Elezioni in Medio Oriente: il rompicapo egiziano

| 10 Aprile 2012 | Comments (0)

Le prime due tornate elettorali previste per eleggere la camera bassa del Parlamento egiziano, che si sono concluse il 22 dicembre con i ballottaggi, ci consegnano un quadro politico alquanto enigmatico. I nuovi scontri a Piazza Tahrir fra manifestanti e militari, che si sono verificati prima e durante le operazioni di voto, hanno reso fortemente incerti i futuri rapporti di forza fra i vari soggetti politici all’interno e all’esterno dell’arena parlamentare. I diversi avvenimenti che hanno caratterizzato la politica egiziana negli ultimi due mesi possono essere ricostruiti analizzando la relazione predominante che di volta in volta si è instaurata fra i tre principali attori politici: Piazza Tahrir, i partiti politici e il Consiglio Supremo delle Forze Armate (acronimo inglese SCAF) che svolge ad interim le funzioni di presidente dopo la caduta di Hosni Mubarak l’11 febbraio scorso.

 

Gli scontri pre-elettorali

La prima metà di novembre è stata segnata dal confronto politico fra il Consiglio Supremo delle Forze Armate e i partiti politici, in particolare il partito “Libertà e Giustizia” braccio politico dei Fratelli Musulmani, in merito alla proposta legislativa del vice primo ministro Ali Al-Selmy. Il testo prevedeva l’adozione di un documento di principi sovra-costituzionali che assicurassero al Consiglio Supremo delle Forze Armate la propria autonomia attraverso la possibilità di porre il proprio veto su ogni legislazione che li riguardasse e di gestire senza alcuna interferenza parlamentare il proprio budget. Inoltre, il documento proponeva il ridimensionamento del futuro parlamento nella scelta dei membri dell’assemblea costituente. La proposta ha inevitabilmente generato una decisa opposizione della maggior parte delle forze politiche, soprattutto del partito Libertà e Giustizia, che, in quanto principale favorito per le imminenti elezioni parlamentari, sarebbe risultato il soggetto politico maggiormente penalizzato dal “documento Al-Selmy”. Per questo motivo, i Fratelli Musulmani sono stati i promotori, venerdì 18 novembre, di una manifestazione per richiedere entro Aprile 2012 il passaggio dei poteri esecutivi dal Consiglio Supremo delle Forze Armate a un presidente eletto.

La coda della manifestazione, rappresentata da un sit-in di poche decine di manifestanti, ha generato il giorno successivo una nuova ondata di scontri fra militari e migliaia di manifestanti, accorsi in Piazza Tahrir a seguito del tentativo delle forze dell’ordine di sgomberare con la forza il sit-in di protesta. La violenta contrapposizione che ne è seguita ha immediatamente posto al centro del confronto politico il contrasto fra il Consiglio Supremo delle Forze Armate e la piazza, relegando in secondo piano i partiti politici. La stragrande maggioranza di quest’ultimi, infatti, ha deciso di non prendere parte alle proteste di piazza per non mettere a repentaglio lo svolgimento delle prime elezioni politiche dopo la caduta di Mubarak. L’escalation del confronto fra manifestanti e militari ha generato una vera e propria guerriglia urbana nelle zone antistanti Piazza Tahrir. Nel corso dello scontro i militari non hanno esitato a utilizzare lacrimogeni, proiettili di gomma e persino proiettili veri contro i giovani che cercavano di proteggere l’accesso alla piazza dalla strada Mohammed Mohamoud. L’obiettivo dei manifestanti era di “salvare la rivoluzione” o meglio di realizzarla pienamente chiedendo, a differenza della manifestazione del 18 novembre, l’immediato passaggio dei poteri dal Consiglio Supremo delle Forze Armate a un consiglio presidenziale ad interim composto da civili in attesa delle prossime elezioni presidenziali.

La credibilità dei militari come affidabili guardiani della rivoluzione e come garanti di un’autentica transizione verso un nuovo sistema politico è andata, infatti, progressivamente deteriorandosi dalla fine della presidenza Mubarak. A tale involuzione ha contribuito soprattutto la consistente violazione dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza, documentata in un nuovo rapporto di Amnesty International pubblicato poco prima dell’inizio delle elezioni. In particolare, l’utilizzo dei tribunali militari per processare civili è stato al centro di un importante movimento di protesta civile che ha dato vita alla vibrante campagna “No military trials for civilians” (No ai tribunali militari per i civili). Dagli scontri cominciati il 19 novembre e terminati, di fatto, giovedì 24 novembre, i manifestanti hanno ottenuto dallo SCAF al caro prezzo di oltre 40 morti e 2000 feriti i seguenti risultati: la scadenza di fine giugno 2012 per il passaggio definitivo dei poteri esecutivi dallo SCAF al futuro presidente, la formazione di un nuovo governo e la creazione di un “advisory council” (consiglio di consulenza) composto da vari soggetti della società civile, incluse alcune figure del consiglio rivoluzionario, con lo scopo di consigliare lo SCAF in attesa del passaggio del potere esecutivo ad un’autorità civile.

Tuttavia, i recenti episodi hanno segnato un solco profondo nel panorama politico egiziano. Se da un lato i manifestanti a Piazza Tahrir si sono indubbiamente confermati un determinante soggetto politico, dall’altro si è verificata una significativa polarizzazione all’interno della società civile fra i favorevoli e i contrari alle proteste. Dalle conversazioni con diversi egiziani al di fuori di Piazza Tahrir sono emersi chiaramente segmenti della società contrari alla proteste verso i militari, a causa sia delle pesanti conseguenze economiche legate all’instabilità politica (le perdite economiche dal gennaio scorso sono stimate intorno ai 7,5 miliardi di dollari), sia della convinzione diffusa che potessero ostacolare la transizione democratica del paese. A questo proposito, i membri del Consiglio Supremo delle Forze Armate si sono adoperati costantemente a sollevare nei media nazionali forti dubbi sull’attuale rappresentatività delle proteste di Piazza Tahrir.

In questo frangente si è consumata parallelamente una forte contrapposizione fra i manifestanti e i principali partiti politici che non hanno preso parte alle manifestazioni in piazza. I principali assenti, i Fratelli mussulmani, hanno deciso di non aderire alle proteste sia perché si spingevano ben oltre la loro circostanziata richiesta di fissare una scadenza precisa per il passaggio di consegne, sia perché temevano potessero mettere seriamente a repentaglio la realizzazione delle elezioni parlamentari, le prime a cui partecipavano con un loro partito e per le quali erano considerati i principali favoriti. Queste posizioni sono state percepite dai manifestanti come una collusione con lo SCAF e come tale illegittima e contraria alla realizzazione della rivoluzione. Si è innescata dunque una delicata competizione fra la piazza, detentrice della legittimità rivoluzionaria, e i partiti politici, prossimi ad ottenere la legittimità rappresentativa derivante delle elezioni.

 

I risultati elettorali

Le elezioni parlamentari rappresentano l’inizio della transizione politica del paese, a cui seguiranno la formazione dell’assemblea costituente che redigerà la nuova costituzione, il referendum popolare sul testo costituzionale e le elezioni presidenziali. Lo svolgimento delle elezioni parlamentari è articolato in tre diverse fasi elettorali per la camera bassa e una per la camera alta per una durata complessiva di tre mesi. Questo lungo e complesso processo è motivato dalla necessità di garantire in ogni seggio elettorale la presenza di un giudice come supervisore e la necessaria sorveglianza delle forze di sicurezza, esigenza che non potrebbe essere soddisfatta se le elezioni avvenissero contemporaneamente in tutto il paese. I primi due turni elettorali con i rispettivi ballottaggi si sono conclusi il 22 dicembre.  In attesa della terza fase che si concluderà il prossimo 11 gennaio, si possono analizzare le prime due tornate elettorali sotto due diversi punti di vista:  procedurale e sostanziale. Partendo dal primo, va sottolineato che lo svolgimento complessivamente “free and fair” (libere e regolari) e l’elevata affluenza al seggio, pari al 52%, hanno determinato il generale successo del processo elettorale. Un successo che ha generato un duplice effetto: riportare al centro della scena politica i partiti politici e ridimensionare le proteste in atto a Piazza Tahrir. Ne è stata la riprova il progressivo svuotamento della piazza e il ridimensionamento dello spazio concesso alle proteste sulle prime pagine dei giornali nazionali. La diminuzione dei manifestanti in piazza ha evidenziato una spaccatura fra quanti si sono, in un certo senso, accontentati di aver ottenuto una data dallo SCAF per il passaggio di consegne al futuro presidente e il regolare svolgimento delle elezioni e quanti invece sono rimasti inamovibili sulla richiesta della fine immediata del regime dello SCAF e sul boicottaggio di fatto del processo elettorale ritenuto come illegittimo.

Mentre, la seconda considerazione riguarda i risultati veri e propri delle urne. Dopo i primi due turni, che si sono conclusi il 22 dicembre con i ballottaggi, il partito Libertà e Giustizia, legato ai Fratelli Musulmani, ha ottenuto il 47% dei seggi e, a sorpresa, è giunto in seconda posizione il partito salafista Al-Nour conquistando il 24%.  Sono giunti in terza posizione, con il 7% dei seggi, lo storico partito liberale Al-Wafd e la coalizione “Blocco Egiziano”, intenzionata a riunire tutte le forze politiche decise a dar vita a uno Stato civile democratico basato sulla separazione fra religione e politica.  Il deludente risultato elettorale delle forze liberali è spiegabile non solo alla luce della forte presenza territoriale dei Fratelli Musulmani e dei salafisti, ma anche per la loro mancata coesione e incapacità di offrire risposte concrete e credibili per fronteggiare le gravi difficoltà economiche che il paese sta affrontando. La coalizione “la Rivoluzione continua”, costituita da molte delle forze protagoniste della rivoluzione  estremamente eterogenee fra loro (liberali, socialisti, ex membri dei Fratelli Musulmani), non è riuscita, a causa delle scarse risorse economiche e del limitato tempo a disposizione per la campagna elettorale, ad andare al di là del 2% dei seggi.

Il responso delle urne ha confermato lo strapotere della macchina organizzativa dei Fratelli Musulmani e del partito salafista Al-Nour rispetto alle altre forze politiche e ha generato forti timori sulla possibile deriva fondamentalista della politica egiziana a causa della significativa presenza salafista. I Fratelli Musulmani, espressione di un Islam moderato, vogliono uno Stato civile ispirato ai principi generali della sharia, al contrario dei salafisti, la cui visione si avvicina molto di più a quella di uno Stato teocratico.  L’idea politica dei salafisti si basa sul principio della supremazia della legge divina su quella umana, principio che li porta a richiedere l’applicazione letterale della legge islamica e ad appoggiare l’idea che i dotti religiosi abbiano un potere di supervisione sull’attività del parlamento.

Il partito salafista Al-Nour (La Luce) è nato sulla scia della “rivoluzione” cominciata il 25 gennaio su volontà di Yasser Borhami, un predicatore salafista e figura di spicco del principale gruppo salafista egiziano Al-Daawa. Il suo scopo principale era di dar vita ad un partito in grado di riunire il movimento islamista egiziano e di applicare l’Islam a tutti gli aspetti della vita sociale e politica. Lo stesso Borhami ha dichiarato al termine della prima fase elettorale che “i salafisti accettano la democrazia secondo i principi islamici e fino a quando non è incompatibile con le domande della popolazione e con la legge coranica”. I principali timori generati dall’applicazione letterale salafista della legge coranica hanno investito in particolare il settore finanziario e quello turistico. Nel primo si teme che un governo salafista cerchi di islamizzare le banche proibendo ad esempio il tasso di interesse, non ammesso dalla sharia. Mentre, per quanto concerne la vitale industria turistica c’è il timore che un’eventuale proibizione degli alcolici e segregazione fra i sessi possano scoraggiare molti turisti a recarsi in Egitto, acuendo la crisi del settore cominciata dall’inizio del 2011.

Il periodo compreso fra l’inizio delle elezioni parlamentari, il 28 novembre, e il primo turno della seconda fase elettorale, il 14 dicembre, è stato segnato da un nuovo confronto fra il Consiglio Supremo delle Forze Armate e il partito Libertà e Giustizia.  Sulla scia della netta vittoria elettorale, il partito vincitore ha temporaneamente avanzato la richiesta che il nuovo primo ministro fosse espressione della maggioranza parlamentare e non della nomina dello SCAF. Questa posizione, nonostante sia stata rapidamente rettificata, ha generato tensioni che si sono esplicitate nella provocatoria affermazione del generale Mukhtar al-Mulla, secondo il quale il parlamento che va prefigurandosi non rappresenterebbe tutti i settori della società. Per questo motivo, il generale ha anche sottolineato la necessità che l’advisory council, lavori con il nuovo parlamento per individuare i criteri di selezione dei membri della futura assemblea costituente. Un’affermazione che ha confermato la volontà dello SCAF di svolgere il ruolo di baluardo e di guardiano dello Stato contro l’avanzata delle forze islamiche, ma che ha spinto i Fratelli Musulmani a ritirare i propri membri dall’advisory council in segno di protesta verso il tentativo in atto di limitare il ruolo del futuro parlamento. È facile prevedere che la formazione dell’assemblea costituente e la redazione della nuova costituzione costituiranno i principali temi del dibattito politico a conclusione delle elezioni parlamentari e che diventeranno un delicato terreno di confronto fra lo SCAF e il partito Libertà e Giustizia.

 

Nuovi scontri

Al termine del primo turno della seconda fase elettorale, l’asse SCAF-Piazza Tahrir è tornato però ad essere il protagonista della scena politica a causa dei violentissimi scontri che hanno avuto luogo a partire da venerdì 16 dicembre fra i militari e i partecipanti del sit-in di protesta, allestito da fine novembre davanti l’edificio del primo ministro. Il pestaggio di un manifestante da parte delle forze dell’ordine ha dato vita a un’escalation di violenza che ha provocato in meno di una settimana circa 15 morti e 800 feriti.  Alla rabbiosa reazione dei dimostranti, concretatasi in un fitto lancio di pietre, è seguita una brutale repressione dei militari, la cui immagine simbolo è divenuta la scena del pestaggio e del parziale denudamento di una donna velata da parte di un gruppo di soldati. Lo SCAF e il primo ministro Ganzouri, si sono subito affrettati a screditare i manifestanti definendoli controrivoluzionari o insinuando addirittura che fossero mercenari pagati per creare il caos nel paese. La spropositata e brutale reazione dei militari ha spinto numerose figure politiche, giornalisti e attivisti a chiedere un rapido passo indietro dello SCAF per evitare ulteriori scontri. Uno degli scenari proposti è quello di anticipare le elezioni presidenziali al 25 gennaio, data simbolica dell’inizio della rivoluzione. L’idea è stata accolta positivamente da alcuni parlamentari neoeletti Amr Hamzawy e Mostafa El-Naggar del movimento del 6 Aprile, Mohamed El-Beltagy del partito Libertà e Giustizia, dall’ex primo ministro Essam Sharaf e dalla pagina facebook “We are all Khaled Said” (una dei principali promotori della manifestazione del 25 gennaio). Tuttavia, questa ipotesi preoccupa molti analisti politici sia per il poco tempo a disposizione per svolgere la campagna elettorale sia per il fatto di eleggere un presidente con eccessivi poteri prima della redazione della nuova costituzione. Una proposta alternativa è stata avanzata da Ibrahim Eissa, caporedattore della testata Al-Tahrir, secondo il quale il futuro presidente della camera potrebbe assumere le veci di presidente in attesa delle elezioni presidenziali attualmente in programma per giugno 2012. La proposta di Eissa non è però vista di buon occhio dal fronte liberale perché offrirebbe la possibilità ai Fratelli Musulmani di controllare la presidenza, in quanto detentori della maggioranza parlamentare. Il terzo scenario possibile, già emerso nel corso degli scontri di fine novembre, consiste nella formazione di un consiglio presidenziale temporaneo, a cui lo SCAF affiderebbe i suoi poteri esecutivi in attesa delle elezioni presidenziali. La principale criticità della proposta risiede nel raggiungimento di un consenso sulle modalità di scelta dei membri del consiglio.

Il quadro politico egiziano risulta essere alquanto fluido e incerto, rendendo difficile qualsiasi previsione sui futuri rapporti di forza fra i tre protagonisti principali: i partiti politici, il Consiglio Supremo delle Forze Armate e Piazza Tahrir. Si possono ad ogni modo avanzare alcune supposizioni.

Il partito Libertà e Giustizia, vincitore della maggioranza dei seggi parlamentari, ha più volte ribadito il suo impegno a non governare da solo, a coinvolgere le altre forze politiche per il bene del paese e a non voler presentare un proprio candidato per le prossime elezioni presidenziali. In particolare quest’ultima posizione, sembrerebbe confermare la volontà dei Fratelli Musulmani di non approfittare della loro posizione di forza per evitare uno scontro, sia con lo SCAF, sia con le forze liberali. Da parte sua il Consiglio Supremo delle Forze Armate farà il possibile per arginare il potere delle forze islamiche vigilando soprattutto sulla fase di scrittura della nuova costituzione. Un membro del consiglio di consulenza dello SCAF ha recentemente affermato che i nuovi parlamentari non parteciperanno alla redazione del nuovo testo, ma solo all’approvazione della selezione dei membri della futura assemblea costituente.  Lo SCAF, di sicuro, farà in modo che il processo avvenga senza intoppi. È possibile ipotizzare che i Fratelli Musulmani cercheranno di evitare uno scontro con i militari, a meno che quest’ultimi non violino gravemente le prerogative del nuovo parlamento. Inoltre, è possibile escludere che il partito Libertà e Giustizia formerà un’alleanza con i salafisti, se troverà la disponibilità delle altre forze politiche a collaborare in parlamento. Sul fronte del rapporto fra la piazza e i militari sono ipotizzabili nuovi scontri nel caso in cui i militari continuino a violare determinati diritti umani o intralcino il diritto dei cittadini a svolgere manifestazioni pacifiche negli spazi pubblici. Infine, non è da escludere il rischio di un pericoloso antagonismo fra la piazza e i partiti politici per il possesso della legittimità popolare, se i diversi soggetti politici non riusciranno ad instaurare fra di loro un dialogo efficace e costruttivo.

Lo scenario futuro dipenderà dal tipo di relazione che si instaurerà fra i tre protagonisti della politica egiziana. Al momento, l’unica certezza sembra essere che il rompicapo egiziano non troverà una soluzione nel breve periodo.

 

Giulia Sudano è tutor del corso “Storia ed Istituzioni dei paesi del Mediterraneo”, Facoltà di Scienze Politiche Università di Bologna. Ha seguito le recenti elezioni parlamentari al Cairo per Radio Città del Capo.

 

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Category: Osservatorio internazionale

About Giulia Sudano: Giulia Sudano (1985) è laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Bologna. Ha effettuato esperienze di studio all’estero presso la University of Washington (Seattle), l’Institut d’Etudes Politiques (Paris) e la University of Jordan (Amman). È attualmente tutor del corso “Storia ed istituzioni dei paesi del Mediterraneo” presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca ruotano principalmente intorno all’economia politica dei paesi arabi. Ha collaborato recentemente con Radio Città del Capo, con il programma Abjad di Radio Radicale e con il portale Medarabnews.

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