Roberto Roversi: Forse non è ancora tempo di ritirarsi in campagna

| 16 Maggio 2019 | Comments (0)

Ho detto alle mie amiche e amici  che alle prossime elezioni europee voterò La sinistra e il coro contrario è stato consistente: è un voto sprecato perchè non arriverà alla soglia del 4%; contro Salvini vota il PD anche se non dice nulla contro il Jobs Act ed esalta Minniti che ha aperto i lager libici agli immigrati. Rispondo a queste osservazioni con un testo del caro amico Roberto Roversi del 1993 : “Forse non è ancora tempo di ritirarsi in campagna”.

Avvio questa riflessione ancora molto semplificata dicendo che ci dobbiamo riconoscere ancora una volta non come persone buone ma in mezzo alla cattiva compagnia come dunque particella empia e malvagia; dato che ci sforziamo di muoverci soltanto su un terreno calpestato e squinternato dove l’affanno alberga e sovrasta. Anche se alla fine puntiamo sia pure alla lontana, in questo momento, a una risoluzione della situazione che dovrà pure conformarsi, se lo vogliamo, un poco più specificata e rasserenata; ma soprattutto e completamente rovesciata rispetto alla presente, che affanna. Intanto, una indicazione rassicurante ci viene dagli scienziati. I quali dicono, anzi assicurano, che abbiamo almeno due miliardi di anni prima che il sole metta un omissis sul foglio bianco di questo pianeta che stiamo abitando. Perciò possiamo pungolarci invece di disperderci, se è vero che c’è un tempo quasi infinito, davanti; e la temuta frantumazione del globo non è così vicina vicina, come spifferavano i maghi di ogni ventura rovesciando sabbia-nebbia su noi cittadini, molti dei quali già timidi o impauriti.

L’avventura generale della vita può continuare a essere disperatamente piena di quel fascino rischioso e di quella oscura speranza che già travolsero gli uomini delle caverne, solo se torniamo a convincerci d’avere tempo e spazio ancora apertamente elargiti per cavarci fuori da questi anni, con difficoltà ma con qualche risultato concreto; e rialzando la testa. Non si può negare che il mondo, e per scrupolo diciamo pure la parte piccola che si riferisce all’italietta sbracata, non sia tormentato da liquami. Anzi, con il cumulo dei problemi divulgati ogni giorno dalle pagine urlate delle gazzette, sembra scappato via dalle mani dell’uomo. E proprio mentre tanti credono ancora di reggerlo prevalendo, alla fine, sulle diversità, novità, contraddizioni, larghe ferite in corso. Capita così che questi continuano a gestire le cose personali e i tanti impegni pubblici con l’abuso della loro vecchia memoria ormai strizzata come una pelle; e con una intelligenza astuta e poco riguardosa, oppure indifferente, o molto perfida. A conferma, basterebbero pochi dati ricavati dalla cronaca di una mezza giornata. Un riferimento fra i tanti: dopo quattrocento anni e dopo che siamo risaliti fin sulla luna, appassendola con le scorie abbandonate e con i nostri fiati ambigui (anche se dobbiamo concludere, ricapitolando le conseguenze reali, che dopo il grave daffare sembriamo usciti fuori dall’orbita come per una gita aziendale) soltanto in data odierna la Chiesa cattolica riconosce d’aver sbagliato con Galileo (Galilei) e gli chiede scusa – anche d’averlo mezzo massacrato. Quanto tempo dovrà passare perché uguale risarcimento sia riservato per esempio a Bruno, a Campanella, a fra Dolcino, ai mille altri ingegnicuori clarissimi che hanno illustrato il mondo? A conferma di una acquisita buona disposizione e di un esploso savio proponimento? Fuori dalle argomentazioni in corso, quasi illeggibili quasi inascoltabili, comunque troppo specifiche per astrazione o troppo catastrofiche per dissimulati interessi, la constatazione, da cui muovere con pazienza, sembra essere che la terra si è così rapidamente non solo dilatata ma divaricata come un frutto maturo, da non fare ritrovare più all’uomo, intorno o sopra o sotto, alcun appiglio di rassicurante sostanza e durata (una resistenza reale contro l’effimero delle occasioni e del tempo) che possa aiutarlo a uscire o addirittura a cavarsi fuori dal pattume attuale. Infatti: via tutto.

Via le frontiere fra gli Stati (la macilenta Europa sembra essere già un campo di papaveri al vento; e con le destre ovunque in emersione staremo a vedere); via i vincoli giustamente restrittivi di una morale risalente ai grandi saggi che redarguivano non secondo le leggi del mondo ma secondo la verità del cuore; via i vincoli liberamente codificati dei rapporti sociali, degli obblighi necessari, della equa severità pedagogica. Per contrapporre, nella concretezza ripetitiva e implacabile delle giornate, una massima e iniqua frantumazione, uno sbriciolamento poroso di tutti e di tutto al fine di acquisire i favori di una errabonda licenza, che si rovescia in un vuoto personale. Questo dunque in un mondo senza freni, affidato in prevalenza all’ibrida incoerenza di occulti manovratori. Così che il pizzico di equilibrio e di rigore sociali ancora in atto è affidato alla residua porzione di rigore che nonostante i venti contrari continua a perseguitare il lavoro e la giornata di molti cittadini qua e là dispersi nel nostro pianeta. Che continua a essere aggredito, nei suoi forzieri non più tanto opulenti, con una ferocia e una indifferenza legata a una ignorante avidità. Tutto questo in quanto (mi appoggio a un secondo dato da ricordare) l’incontenibile verbosità esercitata in ogni campo della vita pubblica e privata (una verbosità, spesso irresponsabile, che è il contrario di una necessaria e utile comunicazione) si impegna in prevalenza a coprire, manomettendo i dati determinanti, l’intrico economico finanziario politico che stringe fra di loro i trafficanti della roba e i trafficanti della parola, delle parole, in ogni Paese. Questo intrico ha prodotto, come si sa, l’enunciazione e l’applicazione incontrastata di un postulato oggi determinante; che impegna a sottoscrivere come unica e operativa la logica di mercato; la teologia della rendita d’impresa applicata e applicabile inesorabilmente. Si tratta, insomma, di un capestro, stretto stretto, senz’anima, e a tempo reale, che obbliga a schiacciare tutto e sempre, quale che sia l’atto da compiere, da svolgere. Ogni atto della mente e ogni atto politico e amministrativo sia pure rivolti ai bisogni fondamentali degli uomini, delle donne; soprattutto degli inermi e dei poveri. Bisogni, ripeto, ormai affrontati senz’altra preoccupazione se non in collegamento con questa risoluzione irrinunciabile.

In generale, possiamo anche annotare a questo proposito, con altre parole, che da tempo qua da noi, per indifferenza o rassegnazione, leggiamo america, pensiamo america, beviamo america, guardiamo america e non abbiamo più spazio per respirare se non si respira, con lo stesso fiato, america america america. Come nota, a questo punto, ricorderei il brano di una canzone rap di un gruppo berlinese (dell’Est): “Adesso ci tengono sotto come non era mai accaduto prima”. D’altra parte, questi aspetti minuti della situazione raccolti per esemplificazione in un mazzo, non ripropongono soltanto la logica vincolante di mercato, ma l’ideologia di mercato, di nuovo inchiavardata; perché si impegna a ridistribuire, secondo formule che appena dieci-quindici anni fa si potevano ritenere esauste, regole generali di comportamento pubblico e privato. Regole morali, sociali, economiche. O, se si vuole, più che di comportamento, di adattamento alla nostra vita. Le conseguenze collegate di questo cafarnao sono, almeno pare, sotto gli occhi di tutti. Benché, ripeto, mimetizzate e sostenute dagli innumerevoli puntelli offerti dai segugi dell’informazione; che vediamo saltabeccare sotto qualsiasi tempo. Oppure sconquassate dalle indecenze quotidiane, registrate con insistenza sempre dagli stessi, propensi a fare di ogni erba un fascio (dietro l’equivoca e sempre ribadita enunciazione del diritto di cronaca). Ma su tutti presiedono i soloni della carta stampata e dell’immagine registrata, veri imprenditori delle nostre coscienze e dei nostri pensieri; sempre in movimento per suscitarci forti emozioni e poi seduti in buone sedie a perlustrare recensire inseguire ammonire blandire perseguitare indagare, con l’attitudine di chi può permettersi di sgranocchiare la realtà quotidiana con ironica libertà.

Molti anni fa, in riferimento a un diverso contesto, risultò precipua e convincente, per la riflessione da elaborare, sicché anch’io la memorizzai, una frase-lampo di Eugenio Garin: “Bisogna cercare come mai i barbari abbiano vinto…” (La cultura e la scuola nella società italiana, Einaudi, Torino 1960). Da questo suggerimento funzionale per lo specifico lavoro che ci assegniamo, muoverei per radunare, intanto, provocazioni attive, minuti ricuperi, approfondimenti. E direi che a questo proposito non ci sia da temere delusioni. Infatti, anche se oggi è prevalente un solo potere che regge o guida un solo sistema (un potere reale, per il momento senza contrasti effettivi, dell’economia rigida e legata al reddito, quindi con la faccia del soldo inserita e palpitante in ogni anfratto), uno dei problemi urgenti è quello di trovare un primo bandolo della matassa per mettersi in moto e ricostruire con sospettoso rigore nuove rappresentanze politiche (niente di trasversale o verticale) che possano riappropriarsi dell’impegno di interpretare richieste e affanni quotidiani di una società pluristratificata, plurirazziale (e, si dica pure, ancora duramente razziale) che è rimasta senza alcuna possibilità di contrapposizione forte al sistema dei poteri ufficiali. Situazione confermata, in una intervista televisiva del 14 marzo, perfino da uno dei primi esponenti del PDS: “Ci sono valori che il mercato non tutela”. (Le necessità sociali come valori, la politica come mercato; affermazione, una volta tanto, preziosa). Valori, non bisogni; cioè, esigenze dell’uomo e della donna non eludibili con i gelidi rimandi alla inevitabilità dei libri mastri; e nemmeno risolvibili con l’affrettata genericità di una attenzione burocratica. Allora, a questo punto, può essere utile allineare qua di seguito il primo gruppetto di indicazioni immediate, perciò stimolanti, alle quali ho già accennato; perché in qualche modo possono corrispondere all’invito più generale di Garin. Con una personale annotazione, e cioè che i barbari degli anni Novanta sono per il momento vincitori soprattutto perché per anni la gente dai bisogni forti ha perduto di vista i veri avversari; i quali, mentre il tempo passava, si rendevano sempre più ubiqui, sempre più incombenti e minacciosi, sempre più forti; e gli altri si smarrivano dietro le eterne debolezze. Sicché alla domanda: dove sono acquartierati questi barbari (appunto), è stato prima difficile poi quasi impossibile rispondere. Erano per ogni dove, non si riconoscevano, assorbiti dentro al magma della società universale degli anni che scorrono. Invece adesso è possibile secondo qualcuno (proposito da condividere) impegnarsi in una iniziale ma necessaria risposta. Dato che la situazione in corso e le riflessioni sui problemi specifici, hanno portato a concludere che è di nuovo impellente la necessità non di rivoluzione ma di nuova e diversa aggregazione. È il bisogno di riformare l’ordine e il rigore della politica con la ricodificazione delle nuove realtà emerse, le cui richieste sono chiare precise urgenti. Questo rimescolamento generale, che era nell’aria da tempo dentro le nostre giornate, è avvenuto soprattutto dopo la confusione drammatica dell’ultimo decennio. Che ha acceleralo ogni corsa.

Così, anche dentro l’Italia si può pescare con la mano come in un vaso in cui ruotano pesci voraci; con il rischio, oltre a bagnarsi il gomito, di essere addentati e feriti. Ma anche convinti che si può abbrancare un piccolo mostro e scaraventarlo sull’erba, dove resti prima guizzante ma inerte poi esausto; sopraffatto. Porto un esempio immediato. Constatiamo spesso che parte dei detenuti (i giovani, in modo particolare) nelle carceri italiane, in quanto a realismo nella valutazione di tante situazioni non solo specifiche ma sociali, all’attenzione riflessiva e alle deduzioni generali sui problemi, è non solo più aggiornata, ma più precisa e pragmatica nelle soluzioni proposte, di troppi teorici o dei politici inconcludenti. Occorre perciò riaccendere fiducia e stimoli in un mondo che è ancora vitale; non perduto, non ferito a morte; per ritrovarlo e ritrovare noi stessi. Per ripensarlo intero con lo sforzo, con il soccorso, di quanti non si sono disamorati. Ecco perché non è scorretto riprendere la strada partendo dalla utilizzazione di piccole costanti morsicature sul corpo, tronfio in superficie esausto sotto la pelle, della società ufficiale. Premettendo la secca constatazione ripetuta da Francesco De Martino in una intervista su “Panorama” del 7 febbraio: “Mai la sinistra è stata debole come oggi”.

Sì, nemmeno nei momenti più duri degli anni Trenta e Quaranta, nemmeno nell’epoca delle scissioni e dei grandi sgomenti. Ecco allora Pino Cacucci, in un intervento su “il manifesto” del 24 gennaio, che afferma: “Credo che sia finalmente venuto il tempo di riaprire un dibattito su quel buco nero che è la nostra generazione… Se lasciamo le cose come stanno, tra una o dieci generazioni qualsiasi giovane che vorrà sapere che cosa accadde negli anni ’70, si ritroverà in biblioteca le versioni di Cervi e di Montanelli. Davvero non vi dà l’angoscia un’immagine simile?”. E Paolo Volponi, nell’intervista a Marcoaldi su “La Repubblica” del 19 gennaio: “Per una persona come me, con la mia formazione, la politica è un modo di stare al mondo, di progettare la vita. Il fatto che ormai sia diventata tutta un’altra cosa, non significa affatto che il problema sia chiuso. Anzi è più aperto che mai… Ma che cos’è questo benedetto comunismo? Oppressione, nazionalizzazione, distruzione delle libertà individuali? O non piuttosto una divisa morale, uno sguardo critico sul mondo che ci consente di capire come la soluzione non stia certo nell’Europa delle monete, o nel continuare a vivere rapinando, straziando, bombardando il terzo mondo? Insomma, un desiderio di giustizia e di progetto?”. Infine Mario Tronti, su “L’Unità” del 19 febbraio: “In mezzo a questa voglia strisciante e galoppante di autodistruzione, che sembra cogliere opinione pubblica, giornali, culture, partiti, forse anche pezzi di istituzioni, bisognerebbe ripartire dai luoghi sani della collettività, laddove c’è una questione sociale non toccata da una questione morale. Operai, sì. Drammaticamente colpiti sulla carne viva del loro lavoro. Ma anche capaci di stare in campo sulle grandi questioni, secondo la migliore tradizione della loro storia. Rendere visibile questa faccia offesa e pulita della società, far sentire il peso di questa risorsa disponibile e spendibile per tutti, non è qui il cuore del compito della sinistra?”.

A conferma, e a proposito, pochi giorni dopo, il 24 febbraio, “L’Unità” ha pubblicato una intervista (nella sua semplicità e nel suo realismo esemplari) a Francesco Cardinale, napoletano e operaio cassaintegrato dell’Alenia (ma anche poeta dialettale di infuocato vigore e lucido appassionato nelle sue annotazioni satiriche con i fumetti): “A Napoli non c’è quasi più niente… ogni giorno è un vero bollettino di guerra, che fa il paio con quello dei politici e degli imprenditori che in questi giorni vanno in galera… chi si immaginava che a Napoli quasi scomparisse la classe operaia?… Dove non c’è cultura del lavoro c’è miseria umana”. Attraverso questi riferimenti, l’enunciazione di una tabella di riferimento e l’identificazione (rigorosa a mio parere, intanto) di problemi di fondo su cui riconoscersi e da cui partire per impegnarsi.

Muovendo dalla constatazione della inefficienza della sinistra politica e della conseguente perdita di ogni intraprendenza operativa; come conseguenza, inoltre, di una disarticolata struttura organizzativa. L’urgenza di ricostruire la verità storica (una storia che aggruppa vicende ancora vive sulla mano) di anni di ferro; e nella verità storica, la generazione degli anni Settanta, quasi inesistente; spappolata nei riferimenti culturali, nelle riflessioni, nelle scelte anche istituzionali di ogni genere. In effetti, scomparsa dall’impegno di una necessaria opposizione al marasma sociale, e affiorante ma dilacerata solo nelle occasioni celebrative o documentarie dei giornali sempre affamati; rimpannucciata nei vestiti di buona marca di personaggi che procedono negli anni cancellando non solo la memoria del passato ma anche il passato immediato – che hanno ancora come polvere sulla punta delle scarpe. Un contesto contraddittorio, in cui interagiscono persone che hanno lasciato da parte ogni stimolo di lotta, ogni volontà di difendersi, per accettare il giuoco e le profferte di una parte. Volponi, invece, ci ha aiutato a sottolineare la riconferma della necessaria difesa o riappropriazione della dignità e utilità della politica, riconosciuta come il solo modo di partecipare direttamente alla vita, di essere nel mondo. Mentre gli operai, con la loro rinnovata presenza attiva, colmano il vuoto di potere e di sapere effettivi; rimettono in campo i bisogni reali e anche i pensieri; aggiornano i sentimenti; rinnovano le emozioni e le riflessioni; non consentono timidezze, frodi nell’agire. Rimettono sotto gli occhi di chi vuol vedere un quadro sociale definito senza equivoci dentro alle violente motivazioni.

Ha detto ancora Cardinale nell’intervista citata: “Il dramma di oggi, comunque, si chiama licenziamenti, cassa integrazione, liste di mobilità, espulsioni, tagli… Invece è proprio questo il momento di dare valore all’onestà e credibilità della politica. Ci potrà essere un domani se non c’è nessuno che crede in un domani?”. Questi sono puntelli a cui appigliarsi per riprendere fiato; per riorganizzare la vita, fuori dai traumi del dubbio prolungato e del peso di disfatte periodicamente ripetute. Infine, per ricuperare il brivido di una libertà operativa, anche nella gestione privata, che sembra (o sembrava) annichilita. Rimettersi all’opera, oggi, in questo senso, non per obbligo ma per una riconquistata volontà di fare e rifare le cose, direi che è simile a piantare un albero, o solo un alberello, sul cemento di una strada cittadina, trafficata senza soste. Vuol dire, esemplarmente, interferire nella sua armatura di cemento, contrapporsi alla sua indifferenza senza sangue. Ma ancora meglio, significa spostare i termini della contesa; riprendere in mano i fili di un destino che le Parche istrioniche e pericolosissime cantano di avere reciso. Ma mentono; non ci sono riuscite. Non ancora. Però sono lì che aspettano la nostra rinuncia.

Rendiconti, Nuova serie, n. 32, maggio 1993.

Category: Osservatorio Europa, Politica, Roberto Roversi e la rivista "Inchiesta"

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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