Massimo Canella: Invito alla lettura 5. Carlo Levi. Paura della libertà (1946)
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Invito alla lettura 5. Carlo Levi. Paura della libertà (1946)
Quando in libreria mi è caduto l’occhio sulla riedizione, da parte di Neri Pozza, di “Paura della libertà” di Carlo Levi, stesa nel 1940, edita nel 1946 e non ripubblicata come opera a sé stante dal 1964, la mente mi è corsa subito al ricordo di un volume che per me è stato indirizzante, letto a vent’anni: “Fuga dalla libertà” di Erich Fromm, pubblicato a New York nel 1941 – e sono andato a riguardarmelo. In effetti la spinta a scriverle è stata la stessa: l’angosciata necessità di capire, da ebrei, le ragioni del trionfo, allora non si sapeva quanto momentaneo, del nazionalsocialismo, e dei fascismi più in generale.
Il taglio delle opere è molto diverso. Levi, medico e già affermato pittore prima di essere inviato al suo arcaico confino oltre l’ultima tappa del percorso di Cristo, mette a frutto le sue conoscenze e esperienze di antropologo e di sociologo della religione e vuole fare anche buona letteratura; dimostra una concezione della vita non scoraggiata, ma tragica; ha scritto fidando sulla memoria, in una casa sulle spiagge atlantiche francesi, mentre aspettava di capire se il corso degli eventi bellici lo avrebbe costretto ad andare più in là (cosa che nella Francia non occupata di Vichy riuscì a non fare). Fromm più in là era andato da anni, scriveva da una università americana e partecipa al fervore democratico dell’età di Roosevelt; fa fondamentalmente psicologia sociale, secondo un proprio sistema “culturalista” che distingue con chiarezza da quello di Freud in una appendice su “Il carattere e il processo sociale”; mira all’efficacia espositiva; cerca la conferma delle sue osservazioni cliniche con il documentato e sommario riferimento a più età storiche, convincente quando analizza testi specifici come gli scritti di Hitler o di Lutero, assunti come esemplari dei ceti medi cui davano voce. Su alcuni temi i discorsi dei due autori si fan paralleli: sulla sottomissione all’idolo dello Stato, sul conformismo da automi delle società industriali. E li accomunano anche gli auspici per l’avvento di un mondo da definirsi, autenticamente partecipativo, in cui gli uomini non siano più sottomessi sadicamente agli idoli e possano realizzarsi: nelle parole di Fromm, nella “fede nella libertà come realizzazione attiva e spontanea dell’io individuale”; in quelle di Levi, in una “libertà che gli consente di essere insieme individuazione personale e universalità illimitata” (p. 110 dell’edizione Neri Pozza).
Carlo Levi considerava “Paura della libertà” la sua opera più importante, la qualità della sua scrittura è costantemente elevata, come su un alto registro si mantiene lo stile “che aveva assunto un carattere poetico e religioso che nasceva dalla sua stessa
materia” (p. 30). Tanto più rimarchevole è la mancanza di interesse da cui essa è stata circondata. I motivi possono essere molti.
Un motivo può essere la mancanza di un apparato critico e di citazioni particolarmente indirizzanti, che ha creato un’incertezza di inquadramento di cui ci informa Giorgio Agamben nella sua introduzione. Agamben nega rilievo alle possibili derivazioni da Jung o da Bergson o da Spengler e Huizinga, che altri avevano ipotizzato, e individua la fonte principale nei grandi sociologi francesi, da Emile Durkheim nelle Formes élementaires de la vie religieuse a Hubert e Mauss nel loro Essai sur la nature e la fonction du sacrifice; rileva comunque che l’unico filosofo espressamente citato è “Alain”, ossia Emile-Auguste Chartier, autore fra l’altro negli anni 20 di Mars ou la guerre jugée e di Propos sr les pouvoirs – Eléments d’une doctrine radicale, interessato anche alle tematiche religiose. Certamente c’è anche una confidenza non ortodossa con le rappresentazioni della psicanalisi freudiana. Del resto la scelta di pubblicare il manoscritto così come era stato concepito, in quanto già perfezionato ed esauriente al di là delle sue più ambiziose intenzioni iniziali, è stata dell’autore stesso.
Un altro motivo sta sicuramente nel clima del dopoguerra, in cui le conoscenze sociologiche e antropologiche avevano poco spazio nel dibattito culturale e nessuno spazio nel dibattito politico. Il franco ragionamento di Carlo Levi contraddiceva le premesse da cui partivano tutte le forze che si contendevano il campo del postfascismo. Per i cattolici c’era il regalo della tesi principale sostenuta nel libro, della religione come strumento per la liberazione dal terrore primigenio mediante l’asservimento agli idoli. Per liberisti e radicali, la condanna dell’individualismo astratto “dove si è perso ogni senso di comunità […] Non serve essere liberi dalle passioni, ma liberi nelle passioni. Poiché la passione è il luogo del contatto dell’individuo con l’universale indifferenziato […] e il problema è essere se stessi, essere liberi, in questo ritorno necessario” (p. 45). Per i comunisti, la considerazione che “la rivolta dei servi può portare tutt’al più a un capovolgimento di funzioni, a fare, come in un immaginario disegno di Goya, del capretto un sacrificatore. Questa è, come vedremo, la debolezza vera dei movimenti proletari […] e in genere di tutti quei movimenti, radicalissimi all’apparenza, ma che non escono dai limiti religiosi della civiltà a cui cercano di contrapporsi” (p. 76). Non è da stupirsi che un importante gestore dell’organizzazione comunista e del suo rapporto con l’intellettualità laica storicistica come Mario Alicata, a proposito del successivo Cristo si è fermato a Eboli, abbia parlato, come ricorda Agamben, di “una visione mistica e decadente, che sceglie, fra le direzioni possibili aperte a un intellettuale borghese, quella di un’opposizione anarcoide e libertaria […] Si rivela come sia estraneo al Levi ogni proposito di spiegare storicisticamente…”.
E che Alberto Asor Rosa abbia parlato di “decadente superomismo” e “fortissima carica estetizzante e irrazionale”. Giudizi fuor di bersaglio, a parte il cenno al divenire storico, che non impedirono comunque al PCI di far eleggere Levi nel contenitore della Sinistra indipendente nel corso degli anni Sessanta. Agamben ricorda le collaborazioni antebelliche di Levi a “Rivoluzione liberale” di Gobetti e a “Giustizia e libertà” di Rosselli, ma non vi trova traccia di decisive influenze culturali. Personalmente riesco a raffigurarmelo nella nebulosa rappresentata dalla sinistra del Partito d’Azione.
Al netto delle presentazioni, il saggio consta di 116 paginette densissime, in cui a detta dell’autore ci son, compiute, una teoria del nazismo, una estetica, una teoria della religione e del peccato…
Qui si può cercare solo di estrapolare qualche definizione, avvertendo che le sottolineature non sono tutte di Levi. Cominciamo con la teoria della religione. “Esiste un indistinto originario, comune agli uomini tutti, fluente nell’eternità, natura di ogni aspetto del mondo, spirito di ogni essere del mondo, memoria di ogni tempo del mondo […] morte vera è soltanto il distacco totale dall’indifferenziato, vuota ragione egoistica, astratta libertà – e, all’opposto, l’incapacità totale a differenziarsi, mistica oscurità bestiale, servitù dell’inesprimibile” (p. 41). “Religione è la sostituzione all’inesprimibile indifferenziato di simboli, di immagini reali e concrete, in modo da relegare il sacro fuori della coscienza, porgendo ad essa degli oggetti finiti e liberatori […] che tende, per liberare lo spirito dal senso terrificante della trascendenza, a sostituirla con simboli visibili, idoli” (p. 42). “L’espressione religiosa è dunque l’opposto dell’espressione poetica. L’una è la limitazione simbolica dell’universale, l’altra la sua espressione concreta; l’una è la manifestazione certa di una servitù liberatoria e divina, l’altra la voce stessa della libertà umane; l’una è rituale fisso, l’altra mitologia” (p. 89). “Soltanto il processo della interiore maturità farà dell’animale totemico, del padre intangibile, e della sacra maestà, degli amabili ricordi decorativi” (p. 46). “All’unità umana indifferenziata, all’ombroso terrore del bosco, lo spirito religioso sostituisce la servitù organizzata, e gli dèi del giardino. Al silenzio pregno di tutte le possibili parole e di tutta la possibile poesia, un mezzo di comunicazione pratico, fatto di simboli e di preghiere. Alla misteriosa fusione dell’uomo e della donna, la doppia reciproca servitù d’amore. Ai rapporti di somiglianza, di derivazione e di necessario distacco tra padri e figli, la divinità di Saturno, i sacrifici sui monti e le guerre civili” (p. 103). “Non vi è religione senza sacrificio [..] Perché il dio viva, è necessario che il distacco dal sacro avvenga in modo reale; che il dio stesso venga non solo creato e adorato, ma odiato e ucciso. Solo l’uccisione sacramentale del dio permette al dio di esistere: egli sarà tanto più reale quanto meno si confonderà con noi […] E non vi è altro modo di renderlo tale, che uccidendolo secondo un rito […] Per questo l’ospite è sacro e non si può chiedere il suo nome, e il nemico, lo straniero, è anche sacro, ma nell’opposto senso, e deve essere ucciso. Hostis e hostia sono una cosa sola” (pp.49-50). “Soltanto quando il dio non sarà più l’idolo, ma si staccherà dalla terra e dal corpo, per arrivare alla coscienza e al cielo, si dovrà sostituire la vittima; poiché, come uccidere un dio nascosto, che non può essere visto né nominato? […] Ma anche questo è ancora, fuori della persona di Cristo, per gli uomini, un sangue simbolico, un vino, una religione – e quella che dovrebbe essere reale libertà, rimane ancor sempre una pratica e rituale liberazione” (p. 107).
Oggi questo antichissimo ordine di idee è divenuto molto più popular dopo la grande considerazione ottenuta della teoria del capro espiatorio di René Girard, credente che vede in Cristo l’eversore del meccanismo sacrificale, esposta fra l’altro in Des choses cachées depuis la fondation du monde del 1978, edito in Italia da Adelphi.
Passiamo alla teoria dello Stato, prescindendo per quanto si può dalle esemplificazioni che abbozzano una sorta di filosofia della storia. “Lo Stato – idolo è dunque il segno insieme del bisogno di rapporti umani veri, e della incapacità di istituirli liberamente – della natura sacra di questi rapporti e della incapacità a differenziarli senza inaridirli” (p. 45). “La vita di ogni uomo singolo … è un mistero, oscuro alla ragione che vuole spiegare, chiarissimo al senso religioso che non richiede che una evidente e sensibile e limitata certezza. E il mistero, la storia, è fatto di un eterno sacrificio, per cui soltanto il mondo angoscioso dei miti può trasformarsi in un misterioso ma certissimo rituale […] Quello che è vero per l’individuo, è vero per la società e lo stato. Lo Stato – idolo non può esistere se non attraverso un processo di alienazione e di sacrificio sociale: se non attraverso la schiavitù […]
Perché lo Stato sia dio, tutto l’uomo, in quanto è Stato, dev’essere servo: e tutti gli uomini lo sono, dal re stesso al più basso dei paria. Tuttavia, poiché il sacrificio è un simbolo, è necessario che la generale servitù sia simboleggiata in qualcuno, la cui specifica funzione sia di portarla su di sé per tutti, di dimostrarla ostensibilmente, di diventare, per tutti, straniero allo stato, di essere, per tutti, la vittima […] Schiavi da sacrificare, uccidendoli sugli altari, o lasciandoli vivere per affidare ad essi le funzioni straniere allo stato militare, le funzioni del lavoro in genere, manuale e meccanico, che, per il guerriero, è vergognoso e perciò sacro; e talvolta il commercio, e perfino la medicina e la filosofia […] Dove gli schiavi non possono essere presi con le armi, o comprati col denaro, i cittadini stessi dovranno diventare schiavi, per un processo di espulsione e di differenziazione” (pp. 73 – 78). “La massa, che per ogni individuo è un non-io, inesistente e necessario, per ogni corpo fisico la non-qualità, origine negativa di ogni qualità, è, nel campo dei rapporti umani, un non-Stato, una informità, da cui sorge per contraddizione ogni organismo statale […] Massa non è quindi il popolo, e neanche la sua parte più bassa, la plebe; né è una determinata classe sociale – ma è la folla indeterminata, che cerca, con l’angoscia del muto, di esprimersi e di esistere” (p. 126). “La guerra, opera di uomini, ma staccata dagli uomini e incomprensibilmente divina, sacrificio necessario alla divinità dello stato, non soltanto rompe certi rapporti umani, ma tende a riportare gli uomini all’indifferenziazione che precede tutti i rapporti” (p. 127). Le grandi agglomerazioni urbane creano ugualmente massa indifferenziata. “Poiché la massa non ha confini, il suo equivalente statale, nella sua precisione simbolica e gerarchica, è un idolo di sconfinata potenza, a cui nulla può essere estraneo, il cui mistero è assoluto; e a cui tutto deve essere sacrificato, e libertà e sangue. La teoria dello stato di massa è dunque espressa nel modo più completo in quella legge veramente sublime di precisione: Credere, obbedire, combattere.” (p. 133) […] “L’identità di massa e di Stato – dio è assoluta: esse non sono che la stessa inesistenza vista come pura materia o come pura forma. Questo è il senso profondo della preghiera tante volte ripetuta, con molta fede, da milioni di esseri identici e mossi da un vento inconsapevole: Ein Reich, ein Volk, ein Fuehrer” (p. 134).
Il libro parla anche di “amor sacro e amor profano” e di “muse”, in coerenza con quanto esposto, e può essere interessante anche per questo andare a leggerlo. Oltre a tutto si presenta bene, con una copertina tratta da un particolare di un quadro di Levi esposto a Matera che rappresenta Rocco Scotellaro adolescente sullo sfondo dei calanchi, quei solchi di erosione che segnano tanti settori della dorsale appenninica. E’ un riferimento al teatro delle sue forzate osservazioni antropologiche, negli anni Trenta Levi era stato al confino di polizia in Basilicata, che lo han portato anche ad abbozzare quell’idea di stato delle autonomie locali e di democrazia diretta che aveva scandalizzato il dirigente comunista Alicata. Del resto né l’utopia antropologica né l’analisi storicistica hanno aiutato molto a prevedere quel che poi è accaduto: le comunità locali del Sud sono evolute altrimenti, in funzione dello sviluppo economico del Settentrione. Possiamo pensare in tanti modi al futuro, ma dobbiamo esser certi che in misura maggiore o minore le cose si svolgeranno diversamente.
Va detto infine che il libro è scritto da un ebreo non osservante ma nemmeno del tutto ateo, che comunque medita e interpreta creativamente la Sacra Scrittura da Genesi ad Apocalisse, senza limitarsi al canone della Bibbia ebraica. Dobbiamo tanti strumenti di comprensione dello scorso secolo e delle nostre anime a pensatori di origine ebraica, da Adorno a Wilhelm Reich, da Freud a Fromm a Marcuse… Forse anche perché essi si sono trovati nella condizione molto particolare di vivere il ruolo della vittima conservando la mente del sacerdote
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