Marco Revelli: Il meriggio di Renzi. Il “populista istituzionale”.
Diffondiamo da Il Manifesto del 20 febbraio 2015
La fotografia scattata un anno fa dallo speciale di Sbilanciamo l’Europa sull’alba del renzismo si rivela perfettamente a fuoco ancor oggi, in quello che potremmo definire il meriggio del renzismo. Non certo grande come quello dello Zarathustra di Nietzsche, ma, allo stesso modo, capace di mostrare le cose senz’ombre e per questo «rivelatore dell’enigma dell’eterno presente».
S’individuavano allora i suoi tratti di continuità con il doroteismo democristiano, con l’aziendalismo mediatico berlusconiano e con l’affabulazione post-socialista e neo-liberista blairiana. Si mostrava il carattere sostanzialmente conservatore, se non reazionario, della sua rete sociale di riferimento (di blocchi sociali non si può più parlare nella nostra società liquida), collocato prevalentemente sul versante del privilegio, cioè di chi nel generale declino sociale conta di salvarsi, grazie a protezioni, giochi finanziari e posizioni di rendita. Soprattutto si denunciava l’internità del suo progetto all’agenda liberista della finanza internazionale e della cupola che domina l’Europa, mascherata sotto una retorica tribunizia da palingenesi totale. Un novum, nel panorama antropologico-politico, che permetteva fin da allora di parlare dell’apertura di una nuova fase, segnata da uno stile di governo ormai pienamente post-democratico (e sostanzialmente a-democratico).
Ed è proprio questo elemento che si è drammaticamente confermato, fino ad assumere carattere dominante, nell’anno di governo che ci sta alle spalle. Sia le cosiddette riforme istituzionali sbozzate con la scure dei colpi di mano parlamentari, sia quelle sociali (meglio sarebbe chiamarle anti-sociali) come il decreto Poletti e il Jobs Act, ma anche il decreto Sblocca Italia ricalcano, in forma imbarazzante, le linee guida della Troika, senza neppure uno scostamento di maniera.
Riproducono, introiettate come proposte autonome, gli stessi punti dei famigerati Memorandum imposti, manu militari dai Commissari europei, a paesi come la Grecia (che di quelle cure è socialmente morta), ma anche come la Spagna (che si dice abbia i conti a posto ma una disoccupazione sopra il 25%), come il Portogallo (14% di disoccupati, quasi il 50% di pressione fiscale), e come l’Irlanda (debito delle famiglie sopra il 200% del loro reddito). Si chiamano privatizzazioni, abbattimento del reddito e dei diritti del lavoro, de-costruzione dei sistemi di welfare, tassazione spietata sulle fasce più basse, riduzione degli ammortizzatori sociali, riduzione della Pubblica Amministrazione, limitazione della democrazia e dell’autonomia delle assemblee rappresentative, neutralizzazione dei corpi intermedi.
Il tutto coperto da una narrazione roboante e rivendicativa, fatta di pugni sul tavolo, lotta alla casta e sua rottamazione, caccia al gufo e apologia della velocità, cambiamenti di verso e taglio delle gambe ai frenatori, denuncia dell’inefficienza degli organi rappresentativi (Senatus mala bestia), attacco ai sindacati e in generale alle rappresentanze sociali. È, appunto, il populismo dall’alto. O il populismo di governo: una delle peggiori forme di populismo perché somma la carica dissolvente di quello dal basso con la potenza istituzionale della statualità. E piega il legittimo senso di ribellione delle vittime a fattore di legittimazione dei loro carnefici. Non è difficile leggere, dietro la struttura linguistica del discorso renziano, le stesse immagini e gli stessi stilemi dell’apocalittica grillina, l’enfasi da ultima spiaggia, la denuncia dei parassiti, la stigmatizzazione dei partiti politici (compreso il proprio), e lo stesso perentorio «arrendetevi» rivolto ai propri vecchi compagni diventati nemici interni. Simile, ma finalizzato, in questo caso, a una semplice sostituzione di leadership interna. A una sorta di rivoluzione conservatrice.
Questo è stato Matteo Renzi in quest’anno di gestione del potere: un populista istituzionale. Forse l’unica forma politica in grado di permettere al programma antipopolare che costituisce il pensiero unico al vertice dell’Europa di imporsi in un paese come l’Italia, nella crisi generale e conclamata delle forme tradizionali della politica (in particolare della forma partito), e nel deficit verticale di fiducia nei confronti di tutte le istituzioni rappresentative novecentesche. È stato lui il primo imprenditore politico che ha scelto di quotare alla propria borsa quella crisi: di trasformare da problema in risorsa il male che consuma alla radice il nostro sistema democratico. Con un’operazione spregiudicata e spericolata, che gli ha garantito finora di galleggiare, giorno per giorno, sulle sabbie mobili di un sistema istituzionale lesionato e di una situazione economica sempre vicina al collasso, senza risolvere uno solo dei problemi, alcuni incancrenendoli, altri rinviandoli sempre oltre il successivo ostacolo. E comunque gestendo il declino col piglio del broker (è lui, d’altra parte, che ha dichiarato senza vergognarsene che è stato il primo a capire che l’Italia era un paese scalabile), pronto a uscire dall’investimento un attimo prima del crollo in borsa. Novello funambolo – per ritornare alle metafore nietzschiane — in bilico sul filo. E la residua platea elettorale a naso in su, di sotto, nel mercato, incerta tra l’aspettativa della caduta e il timore che oltre quella sua siepe ci sia solo il buio.
È stato quel buio, finora, il suo principale alleato: la promessa-minaccia che «après moi le déluge». Dalla Grecia, a oriente, e dalla Spagna a occidente, arrivano ora lampi di luce, che potranno, nei prossimi mesi, dissipare quel buio.
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