Enrico Pugliese: Migranti, rifugiati e politiche sociali

| 2 Marzo 2016 | Comments (0)

Diffondiamo l’introduzione di Enrico Pugliese al numero monografico 2-3 2015 de La rivista delle politiche sociali[*]

 

Il decennio in corso e soprattutto gli anni a noi più vicini hanno visto al contempo continuità e rotture nel processo di inserimento degli immigrati nella società italiana, nonché l’emergere di nuovi elementi di comprensione del fenomeno e una migliore messa a fuoco delle tematiche di rilievo.

Per quel che riguarda le continuità l’aspetto più rilevante è il consolidamento del processo di trasformazione demografica in direzione di maggiore normalizzazione con la progressiva crescita del peso delle seconde e terze generazioni nelle famiglie degli immigrati. È proseguito anche il processo di modifica della composizione della immigrazione in base alla nazionalità, con l’incidenza sempre crescente della componente europea, e più specificamente dei cittadini di paesi aderenti all’Unione europea: il che ha contribuito alla estensione del numero delle persone a carico, tanto più elevata nel caso degli immigrati Ue, non essendo per loro necessario richiedere il permesso per il ricongiungimento familiare. Ma proprio la crescente incidenza dei familiari, soprattutto negli arrivi degli ultimi anni, ha come contropartita un dato nuovo: il minor numero e il minor ritmo di ingressi di persone con visto per lavoro.

D’altronde anche le novità di maggior rilievo riguardano indirettamente quest’ultimo aspetto. Alla riduzione del ritmo della immigrazione per lavoro, che è stata sempre assolutamente predominante – e che ovviamente lo è tuttora in termini di presenza sul territorio nazionale – nel corso di questo decennio ha corrisposto un aumento di proporzioni inusitate di profughi da diverse, ma ben individuabili, aree geografiche, arrivati attraverso la rotta mediterranea secondo la direttrice Sud-Nord.

Si tratta di una (relativa) novità che porta ad alcune riflessioni generali quali quelli condotte in alcuni dei primi saggi contenuti in questo numero: in particolare quello di Catherine Wihtol de Wenden e quello di Giuseppe Cataldi. Le questioni che vi si affrontano sono diverse. La prima e più radicale, oggetto dell’articolo di de Wenden, riguarda una delle contraddizioni principali delle migrazioni e delle norme che le regolano nonché i diritti dei protagonisti: il fatto che nel corso del Novecento si sia affermato in maniera incontrovertibile il principio del diritto dei popoli a emigrare, cioè a uscire dal proprio paese, mentre non si è presa in considerazione la prospettiva di ingresso in un altro. Il problema del dove poter andare storicamente non si è posto fino a che degli sbocchi erano garantiti, sebbene non sempre completamente, ma già dagli anni venti, con le prime limitazioni imposte dagli Stati Uniti attraverso il sistema delle quote, la questione degli ingressi diventa problematica.

Le più rigide e generalizzate restrizioni al diritto di migrare, vale a dire la impossibilità di accesso in un paese diverso dal proprio se non a determinate e più o meno restrittive condizioni, avvengono quando sulla scena migratoria si affacciano a livello di massa nuovi paesi e nuovi popoli e al contempo alcuni paesi che erano stati tradizionalmente paesi di emigrazione – come quelli della sponda nord del Mediterraneo – diventano paesi di immigrazione (passando inoltre da una situazione di mancata regolazione a una situazione di rigida quanto inefficace politica restrittiva).

Sul fronte dell’accoglienza accanto alla chiusura nei confronti dei migranti in cerca di lavoro e reddito nel corso del Novecento si afferma progressivamente il principio dell’apertura nei confronti dei rifugiati. La Convenzione di Ginevra alla fine del secondo conflitto mondiale sancisce il diritto dei perseguitati – a livello individuale, di gruppo e per motivi etnici, religiosi e altro – di essere accolti. Ma è noto che con l’evolversi dei movimenti di migranti e profughi le norme della Convenzione risultano sempre meno adeguate ad affrontare situazioni nuove e complesse. Tuttavia risulta complicato trovare soluzioni capaci di rispondere alle esigenze nuove di masse crescenti di persone in cerca di asilo. È così che si diffonde – come mostra Danielle Joly

[2] in un contributo importante comparso agli inizi del duemila – in molti paesi la pratica di intervenire attraverso norme «tampone» per accogliere masse di migranti per i quali spesso diventa difficile, se non logicamente impossibile, definire se si tratti di emigrazione politica o di emigrazione economica. Ma soprattutto si cerca di stabilire il principio che l’asilo possa avere carattere temporaneo.

Con l’affermarsi del diritto all’accoglienza dei rifugiati si afferma anche il discorso sulla differenza tra emigrazione economica ed emigrazione politica: questione già affrontata, purtroppo in maniera molto maldestra, pure in Italia in occasione dei primi arrivi di massa degli albanesi agli inizi degli anni novanta. Ma sono gli eventi dell’estate del 2015 a mostrare come sia ingenua questa distinzione e come di conseguenza sia anche crudele la conclusione ricavata da questa azzardata suddivisione secondo cui «i veri rifugiati vanno accolti e gli altri migranti (per lavoro, per fame e quant’altro) spediti indietro». Infatti – e gli eventi del 2015 lo dimostrano in maniera emblematica – per effetto di eventi bellici si determinano esodi di massa, flussi di migranti che seguono una stessa rotta e che comprendono ogni tipo di componente. Non è un caso che ad esempio la Germania nell’agosto del 2015 a proposito dell’esodo della Siria abbia deciso di accogliere i migranti provenienti da quel paese in toto, senza limitare l’accesso ai rifugiati (o presunti tali). E – come spesso accade in questa materia – c’è una ulteriore complicazione in un quadro già di per sé complicato: all’apertura universalista nei confronti dei migranti siriani corrisponde una discriminazione nei confronti di coloro che, pur protagonisti dello stesso esodo, attraverso la stessa rotta balcanica e gli stessi canali, appartengono ad altre nazionalità.

Un importante chiarimento su queste tematiche arriva dal saggio di Giuseppe Cataldi, studioso del diritto del mare, che affronta la questione proprio dal punto di osservazione dei diritti dei migranti nel Mediterraneo cui si dedica l’attività del Centro «Jean Monet» da lui diretto. Il saggio parte dalla considerazione che le migrazioni via mare – nel caso che interessa l’Italia oggi dalla sponda sud a quella nord del Mediterraneo – pur costituendo una percentuale minoritaria del fenomeno complessivamente inteso, comportano molti rischi per la vita umana a causa delle condizioni nelle quali il viaggio avviene. E questo – detto per inciso – contribuisce all’attenzione che la stampa e il grande pubblico danno al fenomeno, per altro giustamente ma senza gran-de comprensione dei processi e dei fenomeni che stanno alla base dell’attivazione di questa pericolosa rotta negli ultimi anni.

In questo flusso di migranti, costituito da persone in cerca di asilo e da persone in cerca di lavoro, la prima componente ha un peso maggiore in determinati periodi come appunto l’attuale. Cataldi dà anche una spiegazione del motivo dell’intensificarsi del flusso di profughi nel Mediterraneo collegandolo alla specifica situazione politico-sociale dei paesi di provenienza e all’aggravarsi delle situazioni di guerra e di oppressione. Non è un caso che i migranti provenissero (e in parte ancora provengono) in larga misura dall’Eritrea e – all’inizio – pure dalla Siria. E questo spiega anche la scarsa validità di una tesi popolare quanto poco fondata che è quella del calling effect: vale a dire di una sorta di effetto richiamo che la situazione del Mediterraneo e le attività di vigilanza e di salvataggio – insomma di rispetto del diritto dei migranti – eserciterebbero su potenziali flussi provenienti anche da aree molto distanti.

La questione del salvataggio si intreccia con due altre funzioni che gli Stati esercitano nei confronti dei migranti via mare. Si tratta del controllo delle frontiere e della repressione dei traffici illeciti. Sono attività e funzioni diverse che non possono essere confuse e che postulano direttive diverse da parte degli Stati. Cataldi presenta il caso del-l’operazione Mare nostrum che nata con l’obiettivo precipuo di salvare vite umane – e funzionante in maniera efficace per tutto il periodo della sua attività – è stata sostituita nel 2015 dall’operazione Triton, nell’ambito della agenzia Frontex, il cui compito è la protezione delle frontiere, ovvero evitare lo sbarco in Italia di migranti.

La vicenda individuale di queste masse di migranti non si risolve automaticamente al loro arrivo. C’è per molti una penosa odissea che non riguarda solo coloro che risultano assolutamente «non rifugiati», non aventi diritto all’asilo o ad altre forme di protezione. Spesso coloro i quali imboccano il percorso che porta al riconoscimento della condizione di profughi e richiedenti asilo, come mostra Marco Accorinti, vivono una fase in cui sono oggetto di vuoto assistenzialismo, per difficoltà burocratiche e scarsa comprensione della loro situazione da parte dei gestori delle istituzioni di «accoglienza», con il risultato di diventare vittime di stigma («imbroglioni», ecc.) e trovarsi alla fine a vivere in condizioni peggiori di prima.

Sul tema dell’accoglienza ai migranti e in particolare ai rifugiati si sofferma Grazia Naletto con un articolo di taglio più generale riguardante anche aspetti delle politiche sociali per gli immigrati. Naletto parte dalle reazioni della società italiana all’aumento del numero delle persone che nei due anni scorsi hanno cercato rifugio in Europa sbarcando sulle coste italiane e dalle preoccupazioni che ciò ha determinato nell’opinione pubblica. Una di queste riguarda la spesa eccessiva che le politiche migratorie, e in particolare quelle di assistenza agli immigrati e ai rifugiati, comportano. Seguendo un filone di analisi e documentazione condotto da «Lunaria», l’associazione di sostegno agli immigrati, Naletto mostra come la spesa per politiche di contrasto all’immigrazione irregolare sia infinitamente superiore a quelle relativa alle politiche sociali e di inserimento degli immigrati. E procede a un’analisi dettagliata delle voci di spesa per l’accoglienza.

Nel suo saggio Accorinti presenta il quadro della molteplicità di centri che «accolgono» i migranti e in particolare i rifugiati. Si resta impressionati per la vasta tipologia di strutture con compiti e funzioni diverse, per altro mutevoli nel tempo, così come mutevoli sono stati appunto i loro compiti. Detto per inciso, la panoramica rappresenta un’utile lettura per chi nei media e nel discorso pubblico tratta questi temi confondendo spesso nomi e termini. D’altronde la confusione e le complicazioni – mostra Accorinti – sono cresciute nel corso del tempo con l’aumento del numero degli arrivi sulle coste italiane che negli ultimi anni ha avuto un vero e proprio salto di qualità.

Questo per quel che riguarda la tematica dei rifugiati su cui si focalizza ora l’attenzione dell’opinione pubblica. Ma nel frattempo elementi di continuità ed elementi di trasformazione importanti hanno riguardato anche gli altri migranti. Mentre l’attenzione del pubblico, della stampa e della politica è rivolta alla cosiddetta emergenza profughi, il processo di inserimento degli immigrati va avanti in un paese che negli ultimi decenni ha avuto un ritmo di incremento della popolazione straniera davvero eccezionale (come in dettaglio documenta Salvatore Strozza) portando così l’incidenza degli stranieri al 10 per cento della popolazione italiana. Tra i tanti indicatori di integrazione due sono particolarmente significativi: il lavoro e la scuola. I contributi di Strozza e di Vitiello mostrano l’evoluzione della situazione degli immigrati in Italia con le luci e le ombre nel processo di integrazione. Nella condizione della seconda generazione si esprime più che in ogni altro aspetto il successo del processo di integrazione e le prospettive di questi giovani sono in primo luogo determinate dalle difficoltà o dal livello di successo scolastico. Da questo punto di vista, la situazione in Italia è piuttosto contraddittoria. Da un lato la presenza dei giovani stranieri o con un genitore straniero nelle scuola è aumentata notevolmente e velocemente. È cresciuta in maniera rilevante la presenza nei gradi superiori, ennesima espressione della stabilizzazione della immigrazione: non più solo bambini ma anche adolescenti e adulti. Sul fronte dei problemi c’è però quello che quasi sempre riguarda le seconde generazioni, vale a dire le difficoltà scolastiche: tra gli studenti immigrati ci sono, rispetto agli italiani, maggiore dispersione sco-lastica, minore successo negli studi, frequenti ritardi (collegati spesso all’età di arrivo in Italia) e in ultimo concentrazione nei percorsi formativi più brevi e che dovrebbero favorire l’inserimento precoce nel mercato del lavoro.

Come accennato – a parte i rifugiati – il decennio si caratterizza per la progressiva incidenza di ingressi per ricongiungimento familiare rispetto a quelli per lavoro. In questo come in altri campi i dati possono avere un significato diverso ed esprimere processi anche di senso contrario. Così, dal punto di vista della integrazione, i ricongiungimenti familiari esprimono indubbiamente un dato positivo: un passo in avanti nel processo di normalizzazione demografica della popolazione. D’altro canto però l’incremento della loro stessa incidenza può essere – e in parte lo è – frutto del minor incremento del numero di lavoratori immigrati. Il che non è certo un segno positivo. Esso infatti va collegato anche alla crisi e alla recessione che ne è seguita.

Nel suo contributo Mattia Vitiello fornisce un quadro complessivo della situazione degli immigrati nel mercato del lavoro e nell’occu-pazione, mostrando anch’egli continuità e cambiamenti e mettendo in luce significativi effetti della crisi. Le caratteristiche di base dell’occu-pazione immigrata, tipiche del modello di immigrazione mediterraneo, sono la predominate occupazione nei servizi e la elevata componente femminile (quest’ultima concentrata, come è noto, nei lavori di collaborazione domestica e ora sempre più nei lavori di cura). Questo secondo aspetto, al quale si fa riferimento in dettaglio in un altro saggio (Omizzolo) è notoriamente frutto del forte cambiamento demografico del paese con i processi di invecchiamento della popolazione – per altro in un quadro di insufficienza dei servizi di welfare e di ridotta disponibilità di cure gratuite da parte dei familiari. Al brain drain, che sempre più chiaramente sembra colpire l’Italia, fa da pendant un fenomeno di care drain, di drenaggio di forze lavoro per le attività di cura, da parte del nostro paese.

Questo è l’aspetto determinante – ancorché non esclusivo – dell’oc-cupazione femminile. E non risulta che ci siano state significative modificazioni sulla destinazione occupazionale negli ultimi anni. Per quanto riguarda invece l’occupazione maschile fino agli anni iniziali della crisi si era avuto un progressivo aumento dei lavoratori immigrati nell’industria e in particolare in fabbrica: processo che si è interrotto ed è stato sostituito da un processo inverso. Prima si passava dal precariato nell’agricoltura e nell’edilizia all’industria (e dal Sud al Nord) ora si passa dall’industria al precariato e a volte si ritorna al Sud. Nella documentazione offerta da Vitiello colpisce la tabella relativa ai cambiamenti nella composizione dell’occupazione che mostra negli anni successivi al 2007 una stasi dell’occupazione industriale (con un calo notevole dell’incidenza sul totale dell’occupazione), mentre ovviamente aumenta in valori assoluti e relativi l’occupazione nei servizi.

Un altro significativo indicatore degli effetti della crisi sul mercato del lavoro è l’elevato tasso di disoccupazione che riguarda non solo le regioni del Sud ma anche quelle del Nord. Nel primo caso gli italiani hanno un tasso di disoccupazione paragonabile a quello degli stranieri. Al Nord invece si nota come i livelli siano diversi, in coerenza con quanto è stato mostrato anche per gli altri paesi europei sin dai tempi delle grandi migrazioni intraeuropee e dell’analisi di Castles e Kosack[3]. All’inizio del lungo periodo di crisi e recessione vissuto dall’Italia i meccanismi della segmentazione del mercato del lavoro avevano tenuto in qualche modo gli immigrati parzialmente al riparo dalla crisi. Basti ricordare ad esempio che l’occupazione femminile straniera negli ultimi anni del decennio scorso era aumentata (grazie alla domanda di lavoro di «badanti» da parte delle famiglie) facendo lievitare l’intera occupazione femminile nel paese. Ora questo è finito e i dati di occupazione e disoccupazione – e qualche contributo di ricerca empirica – mostrano le difficoltà in cui versano gli immigrati. Questo non significa che non ci siano stati anche dei processi virtuosi di inserimento nella società tramite il lavoro. Significa solo che si determinano nuove condizioni di esclusione o di super-sfruttamento, come è nel caso dei braccianti agricoli dei quali si occupa il saggio di Francesco Carchedi. Riferito in primo luogo a questa categoria di lavoratori, l’articolo allarga l’ottica al tema delle nuove schiavitù e alla problematica della tratta. Sulla base delle analisi e delle stime condotte presso l’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai, il contributo analizza la portata dei fenomeni di grave sfruttamento lavorativo in agricoltura e mostra soprattutto le forme in cui si esercita questo sfruttamento. Quello del lavoro agricolo rappresenta uno degli ambiti più problematici della immigrazione italiana, in particolare nel Mezzogiorno dove in alcune zone sono ricomparsi i fenomeni di mercato delle braccia e di caporalato.

Tra le tematiche meno studiate in Italia nell’ormai vastissimo filone di studi sull’immigrazione c’è sicuramente quella del rapporto tra immigrati e sindacato. Il primo importante dato da sottolineare è l’elevato tasso di sindacalizzazione dei lavoratori immigrati, come mostrano con accurata documentazione statistica Matteo Rinaldini e Stefania Marino. Si tratta di un dato inusuale e inaspettato in considerazione di quanto avvenuto in passato in diversi contesti europei dove spesso i sindacati hanno portato avanti una linea, per così dire, «protezionista». Pertanto si è parlato di un «eccezionalismo» italiano dovuto all’impe-gno dei sindacati italiani Cgil, Cisl e Uil in difesa dei diritti degli immigrati e per la loro estensione. E in effetti fin dall’inizio dell’immigra-zione i sindacati italiani hanno avuto una funzione di rilievo anche nella produzione della politica migratoria, almeno per quanto attiene agli aspetti più avanzati delle tematiche relative al lavoro e ai diritti sociali. Ma l’impegno si è espresso ovviamente pure nell’ambito specifico dell’azione sindacale che è quello della contrattazione collettiva, nella quale almeno fino alla crisi sono stati introdotti pure temi riguardanti specificamente gli immigrati e il rispetto delle loro culture. Ci sono state – e ci sono tuttora – anche delle carenze dell’azione sindacale che si esprimono nel sotto-inquadramento degli immigrati rispetto agli italiani o nella minor presenza degli immigrati iscritti nei quadri alti delle organizzazioni. E anche in questo campo la crisi ha fatto sentire i suoi effetti, riducendo la capacità di azione del sindacato, talché la contrattazione collettiva su tematiche relative all’immigrazione ha registrato un rallentamento, mentre aree di lavoro precario continuano a sfuggire alla capacità di organizzazione e rappresentanza dei grandi sindacati. Tuttavia l’esperienza complessiva continua a mantenere aspetti inusualmente positivi, soprattutto se si parte da un’ottica comparativa, in molti ambiti di intervento dell’azione sindacale.

Anche le politiche sociali e la loro effettiva applicazione sono condizionate dalla crisi. Ed è proprio nel contesto della crisi, delle difficoltà economiche nonché della ideologia neo-liberista che in questo contesto tende a prevalere, che si inquadra il contributo di Elena Spinelli su immigrazione e welfare, un rapporto particolarmente complesso. L’ar-ticolo parte da un tema caro all’autrice che è quello della discriminazione e della «stratificazione civica» per cui gli immigrati sono suddivisi in base al loro status legale (regolare con carta di soggiorno, regolare con permesso di soggiorno, irregolare richiedente asilo, rifugiato, beneficiario di protezione umanitaria, ecc.) e in base a esso viene stabilito il livello di accesso ai diritti sociali di cittadinanza che compete loro. Per questo la cittadinanza «da fattore di progresso, eguaglianza e inclusione sta trasformandosi in privilegio di status, in fattore di esclusione e di discriminazione» nei confronti degli immigrati. Un altro aspetto che merita di essere preso in considerazione riguarda il modo in cui vengono effettivamente messe in atto le politiche di protezione sociale, e quindi l’effettivo accesso ai diritti da parte degli immigrati. Giustamente Spinelli ricorda che le principali variabili che condizionano la capacita degli immigrati di beneficiare dei servizi sociali sono l’esistenza del diritto all’accesso, la consapevolezza di questo diritto e l’effettivo esercizio del diritto. E difficilmente queste tre condizioni sono accessibili per gli immigrati. Insomma l’estensione dei diritti sociali di cittadinanza (cioè dei benefici del sistema di welfare) ai non cittadini è una conquista mai realizzata completamente e messa duramente in discussione in questa fase (non solo nel nostro paese).

In questo numero della rivista si è inteso prendere in considerazione le tematiche più rilevanti riguardanti le diverse dimensioni della condizione degli emigranti e dei rifugiati e affrontarle con l’aiuto della documentazione empirica disponibile, con riferimento alle indagini di campo, con un’attenzione alla realtà di altri paesi e alla letteratura internazionale sul tema allo scopo di fornire un quadro il più ricco possibile riguardante migranti, rifugiati e politiche sociali.

 

NOTE

[*] Il contributo introduce la sezione Tema del n. 2-3/2015 de «la Rivista delle Politiche Sociali».

[2] D. Joly, I parametri del nuovo regime di asilo in Europa, «La critica sociologica», n. 143-144, 2003.

[3] S. Castles e G. Kosack, Immigrant Workers and Class Structure in Western Europe, Oxford University Press, Londra, 1973 (trad. it.: Immigrazione e struttura di classe in Europa occidentale, Franco Angeli, Milano, 1975).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Category: Migrazioni, Osservatorio Europa, Osservatorio internazionale

About Enrico Pugliese: Enrico Pugliese (1942) è professore ordinario di Sociologia del lavoro presso la Facoltà di Sociologia della Sapienza-Università di Roma. Dal 2002 al 2008 è stato direttore dell'Istituto di ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRPPS-CNR). La sua attività di ricerca ha riguardato principalmente l'analisi del funzionamento del mercato del lavoro e la condizione delle fasce deboli dell'offerta di lavoro, con particolare attenzione al lavoro agricolo, alla disoccupazione e ai flussi migratori. Si è occupato, inoltre, dello studio dei sistemi di welfare, con particolare attenzione al caso italiano e all'analisi delle politiche sociali. Tra le sue pubblicazioni recenti: L'Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne (Il Mulino, 2006); Il lavoro (con Enzo Mingione, Carocci, 2010); L'esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con M. Immacolata Maciotti, Laterza, 2010); La terza età. Anziani e società in Italia (Il Mulino, 2011).

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