Domenico Quirico, Zlatiko Dizdarevic: La rivolta in Bosnia

| 16 Febbraio 2014 | Comments (0)

 


 

Bruno Giorgini e Simone Ginzburg, che vive a Serajevo (vedi analisi inviata l’8 febbraio 2014 su www.inchiestaonline.it), ci hanno segnalato questi due articoli  che aggiornano sulla rivolta in Bosnia.

 

1. Domenico Quirico: Inviato a Tutzla

[La Stampa, 15 Febbraio 2014]

Continuiamo a girare per lo stabilimento passando davanti a grandissimi antri vuoti, arrugginiti e silenziosi, sperando di sorprendere, in punta di piedi, il momento di una ripresa, un attimo vivente di quel mondo sottinteso. Invano. I capannoni restano vuoti, e solo qua e là si intravede nella penombra o un lento cane randagio o un operaio che accarezza una macchina arrugginita, con cautela, come se fosse qualcosa di vivo, senza sgualcirlo; suscitando la voce prolungata e malinconica delle chiese vuote. All’esterno altre pareti di magazzini chiusi e serrati in una loro meditazione, come le muraglie dei penitenziari, grandi tubazioni che hanno perso i colori vivaci, giallo blu verde. E nulla sembra più ostile di quel silenzio quasi solido, a porger l’orecchio senti il rotare della polvere nelle bande di sole. Della rombante fabbrica di un tempo, la ‘’Polihem’’ di Tutzla, è rimasto solo l’odore chimico, acre come quello della decomposizione di un corpo. Nella saletta del sindacato, sedie sfondate e un giaciglio disfatto, i ritratti degli operai morti nella guerra degli anni Novanta ti scrutano, sembrano sul punto di continuare il discorso. Sì: abbiamo dimenticato questa gente, da venti anni, dal momento in cui hanno smesso di turbarci ammazzandosi. Quando la Bosnia era un posto dove la morte era diventata più legale della vita.

Poi li hanno strinati politicanti e banditi uniti in salda alleanza, spesso i figli degli eroi di allora: un modo servile basato su un comune accordo, ogni abitante dell’Europa dell’est lo sa bene. Ora sono passati venti anni, si è descritto il cerchio del destino.

La Bosnia, ancora madida di odi per la guerra, è di nuovo in furore: ogni giorno folle invadono le strade delle città grandi e piccole, hanno bruciato palazzi del potere e sedi di partiti, non per il vecchio odio etnico, ma per chiedere dignità, pane, lavoro, punizione dei corrotti. A baleni, dopo quegli odi blasfemi, quelle giaculatorie tribali, riconoscono il vero nemico, sfrondando i rami fallaci. La primavera di Bosnia, risciacquata dalla piena della rivoluzione. La rabbia popolare: ecco lo scoglio che improvvisamente emerge in superficie, spoglio, minaccioso inevitabile e con nessun canto per le sirene. Perché, perchè li abbiamo dimenticati ?

Sono salito, per capire, a Tutzla dove impunemente passa ogni novità, la grande città industriale della Jugoslavia titoista dove tutto è cominciato: centotrentamila abitanti, il 54 per cento è disoccupato, il resto sono i bimbi che vanno ancora scuola, i pensionati e quelli che lavorano per la tentacolare burocrazia interetnica inventata dalla pace di Dayton come anticorpo al veleno centralista. Forse è già qui la risposta….Sulla strada da Sarajevo il paesaggio si apre immenso come una favola. Scende in festa il verde dei boschi. E laggiù, tra le ghiaie, ai lati azzurri monti giganti, si snoda il fiume. I cartelli, ai bivi, scandiscono nomi che fanno piangere: Sbrenica, Mostar… Tutzla appare come una rocca di ciminiere senza fumo, presidi di una fortezza conquistata: simbolo delle liberalizzazioni alla post- comunista, in realtà assegni per oligarchi. Vi ho trovato gente rinchiusa nel mondo per penare, brancolanti nella propria povertà, che tentano ora finalmente di far riconoscere il liso privilegio di esistere. Che ti dice: avere fame si pronuncia allo stesso modo: in serbo, in croato, in bosniaco..’’.

Alla ‘’Polihem’’, che produceva isolanti, uccisa dal malaffare come decine altre aziende bosniache , fabbrica rivoluzionaria, ci viene incontro Sachib Klopic. Il tempo, l’età gli hanno messo addosso le rughe come una uniforme. ‘’sono sindacalista di fabbrica, i vertici sindacali… sono spariti, erano complici dei mafiosi e dei politicanti…’’. Questi operai vogliono bene alla loro fabbrica assassinata come la gente sa voler bene quando è nei guai. ‘’ Nel 2010 lavoravano qui ancora 1200 persone, ma la privatizzazione già ci stava uccidendo: la fabbrica comperata per quattro soldi e divisa a pezzi. Sulle carte c’era scritto che i compratori erano polacchi, in realtà di polacchi non ne abbiano mai visto uno, era una sigla dietro cui si nascondevano i banditi locali, gli affaristi legati ai nostri politicanti, società di comodo. Venduti i macchinari, lasciati a casa a poco a poco gli operai, fatto sparire il denaro, gli ultimi ottomila metri quadri li hanno appena presi dei turchi… per 300 mila euro, il prezzo di tre appartamenti a Sarajevo! Ma anche questi non esistono, sono prestanome…’’.

Da tre anni sono senza stipendio, non hanno più le tessere sanitarie per poter andare dal medico, sopravvivono con le rimesse dei parenti emigrati e facendo i giornalieri in campagna. Sono loro che hanno iniziato la rivoluzione: ogni mercoledì andavano tenaci implacabili, davanti alla sede del governo del cantone insieme ai licenziati delle altre fabbriche. Li hanno picchiati, la città è insorta, così hanno assaltato e bruciato il Palazzo. Il boss locale si è dimesso. Ora la città è amministrata da una sorta di Soviet popolare, il Plenum. Tutta la Bosnia vuole imitarli.

Con un sorriso lontanamente affettuoso, come una dolce considerazione fatta distrattamente, Klopic estrae da un armadio il plastico di un edificio: ‘’E’ un albergo di lusso che noi operai della Polihem avevamo costruito a Neum, sul mare, per passare le vacanze con le famiglie. E’ bello, di lusso, quattro stelle. Hanno venduto anche quello, era una preda ghiotta: illegalmente, non c’è copia di contratto, prova di pagamento. Il giudice di Mostar ci ha dato ragione ordinando la restituzione agli operai. Non è successo niente! Vale 20 milioni di euro, almeno. Con quei soldi potremmo riavviare i macchinari e la produzione…’’.

Nella piazza della vecchia Tutzla il muezzin chiama alla preghiera. Tra le colorate casette austroungariche la facciata della moschea è una piccola onda bianca. Il profumo delle buone speranze, la pace, sembra s’innalzi dolce e solenne con quella voce. Poi un gruppo di anziane donne avanza e si mette in cerchio attorno alla fontana lustrale. Dispiega immensi striscioni fitti di volti di uomini e ragazzi: sono le madri dei morti, degli scomparsi del massacro. Come si fa a svincolarsi da tutto questo?

Aldin Siranovic è il ragazzo che ha dato inizio a tutto. Vecchie pensionate lo avvicinano, lo chiamano ‘’hajia’’, uomo importante, lo benedicono: ‘’Grazie per quello che hai fatto per i nostri figli..’’.. E’ lui che, disoccupato da otto anni, ha lanciato su face book l’idea di unirsi agli operai delle fabbriche liquidate; e da cento persone in piazza sono diventate diecimila. La polizia ha reagito, arrestandolo e picchiandolo. Allora la folla ha bruciato il palazzo del governatore: giovedì scorso, un giorno di chiarezza e decisione, il freddo invernale è arretrato di fronte agli aciduli giorni di oggi. Almir gira sempre accompagnato dal suo avvocato, un politicante, dicono, un sorriso protettore e sornione, che controlla le sue risposte. Dice che hanno minacciato di ucciderlo: ‘’Sono sotto protezione dell’ambasciata americana. Sono un simbolo, sono il simbolo. La vera rivoluzione sono io. Adesso il popolo ha capito in quale Stato vive, non si può fermare qui, si deve cambiare non solo a Tutzla, a tutti i livelli..’’. Molta risolutezza da sprecare, già l’aria di leader. Non è facile essere all’altezza del proprio destino.

Damir Arsenijevic ci aspetta vicino al monumento ai bambini morti nella guerra. Ha una voce tersa e inflessibile per spiegarci come funziona il Plenum: ‘’ è la democrazia diretta, non c’è gerarchia non ci sono leader, neppure io lo sono, tutti siamo eguali. Ricominciamo da qui perché nei venti anni di ‘’transizione al capitalismo’’ la gente si è chiusa in se stessa. Ora partecipano, i cittadini gli emarginati gli affamati, nei quartieri si raccolgono le richieste, il presidente del cantone lo abbiamo cacciato, ma non c’è alcun vuoto legislativo. Il Plenum è pubblico, trasparente, democratico, non ci sono partiti, neppure le ONG, è un nuovo modello…. lo possiamo fare, lo stiamo facendo. Non abbiamo tutte le risposte, ma le domande sono poste: ogni giorno. Abbiamo dato un ultimatum: entro il primo marzo deve dimettersi anche il governo centrale. Se non lo farà …? Saremo ancora in strada, decideremo allora’’. Ingenuità? Sogni di democrazia diretta mentre già si infilano, a fiotti, gli aspiranti capi, le correnti, i burattinai? Non so: forse un uomo sincero è sincero anche quando racconta bugie, mente con sincerità.

Mi viene in mente quello che mi hanno detto gli operai, nelle fabbriche: ‘’ Aldin va bene, è dei nostri, era in piazza con noi, ha preso le bastonate. Ma il Plenum, quello che è venuto dopo….C’è gente legata ai politicanti lì, che sta cercando di snaturare il nostro movimento, di infiltrarsi. Ci hanno chiesto: chi volete vi rappresenti? Abbiamo detto: Svetakla Cenic, una pasionaria serba che si batte da anni con coraggio, nella parte serba della Bosnia, per i diritti della gente. Ci fidiamo di lei. Cosa ci hanno risposto? Ma no, quella è una serba, che c’entra qui? E allora?’’.

 

2. Zlatko Dizdarevic: Bosnia. Il Diavolo è venuto a reclamare il suo

[East Journal,www.eastjournall.net, 12 febbraio 2014]

 

Zlatko Dizdarevic: ex giornalista del quotidiano sarajevese Oslobođenje, ex ambasciatore di Bosnia ed Erzegovina in Croazia, grande esperto di Medio Oriente (ambasciatore per la Bosnia Erzegovina anche in Giordania, Iraq, Siria, Libano, corrispondente da Siria, Giordania, Israele, Tunisia, Yemen, Libia) e autore di numerosi libri, commenta le proteste di piazza di questi giorni nella Federazione bosniaca. .

Non sono minimamente sorpreso da nessun dettaglio del caos nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina. È importante non dare questo fatto per scontato – nella Federazione, non in Republika Srpska! È importante per comprendere l’intera faccenda, per quanto possa apparire bizzarra.

Per quanto riguarda il fattore sorpresa, sono a dire il vero stupito che tutto ciò non sia accaduto prima. Molto semplicemente perché sussistevano tutte le condizioni da manuale per un’esplosione.

Primo, la più completa umiliazione da ogni punto di vista di gran parte degli abitanti della Bosnia ed Erzegovina, in particolar modo di questa sua parte mutante figlia di Dayton chiamata Federazione BiH (Bosna i Hercegovina, ndt). Avrebbero dovuto reagire spontaneamente molto prima. “Spontaneamente”, in questo caso, è una variante più dolorosa di una qualche premeditazione dall’alto.

Secondo, la totale incapacità, o meglio inesistenza di qualcosa che dovrebbe essere chiamato Stato in qualsiasi sua forma razionale e nota. E il costante volgere lo sguardo di coloro che hanno creato questo mostro statale e costituzionale, e raccontano frottole sulla gente della BiH che dovrebbe “correggere le storture da sola”. Probabilmente come in Ucraina, nel Vicino Oriente e chissà dove… Se non sono in grado di trarne conclusione alcuna, ecco qui, domani, nel loro cortile di casa, gli stessi problemi.

Terzo è il classico adagio qui espresso in piena misura, e da tempo conosciuto nel mondo – di come una “rivoluzione” spontanea il primo giorno, venga scippata nella notte da frange più radicali, da ladruncoli, teppisti e, il giorno seguente, da estremisti di varia gradazione.

 

L’eliminazione del ceto medio

In breve, il Diavolo che doveva uscire dalla sua tana nel caso della cosiddetta Bosnia ed Erzegovina di Dayton – che è una totale forzatura di quella Bosnia ed Erzegovina storica e già in passato comprovata come funzionale, esistente, reale e umana – è venuto a reclamare il suo. Direi, visti i richiami roboanti di quaggiù, per giunta con un certo ritardo. Tutto il resto sono sottigliezze.

In tali “sottigliezze” si annida quanto segue: in questo Stato, così com’è, vivono delle persone che hanno lavorato, edificato, che venivano retribuite, persone che contraddistingueva nella vita un altro sistema di valori, molto più reale, accettabile e ragionevole di quello in voga oggigiorno. Persone che sapevano cos’era la dignità personale e collettiva. Esisteva una scala di grandezze del tutto vicina a quella in vigore in giro per il mondo. Esisteva in generale, e in particolare proprio in città quali Sarajevo, Tuzla, Mostar, Bihać, Banjaluka… contesto nel quale si è formato un ceto medio dominante. I singoli “padrini” si potevano mangiare in un boccone, pure con un sorriso. I perdenti erano in gran parte colpevoli della propria condizione. Tale classe media è stata oggi brutalmente, si potrebbe dire “genocidialmente”, annientata, sepolta, derisa, mortificata fino alla fine e dichiarata una barzelletta. Da chi? Da bruti, criminali, coloro che deridono l’educazione, l’intelligenza, la cultura. Da quella grezza classe dominante cresciuta su tutto ciò che è contrario ai valori di una volta.

Qui non si tratta di storia, qualcosa che a volte esiste solo nei libri. Si tratta del fatto che con l’umiliazione è stata coperta una generazione che sapeva che si può e come si può fare in maniera diversa, più giusta, con maggiore successo e felicità, e già da venti e rotti anni osserva come tutto, in maniera mirata, abbia preso una direzione contraria, contro di loro e contro i loro figli. Si tratta di una generazione che si alzava ad ogni passo orgogliosa ad un inno che veniva suonato per le medaglie e i primi posti, mentre oggi il loro inno non ha nemmeno parole e testo, non viene suonato in nessun luogo e in nessuna circostanza. Anche la bandiera gliel’hanno disegnata altri, senza legame alcuno con la propria storia ed i propri valori. Si tratta di una generazione i cui figli chiedono ai padri – e perché non rubi anche tu, così almeno avremmo qualcosa… Infine, è una generazione che ha iniziato a scavare nei bidoni della spazzatura non perché un uragano, un’alluvione o terremoto hanno raso tutto al suolo, ma perché dei ladri hanno rapinato questo paese e riempito le proprie tasche delle sue ricchezze. Nel nome della nazione, dell’etnia, della fede e di una guerra incompiuta.

 

Niente di tutto ciò stupisce

E perciò non stupisce che tutto sia partito da Tuzla, che era ed è rimasto l’ultimo bastione di un qualche centro urbanizzato contro il quale dal primo giorno dopo la fine della guerra sono partite pressioni di ogni tipo affinché si riuscisse a rovinarne e cambiarne il volto. È perciò normale che lì anche i poliziotti si siano schierati dalla parte degli offesi, perché ne condividono il gruppo sanguigno.

E non stupisce nemmeno che i fatti più brutali e sanguinosi siano occorsi a Sarajevo. Perché questa città è stata umiliata più di tutte ed il suo codice genetico di una volta è stato annientato nel peggiore dei modi. E riguardo alla sua condizione reale ci sbagliamo enormemente. Si demoliva in maniera mirata e progettata in guerra e poi anche in pace, con costanza e grettezza. Molti direbbero, razionalmente. Sarajevo oggi è più lontana che mai da ciò che è stata. E questa ferita la sentono soprattutto coloro che in essa sono rimasti, mentre i figli si arrangiano tra i ricordi nostalgici dei genitori e la brutale realtà della strada. Un invito a nozze per il Diavolo.

 

Dayton l’idiota

Cosa dire del concetto di caos contenuto nella Costituzione, portato avanti da perfetti addetti ai lavori nostrani. Di Dayton, progetto idiota col quale i potenti hanno voluto appuntarsi vicendevolmente qualche medaglia, sul quale bisognava guadagnare soldi a palate, depredare le risorse, invalidare e debellare nuove idee non adeguate al corporativismo, cambiare l’intelligenza autoctona e barattarla con idioti e incapaci nazionali e importati, sperimentare un modello di territorializzazione del nazionalismo quale paradigma per la fondazione di Stato che fornisse una base futura per altri Stati…

Il risultato è dolorosamente riconoscibile, innanzitutto, nel fuoco sulle strade di quella Sarajevo decomposta spiritualmente e materialmente e di una Mostar brutalmente divisa su base nazionalistica. In un’entità nella quale in pratica non esiste nemmeno una organizzazione verticalistica che possa indicare a una gerarchia degli ordini funzionale, a prerogative e soprattutto responsabilità concrete, ma dove è tutto artificiosamente orizzontale, dove le parallele non si tangono, nessuno risponde a nessuno, e tutto è tenuto in piedi da meccanismi di stallo che non presuppongono un solo meccanismo di sblocco – è chiaro allora perché nessuno difende le istituzioni sotto attacco di tale “Stato”. A dire il vero, non ci sarebbe chi. Persino se vi fosse stato ordine di farlo, l’unanimità avrebbe dovuta essere confermata da una decina di istanze. Di istituzioni, in realtà, non v’è l’ombra nemmeno al di sopra di tale politica di basso livello. Al loro posto, il ministro comanda per mezzo della polizia perché è lui la politica, e la politica qui è una vittoria personale. Corrono le elezioni, conviene essere “umanisti”, mentre la storia ha dimostrato che quel “nessuno si deve azzardare a picchiarvi” (parole rivolte ai serbi da Milošević nel 1987 in visita in Kosovo, premonitrici di tutto ciò che sarebbe seguito, ndt) offre un ritorno assicurato.

 

Stato della Republika Srpska, brutale realtà

Ed infine, del perché finora non si è vista in Republika Srpska questa dissoluzione del sistema e sconfinamento nella rivoluzione. La ragione è che un quasi-Stato, quale che sia, fondato su una forte gerarchia con un leader (quale che sia il suo livello di totalitarismo ed egemonia), c’è, perché esiste un meccanismo di comando in grado di esercitare il potere, perché non ci sono livelli di mezzo in cantoni di sorta dove governano coalizioni di ogni tipo come oche perse nella nebbia, perché si sa bene chi ruba e per conto di chi, e chi invece non sta al gioco. Suona forse alquanto antidemocratica questa “menzione” a quella forma di centralismo che viene sventolata propria da laggiù, come un panno rosso, quando è la Bosnia ed Erzegovina come Stato ad essere messa in discussione?

Questa, ad ogni modo, è la brutale realtà. Nei luoghi dove si è compiuto il caos, detto banalmente, non c’è Stato capace di confrontarsi con tale caos. E non c’è perché esistono due modelli di ruberia e criminalità, oggettivamente sostenuti a livello internazionale. Uno è l’inesistenza dello Stato dove quindi i potenti criminali possono fare come più gli aggrada. Questo si chiama Federazione BiH, entità. L’altro è uno Stato rubato da un comandante, totalitarista, che ha venduto con successo il nazionalismo sotto le vesti del populismo, ha tagliato i ponti col resto dello “Stato” e tiene le cose in proprio pugno. Per ora. Quest’altro si chiama Republika Srpska, entità.

Nell’uno come nell’altro caso nessuno si interessa nemmeno minimamente del cosa dicano a tal proposito le teorie tradizionali sulla democrazia. Non solo queste non sono rilevanti, qui sono del tutto malvolute e pericolose, e contro di esse conviene lottare con tutta forza. Non sono del tutto convinto che nemmeno il Diavolo questo terreno necessiti per ora di ulteriore spazio a lui congeniale. Già così com’è, ne ha d’avanzo.


Category: Osservatorio internazionale

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