Lia Cigarini: Un desiderio diffuso di politica
La grande manifestazione promossa dalle donne contro il neopresidente Donald Trump, ha mostrato al mondo intero la forza aggregante del movimento femminista, la sua autonomia e centralità politica. (v. Amanda Hess, How a Fractious Women’s Movement Came to lead the left in The New York Times Magazine, 7.2.2017, www.nytimes.com). Per molti è stata una rivelazione.
Si potrebbe obiettare che si tratta degli Stati Uniti, paese che vanta da molti anni una presenza qualificata di donne nel lavoro e nella politica. Questo è vero, ma sarebbe sbagliato fare degli Usa un caso eccezionale. Già da tempo alla Libreria delle donne di Milano riflettiamo sul fatto che, in quasi tutti i paesi del mondo, anche quelli ancora patriarcali, le donne sono protagoniste di un notevolissimo cambiamento in corso. Cresce infatti la loro presenza nella vita pubblica, a cominciare dal mondo del lavoro, che è lo spazio pubblico per eccellenza, come anche nella cultura, scienza e arti, e nella politica.
Partiamo dal lavoro, con un esempio a noi vicino. In una ricerca (dati ISTAT) sull’occupazione femminile nel Comune di Milano, riguardante residenti e pendolari, la sociologa Lorenza Zanuso ha fatto costatazioni e considerazioni interessanti per quello che riguarda il lavoro delle donne. E’ chiaro che Milano può essere vista, per l’occupazione in generale, un’eccezione in Italia ma la città ha sempre indicato le tendenze che in seguito si estendono a buona parte del paese. D’altra parte ci sono già dei dati, riguardanti tutto il paese, che sottolineano come l’occupazione femminile abbia sopportato meglio la crisi economica.
Per tornare a Milano, la prima buona notizia che ci dà Zanuso “è che il lavoratore milanese è per metà una donna, cioè le donne sono il 48% dei lavoratori a Milano; sono più della metà tra i giovani ventenni di cittadinanza italiana, cioè quando si dice giovani bisognerebbe pensare alle giovani. E più della metà dei lavoratori milanesi è donna. C’è da aggiungere che a Milano la maggior parte dei lavoratori (51%) – maschi e femmine, italiane e stranieri nel complesso – lavora in professioni ad alta qualificazione. Circa un terzo è nelle posizioni intermedie e il 17% nelle professioni non qualificate”.
È importante, dunque, che si cominci a cambiare la visione del lavoro e il linguaggio che lo riguarda. “Dov’è finito il lavoratore di un tempo”, si chiede Zanuso.
Esiste, in proposito una politica portata avanti da gruppi del movimento delle donne, basata sull’esperienza delle donne stesse e accompagnata talvolta da conflitti anche con i sindacati per ottenere cambiamenti significativi dell’organizzazione del lavoro.
Anche l’entrata nel mercato del lavoro, fatto di per sé non nuovo, ha cambiato di segno a partire dagli anni ’70 in quanto le donne, con la rivoluzione femminista, si sono riappropriate del corpo e della sessualità. E questo è qualcosa di inedito nella storia dell’umanità, mai visto prima.
Ciò le rende soggetti imprevisti nel mondo del lavoro. Imprevisti e complessi. “La consapevolezza di sé e la presa di parola pubblica e autonoma, infatti, mettono in discussione la secolare divisione sessuale del lavoro e, più in generale, tutta una serie di dicotomie pratiche e teoriche come padrone/schiavo, libertà/necessità, soggetto/oggetto, che sono alla base del pensiero economico e politico”, Giordana Masotto.
Dopo mezzo secolo di crescente partecipazione femminile al lavoro retribuito il tema di fondo della divisione sessuale del lavoro continua a riproporsi come campo di confronto aperto tra uomini e donne, fino a rimettere in questione alla radice la separazione simbolica, istituzionale e normativa tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra il lavoro per il mercato e lavoro domestico di cura. L’esperienza delle donne, infatti, parla di una sofferenza causata sia dal tempo smisurato di lavoro che da un’organizzazione a misura di uomo non di donna.
A partire da questo punto di vista e sollecitate anche da una crisi che svela sempre di più l’insensatezza oltre che l’ingiustizia dei discorsi e delle politiche ricorrenti, possiamo delineare una prospettiva inedita: quella di liberare tutto il lavoro di tutte e tutti ridefinendone priorità, tempi, modi, oggetti, valore/reddito, e rimettendo al centro le persone nella loro vitale necessaria variabile interdipendenza lungo tutto l’arco dell’esistenza e avendo a cuore, con il pianeta, le persone che verranno. Nasce così quella filosofia del lavoro che auspicava Simone Weil.
Altra novità di questi ultimissimi anni: se si guarda alla politica, al governo degli Stati, delle città, della finanza ecc., si vedono sempre più donne. Cito solo quelle ai vertici, tantissime essendo ovviamente quelle che si inseriscono agli altri livelli, anche in Italia: Angela Merkel, Teresa May, Janet Yellen, Christine Lagarde (rispettivamente la prima, Presidente della Banca Centrale Americana e poi FED, la seconda Presidente del Fondo Monetario mondiale). Inoltre le sindache di Barcellona, Madrid, Parigi, Stoccolma, Tokio, Roma e Torino.
Sottolineo qui che le sindache che sono presenze speciali anzitutto perché il voto che ricevono è dato alla persona, poi perché indicano un cambiamento dell’opinione pubblica che dimostra di avere fiducia nelle capacità delle donne di amministrare anche grandissime comunità. Un di più femminile riconosciuto?
Di recente le sindache di tre grandi città europee, Ada Colau, Manuela Carmena e Anne Hidalgo (Barcellona, Madrid e Parigi) in un manifesto congiunto hanno sottolineato che siamo di fronte a un cambio epocale ed è in queste comunità che si manifesta capacità di cooperazione e innovazione politica. Propongono cioè un’organizzazione di tipo statuale basata sulle città-stato. D’altra parte già nel dicembre 2015 tre assessore della Giunta Pisapia, Chiara Bisconti, Lucia Castellano e Cristina Tajani, definendosi “tre donne impegnate in politica e in relazione tra di loro”, avevano convocato un’assemblea per definire un modello di città (Milano) solidale e innovativo.
Le donne (dico le donne e non le femministe) sono in movimento da cinquant’anni (e non solo nel mondo occidentale) con la consapevolezza condivisa, da tutte mi viene da dire, che il dominio maschile non è più sopportabile, sia esso quello del padre, del marito o del compagno o dell’universalismo maschile.
Penso quindi che sia urgente interrogarsi, donne e uomini, sul significato e il senso di questo enorme cambiamento degli ultimi anni e sulle nuove contraddizioni che fa emergere.
Segnalo, poi, un altro fatto, ed è che in questi ultimi anni cresce il numero di donne eccellenti che si dichiarano femministe Sono scrittrici, artiste, registe, attrici, giornaliste, ecc. e tra loro non poche privilegiano nei loro scritti e nelle loro opere il valore della relazione materna e della genealogia femminile. Per fare solo un esempio, la più ascoltata, tra gli opinionisti della televisione inglese, ha dichiarato che la maternità è una icona del femminismo.
Anche le politiche e capi del governo che ho nominato sopra, donne così dette di potere, scelgono spesso fra le donne le loro collaboratrici e consigliere. È noto il caso di Angela Merkel. Raccontando la sua biografia in tre puntate, il quotidiano francese Le monde così ha intitolato la terza: “La Germania è governata da un triunvirato femminile”, con riferimento alle sue due più strette collaboratrici. Lo stesso vale per Janet Yellen che ha due consigliere; titolo del Corriere della Sera: “Un triunvirato femminile a capo della F.E.D.”.
E’ consuetudine, infine, associarsi tra donne nel lavoro; lo fanno soprattutto le professioniste e le lavoratrici autonome.
È un segnale decisivo, che fa pensare agli inizi della rivoluzione, quando un numero crescente di donne hanno smesso di mirare agli uomini per imitarli o pareggiarli, e si sono voltate verso altre donne per trovare forza, cercare collaborazione e trovare la persona di cui fidarsi.
Si tratta di una ripresa recente. In un recente passato i media riferivano che le giovani donne dichiaravano che il femminismo aveva avuto, sì, molti meriti, come il nuovo diritto di famiglia, la legge dell’aborto, quella del divorzio e le varie leggi di pari opportunità, ma che, oggi, a loro non aveva più niente da dire: il femminismo delle origini, quello del partire da sé e della relazione tra donne, sembrava dimenticato. Oggi, dall’osservatorio della Libreria delle donne, risulta invece che molte giovani donne si sentano femministe e si interessino ai testi base del femminismo, appunto, quello del partire da sé e della relazione tra donne.
Tutto questo mi sembra importante perché una pratica di parola (ossia, di natura simbolica) come quella della differenza femminile sta trovando il suo terreno nella cultura vivente diffusa, creando segni della differenza altrimenti muti, altri modificandoli e altri inventandoli. In sostanza e per concludere sul punto, penso che la soggettività femminile sia in gioco in tutti i campi.
Non c’è dubbio che l’attuale contesto di presenza pubblica femminile dia delle opportunità al cosiddetto femminismo della differenza. Nel cambiamento in corso c’è tutta una rinegoziazione dei rapporti tra i sessi da cui affiora la differenza sessuale, compresa quella maschile che nel passato si nascondeva nella finta neutralità.
Si tratta di risignificare la differenza, in almeno tre direzioni.
La prima: lo sguardo dell’opinione pubblica vede bene che le donne in ruoli pubblici non si travestono più da uomini nascondendo la propria femminilità, anzi. E, quando si tratta dell’umanità in generale, le nomina sempre più spesso: “donne e uomini”. Dalle donne ci si aspetta qualcosa di differente, mostrando una certa maggio fiducia verso di loro, nonostante l’attuale situazione politica di caos e confusione. Comunque sia, “peggio degli uomini non potranno mai fare”… Il bassissimo tasso di narcisismo femminile, poi, in tempi di capipopolo, costituisce una garanzia in più.
In secondo luogo, mi sembra che il protagonismo delle donne (al quale non sono mai stata contraria perché è una forma dinamica di rapporto tra il gruppo di donne e le pratiche sociali) spinga ai margini le militanti politiche che insistono sula discriminazione e la rivendicazione di parità. Nel contesto attuale, che ho delineato sopra, risulta sempre più sgradevole vedersi identificate come vittime a priori, in quanto donne. Tutte, comprese quelle che patiscono torti e prevaricazioni, cercato di esserci con un segno positivo di sé, e riconoscibile.
Infine, terza direzione, gli uomini. Oggi ci sono uomini che considerano indispensabile una presa di coscienza maschile per capire qualcosa di sé o del mondo o che sentono il bisogno di ascoltare e leggere quello che le donne pensano, e altri ci sono che vedono l’umanità femminile più amica della Terra e meglio orientata alla sua salvezza.
Tuttavia, quanto alla politica e precisamente alle sue forme costitutive, non ci troviamo d’accordo nemmeno con gli uomini più attenti al pensiero e alla cultura del movimento delle donne. Il nodo rimane quello del rapporto tra governo e gestione del potere, da una parte, e l’agire politico dei soggetti, dall’altra. Si esige che ci sia e si pretende che basti una struttura organizzata perché ci sia politica. Il movimento delle donne, per contro, non si è dato nessuna organizzazione generale, tanto meno centralizzata, e non ha “portavoce” che parlino in nome delle altre. Consiste bensì in una serie di pratiche che da cinquant’anni si avvicendano e si rinnovano, rendendoci riconoscibili fra singole e gruppi, negli incontri ed eventualmente scontri che abbiamo. Sono pratiche, come il partire da sé e la traduzione in parole dell’esperienza vissuta, che hanno in comune il processo generativo dell’impegno politico: capaci cioè di generare passo passo, nei contesti diversi, un punto di vista sulla realtà e di dare nome a ciò che accade, avendo come misura e scopo il metterci in grado di agire in prima persona, con altre/i, e sentirci libere. E questo nel mondo intero, seguendo una rete di luoghi e di rapporti tra i più diversi, creati da noi o trovati: librerie, biblioteche, riviste, case delle donne, bar, circoli, centri antiviolenza, università, scuole, sindacati, associazioni religiose o culturali, incontri nazionali e internazionali. Creando così una lingua comune delle donne. Per contro, la politica maschile, anche quella della sinistra che si vuole alternativa, insiste a riproporre lo schema del partito o della coalizione unitaria, che non mordono la realtà perché sono forme calate dall’alto.
Nella presente situazione di vittoria del neoliberismo e di scollamento della sinistra dai ceti popolari, io sostengo che le forme della politica non possono che essere intreccio tra vita e politica. Immaginare e desiderare di poter agire politica nella propria vita, è un sentimento diffuso.
Chi ha scelto di impegnarsi nella politica non può non raccogliere questa sfida e sappia che imparare l’autocoscienza dalle donne, spostarsi su nuovi terreni, praticare il conflitto relazionale, rende di più che farsi strada distruggendo l’altro.
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