Bruno Giorgini: Black block a Milano. Riprendersi la città per renderla ethica
Riceviamo da Bruno Giorgini il 4 maggio 2015 questo testo dal titolo “Smash the town. Il black bloc e la modella”
Smash the town, prendi a mazzate la città, è la nervatura che sottende l’azione del blocco nero, black bloc cosidetto, avvenuta il primo maggio a Milano. Ho incontrato questo slogan per la prima volta a Genova durante il famigerato G8 delle torture poliziesche alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, con l’omicidio di Carlo Giuliani manifestante.
Campeggiava in mezzo a uno spezzone di black blocs e ha le sue origini nel movimento diciamo “antagonista” inglese. La filosofia è grosso modo la seguente. Nella città si esercita la dittatura della finanza e della speculazione, nonchè la creazione di plusvalore e quindi lo sfruttamento, producendo enormi diseguaglianze con processi di esclusione e povertà che investono la maggioranza degli abitanti, e si concretizzano negli slums, nelle banlieues, nelle periferie, nei ghetti urbani, nelle citès.
Per cui le forze anticapitaliste debbono praticare la rivolta urbana , ed ecco gli esempi dell’insurrezione di Brixton, ghetto nero giamaicano di Londra agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, quella delle banlieues parigine del 2005, e immagino che oggi ci sia chi si riferisce alla rivolta di Baltimora negli USA (per un serio approccio teorico si veda “Città ribelli” di David Harvey). Il blocco nero si propone quindi come avanguardia militante che opera tramite azioni esemplari attaccando i simboli urbani del capitalismo, ovvero le banche e i bancomat, le automobili, i negozi di lusso eccetera; meglio non le banche ma le vetrine delle banche, men che l’apparenza datosi che nessuna banca si preoccupa per una vetrina rotta, nè tantomeno i negozi più o meno di lusso tutti abbondantemente assicurati. Per le automobili poi, la rivolta delle banlieues che durò mesi, con una sequenza ininterrotta di battaglie notturne tra manifestanti e polizia dal 27 ottobre al 18 novembre, vide bruciate in un anno migliaia di automobili.
Ma torniamo al blocco nero in una successione che recita, io black bloc mi propongo come rappresentanza dei ribelli urbani non reale, perchè quelle rivolte per definizione rappresentanza non possono avere nè tantomeno vogliono, ma attraverso la rappresentazione di una simbolica rivolta urbana col fuoco, le molotov i sassi. Nello slittamento semantico da rappresentanza della rivolta, agognata ma impossibile, a rappresentazione simbolica, accade la pantomima della violenza, tanto priva di senso da essere risibile. I manifestanti si truccano da rivoltosi, travisandosi e indossando la divisa nera d’ordinanza, per salire sul palcoscenico e dare inizio alla recita on the road, poi quando lo spettacolo finisce, si spogliano tornando ai panni borghesi.
Come fanno le modelle di Armani prima durante e dopo la sfilata, più belle però e a viso aperto più luminose. Lo spettacolo per riuscire con un buon successo di pubblico e di critica, abbisogna di altri comprimari.
La polizia che però in questo caso, avendo ben misurato la discrasia tra impotenza reale dei blackblocchisti e loro aggressività simbolica, si è limitata a contenerli essendo addirittura gentile verso alcuni malcapitati civili saliti più o meno per sbaglio o caso sul palcoscenico, con la geniale formula del capo Pansa “l’expo non si poteva macchiare di sangue nè dei manifestanti nè delle forze dell’ordine”, a voler significare che il teatro della violenza dei black bloc non è diventato teatro della crudeltà, assumendone il merito. Poi in prima fila i media, fondamentali affinchè lo spettacolo rimbalzi ovunque in veste di feticcio universale; media che, a differenza delle forze di polizia, invece hanno ben svolto la funzione di amplificatori dell’accaduto spalancando le loro pagine e i loro schermi alla dinamica simbolica instaurata da non più di cinquecento persone (la digos dixit), gli attori.
Media che al grido “Milano brucia” con altre consimili sciocchezze, hanno letteralmente scancellato le altre ventimila persone che non facevano teatro, soltanto manifestando il loro dissenso rispetto all’expo.
Il conto dei danni elenca 17 auto incendiate e 10 colpite di grossa cilindrata con qualche utilitaria (la smart), 13 vetrine di banca spaccate, 12 negozi e vari portoni di palazzi danneggiati, vari sportelli bancomat messi fuori uso, parte della segnaletica nella zona di via Carducci divelta e usata per sfondare vetrine, arredi urbani (cestini dei rifiuti, cassonetti e fioriere) utilizzati per creare barricate poi incendiate. Infine le scritte sui muri, che tanto scadalizzano. Danni limitati e confinati tutto sommato in un’area piccola della città. Epperò moltiplicando le visioni della stessa auto incendiata mille volte su mille teleschermi, ecco che la rappresentazione della violenza invade l’immaginario provocando a cascata mille considerazioni che s’avvitano su se stesse, la maggior parte insensate, proprio come la danza di guerra dei blocchisti.
A questo proposito si consiglia la lettura comparata degli articoli sulle violenze dell’ISIS – Daesh con guerre e bombardamenti vari, e di quelli sul primo maggio milanese e la violenza dei black blocs. Ma in Italia “ la violenza”, il suo feticcio e rappresentazione, agiscono sui media come un bicchiere di vino su un alcolizzato cronico, facendogli vedere i suoi fantasmi e incubi, gli scarafaggi che camminano sui muri, senza bisogno di superalcolici.
Si legga, per avere un termine di paragone, Le Monde online del primo maggio, ore 21. 06, quando scrive “Migliaia di persone hanno manifestato venerdì 1° maggio la loro ostilità all’Esposizione universale nella città di Milano, le cui porte si sono aperte in mattinata. I contestatori sottolineavano lo spreco di denaro pubblico, denunciando egualmente il ricorso a lavoratori precari e volontari (…). Violenti incidenti sono scoppiati tra la polizia e decine di persone mascherate, incendiando negozi, molte automobili, lanciando petardi, fumogeni e sassi contro le forze dell’ordine che hanno risposto con i gas lacrimogeni (..)”. Già l’ordine delle notizie è significante, prima i ventimila coi loro argomenti, quindi i casseurs, i rompitori come si chiamano in francese, coi loro sassi.
Ma non c’è solo l’acuta intossicazione alcolica che fa delirare molti media, si gioca anche una partita politica, con Alfano che preannuncia il divieto di manifestare in città, e la prossima volta i black bloc andranno a nozze con una norma siffatta, nonchè il partito della nazione cui non par vero della ristabilita unità nazionale attorno all’expo con Pisapia in prima fila ad applaudire. Già Pisapia e la borghesia urbana (quella piccola e media) che a coronare lo spettacolo del feticcio black bloc, scende in piazza con lo slogan “nessuno tocchi Milano”, quando Stefano Boeri c’ha raccontato che il terreno su cui sorge l’expo è stato pagato a privati sedici volte il suo valore di mercato, e perchè non era d’accordo con questo ha perso il posto da assessore. “L’elemento degenerativo è nato subito, con la scelta di organizzare l’evento su un’area privata. Nel nostro caso i terreni di Rho-Pero. Non era mai successo prima. E le alternative c’erano, eccome se c’erano. Penso per esempio all’Ortomercato o ad altri terreni pubblici della città. Poi la decisione di attribuire a quell’area un enorme carico volumetrico, pari a diciotto grattacieli Pirelli, che nessuno mai realizzerà e soprattutto acquisterà. E infine la scelta di comprare dai privati. Il prezzo versato dal pubblico per i terreni è stato di 16 volte superiore al valore di quelle aree agricole.
Un clamoroso regalo. Il rischio adesso è che quel sito resti senza futuro e sulle spalle del pubblico». Cazzo, vien da dire a Pisapia e soci, qua qualcuno Milano l’ha toccata, anzi: sfregiata. E Boeri proprio un antagonista non è. Ma torniamo al primo maggio. Dunque i black bloc costruiscono un feticcio, in senso stretto reazionario, più precisamente: interamente inscritto nella società dello spettacolo, dello sfruttamente e della valorizzazione capitalistica. Un feticcio che nulla ha a che vedere col movimento reale che abolisce lo stato di cose presente (Marx), e neppure coll’azione diretta predicata da Bakunin. Se proprio un antenato vogliamo trovare, si tratta piuttosto di Ned Ludd quando lanciò un movimento per la distruzione delle macchine, in specie tessili, accusate di togliere il lavoro agli uomini. Si era nel 1779, e il movimento continuò grosso modo fino al 1820, subendo durissime repressioni, molti militanti furono impiccati, questo nulla togliendo al fatto che il movimento luddista fosse reazionario, seppure antagonista.
Infine il silenzio dei ventimila che manifestavano il primo maggio, annichiliti dal feticcio, se in modo permanente o in convalescenza con una possibile ripresa è difficile predire. Il nodo non è la distinzione tra violenza e non violenza bensì il fatto che smash the town è una parola d’ordine sbagliata e reazionaria, tra l’altro è proprio di ogni fascismo odiare la città, troppo multiculturale e multietnica, troppo cosmopolita troppo libera troppo densa di desideri e intelligenza per il pensiero totalitario.
Non si tratta di prendere a mazzate la città, ma di prendere la città, di riprendersi la città per renderla ethica, cioè abitabile (ethos questo significa), da cittadini/e eguali e liberi/e. L’occupazione delle case sfitte va in questa direzione così come quella di luoghi pubblici, occupy wall street e gli indignados spagnoli, l’occupazione di un teatro come fu quella del teatro Valle, l’appropriazione sociale della scienza, la citizens science e l’autogestione dei centri di ricerca, la partecipazione alle scelte urbanistiche, gli esperimenti di bilancio partecipato, l’autoriduzione del costo di certi servizi vitali, i mercati equi e solidali e molte altre cose si possono pensare, tra cui anche la protesta contro l’expo che nega il cibo come bene comune per farne il tempio del profitto.
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