In questo libro non c’è nostalgia perché è scritto da un giovane. C’è invece una totale identificazione, non con la storia del Pci, ma con la vicenda umana e politica di Berlinguer, quasi scorporato da quella storia. È un segnale significativo perché mette in evidenza l’impronta non soltanto politica, ma morale che ha lasciato, anche nelle nuove generazioni – forse più in queste – lo scomparso leader comunista. E non è un caso che questa impronta abbia come riferimento centrale la stagione breve, quella che si identifica con la “seconda svolta di Salerno”, considerata il punto più alto dell’impegno politico e civile della sinistra; come un momento però in cui quella sinistra non capì in pieno il messaggio di un grande leader “isolato”.

Voglio discutere questo punto cruciale della politica di Berlinguer (la svolta con la parola d’ordine: il Pci asse di un’alternativa democratica), non solo perché le mie idee su quel momento non collimano con quelle espresse da Sbaraglia, ma anche perché proprio su questo nodo, in occasione della scomparsa del segretario comunista, si è sviluppato un dibattito nella sinistra e fra tanti che, su questo terreno, si sono cimentati scrivendo su giornali, riviste o in pagine di libri.

Prima di argomentare quel che penso su questa fase, voglio dire che sulla ricostruzione politica del Pci, negli anni di Togliatti, Longo e Berlinguer (sino alla svolta del 1980), avrei osservazioni da fare su vari punti. Non solo sui fatti, ma anche sulle interpretazioni di quei fatti. Non lo faccio perché complessivamente la ricostruzione è lacunosa ma onesta, e intendo rispettare una diversa lettura e valutazione fatte dall’autore.

Il centro del libro è il pensiero e la personalità di Berlinguer, che emergono attraverso la rilettura, per argomenti, dalla A alla Z, dei suoi scritti. Non è una scelta burocratica ma ragionata, seguendo un filo in cui si ricostruisce l’opera di Berlinguer attraverso le parole di Berlinguer. L’autore non è fra coloro che hanno esplicitamente diviso in due il leader comunista, prima di Salerno e dopo Salerno, come hanno fatto altri; anzi cerca un filo che leghi tutta l’opera e l’impegno del segretario del Pci.

Tuttavia, Sbaraglia, a proposito della svolta del 1980, scrive che Berlinguer “abbandonando ogni residuo tattico mutuato dalla precedente proposta di solidarietà nazionale […] sarà l’artefice di una profonda trasformazione delle politiche del partito espresse sino a quel momento […] una vera e propria ‘seconda svolta di Salerno’…”

C’è quindi l’esplicito intento di mettere in relazione il taglio di quelle tesi con le iniziative togliattiane del lontano 1944. E qui ci sono, anche per Sbaraglia, due Berlinguer: quello del governo di solidarietà nazionale, presieduto da Andreotti, e quello della “svolta” del 1980. Il primo esprime una politica che è solo un “residuo tattico” del passato, il secondo invece esprime la sua identità, l’identità comunista.

Non sono d’accordo. La scelta di Berlinguer nel 1976 ha motivazioni forti che sono nella storia del Pci, nella tattica, nella strategia, nella visione della politica di Berlinguer. Semmai io considero una posizione “tattica”, senza una strategia esplicita, ma sottesa, quella della “svolta”. Nel 1976 si era definitivamente esaurita la politica del centrosinistra, inaugurata nei primi anni sessanta da Moro, Fanfani, Nenni, De Martino, La Malfa. Infatti l’ultimo governo Moro-La Malfa, senza i socialisti che lo appoggiavano dall’esterno, cadde, il primo dell’anno 1976, proprio per iniziativa del segretario socialista Francesco De Martino. E tutti i protagonisti di quell’esperienza erano convinti che si sarebbe aperta una fase nuova. Il risultato elettorale confermò tale convinzione: Dc e Pci avevano, insieme, quasi il 75% dei voti; era impensabile un governo senza il consenso dell’uno o dell’altro partito. Erano gli anni dell’inflazione a due cifre, della crisi della grande industria, dei prodromi del terrorismo.

Berlinguer e il Pci si trovarono di fronte a una alternativa: o contribuire a fare un governo con la Dc, o sciogliere il Parlamento appena eletto e aprire una crisi di dimensioni imprevedibili. Non solo. In quel 1976, al Pci, dopo l’uscita dal governo del 1947, la situazione politica offriva la possibilità di entrare nell’area di governo e aprire così un varco nello sbarramento che durava da circa trent’anni. In definitiva, erano maturate le condizioni per cui il Pci, con Togliatti, si era battuto da quel lontano 1947: cambiare guida nella Dc e costringerla a riaprire un rapporto col Pci. Una politica che stava tutta dentro la strategia del compromesso storico, indicata da Berlinguer, senza identificarla con il governo Andreotti. La politica della solidarietà nazionale non fu quindi una pausa tattica.

L’uccisione di Moro cambia certamente il quadro, per i democristiani e i comunisti ma anche per il Psi che, con la direzione di Craxi, lavora per una nuova politica volta a farsi largo, con tutti i mezzi, tra la Dc e il Pci. Tuttavia è bene ricordare che, dopo la rottura della maggioranza di governo (1978) e le elezioni politiche del 1979 (il Pci è al 30% dei voti), Berlinguer non cambia politica, anzi la conferma al quindicesimo congresso dello stesso anno. Infatti, come ricorda lo stesso autore, la “svolta” si verifica nell’autunno del 1980.

Sulle ragioni per cui adotta quella linea si è molto discusso. Certo, si manifesta già allora una crisi di rapporto tra politica e paese, tra partiti e opinione pubblica, soprattutto sulla questione morale, ma pure sulla questione sociale. La radicalizzazione su queste due questioni è netta. Ma c’è un dato che non va sottovalutato: il Psi di Craxi, e il giudizio di Berlinguer drasticamente negativo su quella politica e su quel leader. E quindi, nel momento in cui si riallaccia il rapporto tra Dc e Psi, l’obiettivo centrale di Berlinguer è spezzare quel legame per battere soprattutto il Psi di Craxi.

Se si legge il libro di Tonino Tatò, dove sono raccolti gli appunti che scriveva per il segretario del Pci dopo gli incontri avuti con i leader della Dc e repubblicani, si individua con chiarezza quell’obiettivo. Del resto, che significato aveva la formula berlingueriana dell’”alternativa democratica”, senza indicare le forze con cui attuarla, se non quello di uno sbarramento all’alleanza Dc-Psi? Non era certo pensabile una prospettiva di governo senza un’intesa con la Dc, o con il Psi, o con entrambi. Che significato aveva la richiesta berlingueriana del “governo degli onesti?”

Ecco perché ho sempre pensato che proprio la “svolta” fu un’operazione politica tattica, rispetto a una strategia che restava sempre quella del compromesso storico. Di conseguenza si prospettano soluzioni di governo, politicamente non visibili, però compatibili con quella strategia: con una Dc senza la guida conservatrice del 1980, e con il Psi senza Craxi e la sua politica.

Ho fatto queste osservazioni su un momento essenziale della vicenda politica di Berlinguer su cui si è molto discusso. È chiaro che sono solo mie opinioni, condivise da alcuni e contrastate da altri. Ma discutere serve a capire e a far maturare opinioni, anche se non condivise. Il libro del giovane Sbaraglia è utile anche per questo. Spero lo leggano in molti.

(Questo testo è la prefazione al libro Ideario Berlinguer. Passioni e parole di un leader scomodo di Emiliano Sbaraglia)

 


 

2. Luciana Castellina: Vi racconto il mio Berlinguer. Intervista di Emiliano Sbaraglia

(www. Ilmanifestobologna.it 21 giugno 2014)

 

Incontro Luciana Castellina nella sua casa, in un pomeriggio poco felice. Appena il giorno prima è infatti arrivata la notizia della morte di Karol Kewes Karol, giornalista e scrittore nato in Polonia nel 1924, inviato de “L’Express” e “Le Nouvel Observateur”, che sin dal primo numero collaborò alle pagine de “il Manifesto”, quando da rivista divenne quotidiano, il 28 aprile del 1971. Karol è stato per una vita il compagno di Rossana Rossanda, che ora da Parigi, su una sedia a rotelle, contempla la bara del suo uomo. Il telefono di casa squilla in continuazione: Luciana Castellina si preoccupa per la sua amica, l’amica che nel novembre del 2011 partì con Lucio Magri, il suo di compagno, verso quella clinica svizzera dove Magri scelse il suicidio assistito. Luciana non era d’accordo, ne soffrì come era inevitabile, e restò a casa. Ora, seppur appena tornata da New York, è già pronta a ripartire per Parigi.

 

D. Mi trovo di fronte una donna che ha conosciuto Enrico Berlinguer quand’era ancora ragazzina.

R. Ho conosciuto Berlinguer giovanissima: anzi, a ben pensarci, a parte i miei compagni di scuola, è stato il primo comunista che ho conosciuto, nel 1947… Berlinguer è stato segretario della Fgci per un decennio, sino al 1957. L’ho conosciuto molto bene e molto direttamente.

 

D. E che tipo era secondo te?

R. Berlinguer era molto austero di carattere, era molto chiuso, ed era anche molto sardo da questo punto di vista… E poi, povera creatura, dopo l’attentato a Togliatti nel 1948, gli avevano dato le guardie del corpo, come avevano dato a tutti i membri della direzione del partito. Solo che avere una guardia del corpo a cinquant’anni è un conto, averla a venticinque naturalmente è diverso, ti segna la vita, perdi la tua libertà, libertà di movimento, di stare con gli altri della tua età, mi pare evidente: c’è sempre qualcuno dietro di te che ti controlla… Questo ha accentuato ulteriormente il suo carattere, la sua chiusura caratteriale… E poi erano anche tempi particolari: fu lui ad esempio che si inventò che uno degli ideali della Fgci doveva essere Santa Maria Goretti, ti dico solo questo. Tu sai chi era Santa Maria Goretti, o la conoscevamo solo noi della Fgci di allora? (ride)

 

D. La sua storia la conosco.

R. Maria Goretti: santa e martire per non farsi violentare… Insomma, c’era questo moralismo, un puritanesimo molto molto forte, che era però dell’epoca, di tutto il partito. E poi credo che in quei primi anni Berlinguer si concentrò molto nella costruzione dell’altro mondo. Sai, nel 1948 l’Italia si spaccò in due in modo molto rigido, anche molto violento: il mondo comunista da una parte e i democristiani dall’altra. (…) Quindi lui ha accentuato molto questa componente: basti pensare ai campi sportivi, il biliardino… Si chiamava la Fgci del biliardino, fu questa la definizione che gli venne affibbiata. Tieni conto che la Fgci comunista, ancora fino a quando Berlinguer ne è stato segretario, era costituita per il 2% da studenti, per il 45-50% da contadini, mezzadri, e infine da pochi operai, perché le fabbriche ancora non prendevano operai comunisti, e poi non c’era ancora stato il boom economico.(…) La Dc aveva mantenuto nel secondo dopoguerra una certa ambiguità, nel senso cioè di un partito cattolico anticapitalista, perché c’era in quel periodo una cultura cattolica anticapitalista; Ecco, voglio dire che Berlinguer non colse e non comprese questa fase delicata e decisiva, per la preoccupazione di tenere ferme certe posizioni, senza offrire uno spazio diverso.

 

D. Poi entrò subito nella dirigenza del Partito…

R. E anche dopo è stata una figura difficile. Il Partito comunista italiano alla fine degli anni cinquanta e per tutti i sessanta è stato diviso tra amendoliani e ingraiani, questa è stata la dialettica tra le due ali del partito: gli amendoliani che proponevano un’analisi della società italiana come quella di una società ancora arretrata, per cui bisognava fare ancora la rivoluzione democratica e borghese, dunque una posizione ancora molto prudente; l’ala ingraiana invece pensava che eravamo in una società di capitalismo avanzato, dove quindi c’erano già tutte le contraddizioni del capitalismo maturo che si intrecciavano con quelle di un’Italia arretrata. Ma per Ingrao eravamo ormai nel mondo del consumismo, e di una classe operaia che si era modificata, perché erano gli anni della grande, come dire, della grande ‘aggregazione operaia’. Questa era la dialettica del tempo nel Partito comunista.”

 

D. E Berlinguer come si comportò politicamente in questa fase?

R. Berlinguer è stato in mezzo, ed era una figura molto appartata. Ma anche per questo è poi diventato prima vice-segretario, quando Luigi Longo si ammalò, e infine segretario: proprio perché era una figura in qualche modo non estrema, come Amendola da una parte e Ingrao dall’altra.”

 

D. Se non sbaglio nel giro di poco tempo arrivò anche la vostra espulsione dal Partito.

R. Sì, il periodo era quello. Berlinguer però fu con noi, come dire, ‘dialogante’. Ci pregò fino all’ultimo di non insistere nell’idea di dare vita alla rivista de ‘il Manifesto’, perché era preoccupato che potesse venirne fuori un’analoga situazione creata dai filosovietici, che erano ancora forti nel Partito, una cosa che lui non voleva di certo. (…)

 

D. Voi non eravate d’accordo…

R. Assumemmo subito una posizione critica. Si può dire che Berlinguer decise di puntare una carta, secondo me perdente, perché un conto era il rapporto con il mondo cattolico, un conto quello con la Democrazia cristiana: due realtà molto diverse tra loro. Ma la cosa singolare che accadde, è che quando ci fu il terremoto in Irpinia, nel 1980, e l’anno prima ci furono le elezioni in cui il Partito comunista perse molti voti rispetto al 1976, pagando il prezzo di queste posizioni, Berlinguer ebbe un ripensamento, una riflessione critica di quella fase e anche dei movimenti, sul ’68, su cui lui aveva preso una posizione molto rigida, perché i movimenti erano ‘casinisti’, lontani da una certa morale: c’era proprio un’incompatibilità, come dire, di tipo comportamentale, ecco. Insomma, a partire dal 1980 ebbe un ripensamento profondo riguardo queste questioni, e le sue ‘svolte’ in questo senso sono state più d’una.

 

D. Quali?

R. Prima, la sua visita alla Fiat. La Fiat nel 1980 viene praticamente occupata dagli operai, l’ultima lotta contro la ristrutturazione; e Berlinguer fece un gesto che al resto del Pci non piacque per niente. Da solo va alla Fiat dicendo agli operai: ‘Sappiate che qualsiasi cosa facciate io sono con voi’. Un gesto molto criticato, un gesto a favore di una lotta che veniva considerata ormai estrema, perdente, e via dicendo. L’altra è la seconda volta che Berlinguer parlò di austerità, dopo il famoso discorso al Teatro Eliseo di Roma nel gennaio del 1977. Fu un discorso accolto non bene, accusato di essere un discorso di austerity. Ma non era affatto un discorso di austerity, perché invece coglieva finalmente quello che il Sessantotto sino ad allora aveva discusso, in particolare riguardo i temi ecologici. Noi de ‘il Manifesto’ siamo stati i primi a parlare delle questioni ecologiche e ambientali, e quello era un discorso che parlava di questo, cioè di un diverso modello di società, contro il consumismo e lo spreco; quindi fu una delle prime aperture nei confronti di ciò che i movimenti in quel periodo stavano portando avanti politicamente, e invece fu recepito come un discorso ‘bacchettone’, che chiedeva soltanto sacrifici. E bisogna sottolineare che fu una critica che gli venne mossa dai movimenti stessi, i quali non capirono che si trattava piuttosto di una proposta di apertura verso i loro stessi temi. E poi ci fu il discorso sulla crisi della democrazia, a causa del quale anche in questo caso fu accusato di essere un moralista, un ‘conservatore’, per giunta anticraxiano. Invece era un discorso sulla corruzione non solo dei partiti, ma ormai dell’intero sistema democratico, rivolto anche nei confronti del nostro stesso mondo. Furono dunque questi tre passaggi molto forti, forti e polemici: la difesa degli operai Fiat, l’austerità, la crisi della democrazia. E lì iniziò un dibattito molto intenso, anche molto duro all’interno del partito, soprattutto riguardante l’allearsi o meno con Craxi.

 

D. Be’, alla luce di quanto accaduto poi, si può dire che in quel caso avesse visto lungo.

R. Ti rispondo raccontando un episodio recente. C’è stata qualche tempo fa la presentazione di un libro di Paolo Franchi su Giorgio Napolitano, presentato in pompa magna alla Camera dei Deputati, alla quale ha partecipato lo stesso Presidente della Repubblica. In quell’occasione è stato D’Alema a intervenire, nel corso di un ragionamento proprio su quegli anni, dicendo: ‘Sì sì, però attenzione, perché su una cosa Berlinguer aveva ragione, e Napolitano torto: Napolitano non si era accorto, mentre Berlinguer se ne era accorto, che il Partito socialista con Craxi aveva subito un mutamento antropologico’. Dopodiché salì sul palco Eugenio Scalfari che aggiunse: ‘Berlinguer aveva capito che il Psi aveva subito un mutamento antropologico, ma non poteva ancora capire che i socialisti craxiani erano diventati una vera e propria banda’. Ricordo che l’intervento di Scalfari suscitò molto clamore in quei giorni.

 

D. Un’ultima domanda, direi inevitabile, anche se la storia non si fa con i “se”. Ma se la storia di Moro fosse andata diversamente?

R. Mah, sai, secondo me la storia in ogni caso non poteva andare diversamente, perché la Democrazia cristiana rappresentava quel blocco preciso di interessi. Certo, con Moro si sarebbero trovate delle aperture, ma poi in un ipotetico futuro ci sarebbero state di mezzo anche la sua apertura al movimento pacifista, la proposta della ‘terza via’, e tutte le questioni internazionali, come ad esempio la sua proposta di Eurocomunsimo, che trovammo molto interessante ma che tramontò presto, non certo per colpa sua. Ma quando Berlinguer inizia a parlare di ‘terza via’, che è proprio in un nuovo delicato momento degli anni della guerra fredda, agli inizi degli anni ottanta (con i missili a Comiso e così via), vuole dire parlare anche della rottura dell’alleanza stretta con gli Stati Uniti, cosa che la Democrazia cristiana non avrebbe mai potuto fare. (…) Con la ‘terza via’ Berlinguer propone qualcosa che in quel momento viene sonoramente rifiutato dal gruppo dirigente comunista. E anche in questo caso, rifiutando la visione socialdemocratica, secondo me aveva tutte le ragioni del mondo. Basta guardarsi intorno.

(Sono queste le parti salienti dell’intervista fatta a Luciana Castellina. L’intervista intera si può leggere nel libro Ideario Berlinguer scritto da Emiliano Sbaraglia)

 

 

 

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Category: Politica

About Sergio Caserta: Sergio Caserta è nato a Napoli. Studi in materia giuridica ed economica, dirigente di organizzazioni ed imprese cooperative, attualmente vive a Bologna e si occupa di marketing e comunicazione d'azienda. Formatosi nel PCI di Berlinguer, coordina l'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra (www.arsinistra.net). Nel 2005 fu tra i promotori della rete "Unirsi" (www.unirsi.it). Già consigliere provinciale di Sinistra Democratica, oggi aderisce a Sinistra Ecologia e Libertà. Attualmente coordina il Manifesto Circolo di Bologna

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