Tommaso di Francesco, Alberto Negri: Sulla strage a Bruxelles
Daniele Leardini ci ha segnalato questi due articoli sulla strage a Bruxelles pubblicati il 23 marzo 2016
1. Tommaso Di Francesco: La scia di sangue
Il manifesto 23 marzo 2016
Bruxelles. Ancora una volta nel mirino della guerra asimmetrica del terrore jihadista, finiscono i civili, ridotti a bersagli insanguinati. Ma i due attentati di ieri a Bruxelles segnano un ulteriore salto di qualità per il simbolismo degli obiettivi colpiti La scia di sangue in Europa non si ferma. Ancora una volta nel mirino della guerra asimmetrica del terrore jihadista, finiscono indiscriminatamente i civili, ridotti a bersagli insanguinati e impauriti, feriti per sempre nella loro attitudine a vivere semplicemente il quotidiano. E soprattutto dopo le ultime stragi che hanno insanguinato Parigi nel novembre 2015 in un normale sabato di divertimento.
A conferma della continuità della stagione di terrore I due attentati di ieri a Bruxelles, se possibile, segnano un ulteriore salto di qualità per il simbolismo degli obiettivi colpiti. Accadono infatti il giorno dopo la ventilata disponibilità a collaborare di Salah Abdeslam dopo il suo arresto e, più che una ritorsione, mandano a dire che lo Stato islamico non s’arresta; esplodono nell’aeroporto belga davanti alla sede dell’American Airlines, richiamando in causa gli Stati uniti; nella fermata della metro da cui si scende per la sede della Commissione
dell’Unione europea, e nella città che è anche sede della Nato. E, non dimentichiamolo, mentre è aperto a Ginevra un difficile, quasi impossibile, negoziato sulla guerra in Siria. Con il presidente Juncker asserragliato dentro la sede Ue e con il capo della Consiglio europeo Donald Tusk che ha parlato dello shock che ha subito per il «bombardamento».
Scriveranno dunque che l’Europa è in guerra, come se i paesi europei e l’intero Occidente non fossero davvero da due decenni in guerra in Afghanistan, Iraq, Libia e in Siria, con centinaia di migliaia di vittime e tante, troppe stragi di civili magari considerate asettiche perché opera di dreni telecomandati a distanza. Senza dimenticare le nuove imprese post-coloniali della Francia in Mali, Niger, Ciad. Come se l’avere distrutto e contribuito a distruggere con le nostre guerre tre stati fondamentali del Medio Oriente fosse un arabesco esotico e marginale.
E non invece l’inizio di quella seminagione d’odio che inesorabilmente ci ritorna in casa, ed esplode, «come» in guerra, nelle capitali dell’Unione europea. Impegnata a bastonare i rifugiati di Calais che scrivono sui loro striscioni «Noi non siamo terroristi», a respingere i profughi che fuggono da miseria e conflitti da noi provocati. Che erige muri e fili spinati a «caccia dello straniero» accrescendo il rancore, che accredita regimi repressivi e, soldi alla mano, consegna esseri umani disperati nelle mani del Sultano Erdogan, il leader turco che ha soffiato sul fuoco della guerra in Siria addestrando, anche per conto nostro, i miliziani di Al Qaeda e Isis, perdipiù impegnato in una
feroce repressione dei kurdi, una parte del suo popolo.
Questa scia di sangue non si interrrompe evocando il ruolo quasi oggettivo dei servizi segreti, perché spesso e volentieri l’intelligence occidentale ha chiuso gli occhi di fronte al fenomeno dei foreign fighters che partivano per la guerra e finivano ad addestrarsi nelle basi Nato della Turchia, perché coinvolti a destabilizzare lo stesso nostro nemico. Ma soprattutto perché i Paesi del fronte alleato nella guerra in Siria Usa, Russia, Gran Bretagna, Qatar, Turchia hanno interessi fra loro a dir poco contrapposti, senza dimenticare l’egemonia criminale dell’Arabia saudita, l’eterno e decisivo punto di riferimento economico e militare dell’Occidente. E non si ferma nemmeno con
l’empito renziano che ieri, paragonando la nuova realtà del terrorismo jihadista agli Anni di Piombo, al brigatismo nostrano e alle stragi di mafia, ha invitato a presidiare il territorio «con i maestri e i militari», insomma un’accoppiata «morale» di una libreria e di un cacciabombardiere F-35 insieme, come nuovo evento «culturale».
Si ferma lo Stato islamico solo togliendogli sotto i piedi il terreno fertile della guerra e dell’odio. Basta maledette guerre dunque, cominciando a risolvere le crisi, come quella israelo-palestinese, che restando aperte come voragini, sono brace sotto la cenere che riscalda le basi identitarie dello jihadismo armato. Ed è possibile, come dimostra l’accordo Usa con l’Iran. E invece restiamo avvitati
nella spirale guerra-terrorismo-guerra. Basta guardare i preparativi anche italiani dell’avventura libica, l’avvio della nuova impresa italiana a Mosul, la continuazione della nostra presenza in Afghanistan dopo 14 anni di guerra inutile, le nostre spese militari che assommano «culturalmente»a circa 80 milioni di euro al giorno.
2. Alberto Negri: Strage di Bruxelles. Il fallimento della politica
Il sole 24 ore del 23 marzo 2016
una “guerra al terrore” che non solo non ha reso il mondo più sicuro ma l’ha portato nelle case degli europei.
Gli Stati Uniti e la Francia progettavano nel 2013 di bombardare il regime di Damasco e fino a ieri hanno continuato a proclamare che Assad doveva andarsene: quando non è avvenuto i jihadisti hanno deciso di vendicarsi. Nel 2014, prima che tagliassero la testa a un cittadino americano, gli Usa non avevano fatto una piega quando Mosul era caduta in mano all’Isis, assistendo alla rotta di Baghdad senza intervenire. Poi è iniziata una guerra al Califfato tra le più ambigue della storia militare recente. Lo stesso è accaduto con i militanti dell’Isis in Turchia. Ankara ne ha fatti passare migliaia, li ha anche usati contro i curdi siriani, poi con l’intervento della Russia a fianco di Assad ha dovuto rinunciare a entrare in Siria per pendersi Aleppo e Mosul in Iraq grazie agli accordi con l’Isis: anche qui i jihadisti si vendicano del loro sponsor Erdogan a colpi di attentati.
Sono oltre 35 anni che le potenze occidentali si appoggiano a quelle arabe del Golfo che utilizzano, armano e finanziano l’estremismo islamico – è avvenuto anche in Bosnia – per scaricarlo quando non serve più. Questo spiega pure quanto accade sul fronte interno europeo dove legioni di sociologi si affanneranno a spiegare come mai intere periferie sono diventate roccaforti del radicalismo. I jihadisti hanno portato la guerra del Siraq nelle nostre case, che poi sono anche le loro, perché i nostri alleati gli hanno fatto credere che l’avrebbero vinta.
Nella lotta al terrorismo si intersecano piani differenti ma non così incomprensibili. Per fare la lotta al terrore ci vuole una polizia informata, ad alta penetrazione sociale, come avrebbe detto un grande agente come Calipari, ma l’aspetto più controverso e decisivo è districare i nodi che tengono avviluppato l’Occidente ai complici del jihadismo, ai loro mandanti materiali e ideologici. Prima ancora del fallimento dell’intelligence c’è stato quello della politica.
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