Patrick Guinand: Macron e la parabola della cingallegra
Diffondiamo da Ytali.com del 9 maggio 2017
La Lande-Chasles. Piccolo villaggio dell’Ovest della Francia, 115 abitanti, 84 elettori. Lo scorso 7 maggio 2017, La Lande-Chasles è balzata agli onori della cronaca, non per la sua esemplarità elettorale, ma per il suo amore per le cinciallegre.
Già, dal momento che una cincia mora ha deciso di installare nido e figliolanza nella buca delle lettere che sta sulla porta principale del comune, luogo naturale del seggio elettorale, il sindaco ha scelto di vietare l’ingresso attraverso detta porta, e di far entrare discretamente gli elettori attraverso la piccola porta posteriore dell’edificio. Si prega di non disturbare i cinque uccellini che pigolano nella buca delle lettere, in attesa del nutrimento materno. Gli abitanti di La Lande-Chasles evidentemente hanno adottato tale misura con umorismo e bonarietà. Il che non gli ha impedito di votare il 47 per cento per Marine Le Pen.
È questo il paradosso della Francia profonda. Non la Francia parigina che ha votato intra muros al novanta per cento per Emmanuel Macron, ma la Francia dei villaggi e delle zone periurbane. Una Francia umana, rurale o operaia, forte delle sue tradizioni, del suo saper vivere, ma spesso esangue sotto i colpi della mondializzazione selvaggia, impietosamente neoliberale. E chi non ne può più. E chi di guerra stanco, dopo gli scacchi di destra come di sinistra, vota Le Pen.
La vittoria di Macron è di certo indiscutibile, confortante, e apportatrice di un giovanilismo che ridà subito un colpo di fulgore a un paese che, sotto l’hollandismo, aveva avuto tendenza a cacciarsi nella morosità, il declinismo, la collera. O il rifiuto di credibilità delle forze politiche. L’Europa giubila, la stampa disquisisce e s’infiamma. Ma questa vittoria, vista dall’interno, è lungi dall’essere un’onda di entusiasmo, o il segno di una Francia riconciliata.
Le cifre parlano: dodici milioni di aventi diritto si sono astenuti, quattro milioni hanno votato scheda bianca o nulla, ovvero il 34 per cento degli elettori. Sì, un francese su tre. Il voto bianco, in particolare, segno di protesta, senza effetto diretto elettorale, poiché non è paradossalmente contabilizzato nei voti espressi, dunque d’effetto essenzialmente simbolico, ha raggiunto ciò nonostante l’8,8 per cento degli iscritti (ovvero 11,5 per cento di chi si è espresso). Un record storico per una elezione presidenziale. Un atto massiccio di rifiuto.
Marine Le Pen, incassando i benefici della sua strategia di de-demonizzazione, e malgrado la sua aggressività spesso riemersa all’improvviso e ri-demonizzante nel corso del dibattito televisivo con Macron , errore strategico o atto incosciente di autodistruzione, ha comunque pure lei raggiunto un risultato monumentale: 10,6 milioni di elettori, cioè il 22,38 per cento degli aventi diritto al voto. Quasi un francese su quattro. E a La Landes-Chasles, per esempio, un francese su due. Si veda molto più nel Nord, e nel Sud-Est della Francia. Un livello ancora storico, ma questa volta per il Front National.
Da notare che questo ritorno del represso, conoscendo l’aggressività genetica delle estreme destre, è sembrata avere lo stesso effetto in Austria, dove il candidato tutto sorrisi del FPÖ alle presidenziali dello scorso dicembre, Norbert Hofer, lavorando da mesi alla sua immagine di politico credibile e pacato, si è improvvisamente lasciato andare nell’ultimo dibattito televisivo con Van der Bellen. Mostrando per effrazione il suo vero volto, quello del fervente aderente ai Burschenschafter, questa confraternita di origine studentesca a scopo pangermanista, nostalgica dei rituali nazionalsocialisti. E quando ci si attendeva un risultato a 50/50 prima di questo dibattito, o anche una vittoria possibile, Hofer si è ritrovato nettamente battuto 53 contro il 47 per cento. Battuto sì, nondimeno, quasi un austriaco su due è stato pronto a eleggere un presidente di estrema destra.
Dunque, se ci si vuole prestare al gioco delle somme, più del 56 per cento degli iscritti, tra astensione, voto bianco, e lépenista, non ha votato Macron. Ciò non è nulla. E si sa che i venti milioni di elettori che hanno votato per lui, ovvero 43,6 per cento degli iscritti, l’hanno fatto in grande misura – almeno il sessanta per cento di loro, si dice – a malincuore. Per evitare Le Pen. Ma non per convinzione, lungi da questo: solamente il 52 per cento degli elettori di Mélenchon ha votato Macron e, secondo un ultimo sondaggio prima del secondo turno, il 91 per cento di loro l’ha fatto per esclusione. Nolens volens. Idem per gli elettori del socialista Hamon: il 71 per cento per Macron, di cui l’85 per cento per esclusione. Lo stesso per gli elettori di Fillon: 48 per cento per Macron, di cui l’80 per cento per esclusione. E tutti si dichiarano oppositori dall’8 maggio. Ed è così che dai risultati conosciuti, la sera del 7, i tenori socialisti, sarkozysti, filloniani, o mélenchoniani, riprendevano il combattimento, pronti a rendere la vita dura all’audace nuovo eletto. Come diceva brutalmente un militante filo Mélenchon proprio prima del secondo turno: “si ha fino a domenica per girare la bestia immonda, e a partire da lunedì si gira il banchiere.”
Dopo il suo primo discorso, di una solennità, bisogna dirlo, molto padroneggiata, Emmanuel Macron ha, ben inteso, auspicato l’unione sul suo progetto, effetto retorico obbligato di ogni nuovo presidente, prendendo una saggezza particolare in queste elezioni senza adesione. Ma ha avuto l’abilità di affermare che il suo scopo era di condurre una politica che levasse la voglia agli elettori di votare nel loro futuro per le estreme. Glielo si auspica.
La sua vittoria–lampo, condotta come un’OPA magistrale su un’impresa in declino, ci dice molto sull’asfissia politica nella quale è piombata la società francese.
E si potrebbe credere a una nuova e salutare respirazione. Ma aspettando, in vista di questi risultati del 7 maggio, tutte le reticenze e opposizioni confuse, si può dunque valutare tra il 75 o l’80 per cento i francesi che non gli sono favorevoli. Manca un mese alle legislative, per ribaltare la situazione. Non è proprio quello che si potrebbe chiamare uno stato di grazia.
Immaginiamo un istante che dopo le legislative, per l’effetto implicito delle nuove maggioranze parlamentari, il presidente Macron sia imbarazzato a nominare Baroin (destra repubblicana) o Mélanchon (Francia non sottomessa) come primo ministro, l’uno e l’altro essendosi dichiarati pronti a assicurare la funzione, per fare ostacolo al programma presidenziale. Non si è più nell’idillio. Si è nel confronto duro. Le grandi e basse manovre sono già iniziate.
No decisamente, una cinciallegra non fa primavera.
traduzione di Claudio Madricardo
Category: Osservatorio Europa, Politica