Bruno Giorgini. Do you remember revolution
Rivoluzione, parola desueta, anzi praticamente espunta dal vocabolario della politica, e oltre. Ad esempio per definire la cinematica planetaria non si ode più dire “il moto di rivoluzione dei pianeti intorno al sole”, o direttamente “rivoluzione dei pianeti ecc..”, come usava quando ero giovane studente di fisica, bensì il “moto dei pianeti attorno al sole”. Ogni tanto fa capolino la “rivoluzione scientifica” timidamente, e ancora più rara compare la dizione “rivoluzione galileiana”, assai trascurata dalla cultura italica: non fu forse Galileo condannato dalla Chiesa per eresia, e i suoi studi messi all’indice? Che sono passati i secoli ma la Chiesa no, e nemmeno la sua cultura di base fondata sui dogmi, che impregna ancor oggi la vita intellettuale del nostro paese, mai giunto a essere realmente laico.
Eppure ci furono tempi, all’incirca cinquantacinque anni fa e seguenti – dal luglio ’60 quando insorsero i ragazzi dalle magliette a strisce quindi col famoso sessantotto degli studenti e il ’69 degli operai, poi il ’77 del proletariato giovanile – tempi nei quali migliaia di persone giovani e meno giovani si proclamarono rivoluzionari/e. In parte fu millantato credito, ma in grande grandissima parte essendo autentica convinzione e impegno di vita questa rivoluzione, oggi scancellata. Addirittura si arrivò a parlare di “sinistra rivoluzionaria”, quando oggi quasi tutti pensano che sarebbe già tanto una sinistra del tipo Siriza e/o Podemos, o una sinistra e basta, al massimo con la FIOM di Landini a far da capofila per le Unions della coalizione sociale.
Però mi è capitato alla fine di marzo di sentir evocata la “rivoluzione” in diversi contesti per ben tre giorni di seguito.
Si comincia il 26 marzo alle Armonie, circolo femminista e magico di Bologna, quindi la sera dopo 27 al Centro Giorgio Costa, per terminare queste escursioni “rivoluzionarie” sabato 28 in quel di Torino all’Associazione Barriera.
Sandra delle Armonie m’invita per ascoltare il racconto di alcune compagne italiane tornate da Kobane; parleranno della rivoluzione delle donne in Rojava, il Kurdistan siriano. Precisamente la convocazione, a firma delle “Donne femministe e lesbiche in solidarietà con le donne kurde”, recita tra l’altro: “Immagini e parole della rivoluzione delle donne”, e si dovrebbe proiettare anche il video “Voci di donne del Rojava”. Quando sto per avviarmi, Sandra mi richiama scusandosi ma la serata è riservata alle persone di sesso femminile, e chiusa alle persone di sesso maschile. Non me la prendo, che ci siano momenti solo femminil-femministi mi par ovvio, e mi faccio raccontare quando alcune mie amiche tornano. Il racconto mio del racconto loro rischia però di essere insipido, quindi non mi cimento. Soltanto dall’opuscolo che mi portano “Kurdistan Rojava, viaggio nella rivoluzione delle donne” a cura di Radio Onda Rossa, mi piace citare una frase di Abdullah Ocalan, vecchio comunista leader del PPK kurdo, condannato dalla magistratura turca all’ergastolo, e in carcere dal 1999: “un popolo non può essere libero se le donne non sono libere”, mentre Sakine Cansiz scrive “Abbiamo sempre definito la rivoluzione kurda anche come rivoluzione delle donne”. Sakine Cansiz, Fidan e Leyla sono tre donne rivoluzionarie kurde uccise nel cui nome è stata indetta una giornata di solidarietà internazionale sotto lo slogan Jin Jiyan Azadi – Donna Vita Libertà. Il che detto combattendo di faccia ai fascisti di Daesh che le donne fanno schiave stuprano e massacrano, non pare proprio una affermazione da prendere alla leggera, ma piuttosto costituente quella resistenza di cui Kobane è diventata simbolo.
La sera dopo al Centro Giorgio Costa, sempre a Bologna, Sergio Sinigaglia presenta il suo “Diario Ritrovato”, libro dove si racconta l’educazione sentimentale alla politica di un ragazzo attraverso la lettura del diario, ritrovato in soffitta, scritto dallo zio. Questo zio scrive la sua esperienza di ribellione alle gerarchie durante il servizio militare, e di organizzazione democratica dei soldati di leva. Ribellione e organizzazione che s’incarnano nell’attivita dei PID, i Proletari in Divisa, emanazione di Lotta Continua (LC). E viceversa, i PID s’incarnano nella ribellione e organizzazione democratica dei soldati che va oltre i limiti dell’appartenenza e militanza in LC. Compaiono gli scioperi del rancio, la partecipazione in divisa ai cortei del primo maggio e del 25 aprile, i manifesti affissi in camerata eccetera. Tutte cose per cui si poteva finire al carcere militare in un batter d’occhio. Un’attività che possiamo a buon diritto definire sovversiva e/o rivoluzionaria, seppure non volta alla presa del potere. Questa narrazione ha intanto il pregio di essere, se non mi sbaglio, la prima che racconta l’esperienza dei PID nel pur ampio quadro dei libri che hanno tentato di descrivere quei lontani anni ’70. Anni spesso designati nella comune vulgata come “anni di piombo”, dizione che ha oscurato ogni altra dimensione arrivando fin quasi ai giorni nostri con l’attribuzione per sentenza definitiva dell’omicidio Calabresi a Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, dirigenti di LC, sempre proclamatisi innocenti. In questo modo gli anni di piombo sembrano permeare tutta la “sinistra rivoluzionaria” di quegli anni, senza scampo. Sinigaglia fuoriesce da questo paradigma, offrendoci un’altra visione della “rivoluzione”. Se non una visione dandoci almeno uno scorcio dove non è questione di violenza, omicidi, sparatorie ma di azione politica “rivoluzionaria” che può essere tramandata senza la vergogna di chissà quali oscure clandestine cospirazioni, sempre e soltanto volte alla distruzione. Il ricordo che il diario dello zio consegna al nipote può essere fecondo perchè, in qualche modo, recupera la radice stessa del verbo “ricordare”che deriva dal nome latino dell’organo ritenuto sede della memoria, cioè il cuore (cordis). Ovvero in questa lettura “ricordare” significa l’atto di “ri-mettere nel cuore”un evento, una storia, la nostra storia di stravizi rivoluzionari in gioventù. Rimettendola nei nostri cuori, anche possiamo metterla nei cuori dei nostri figli e nipoti, cioè farne memoria vivente, cuore pulsante il sangue che circola nell’organismo. Prima di partire per Torino all’associazione Barriera un cenno al dibattito dove ancora è questione di donne. Silvia Lolli (Manifesto Bologna) chiamata a presentare il Diario Ritrovato con Mirco Pieralisi (già LC), è colpita da un maschilismo neppure serpeggiante qua e là, ma piuttosto esplicito che le pare emergere dal libro. Al tempo il servizio militare era dovuto solo per i maschi, il che implica un maschilismo intrinseco, quasi per definizione, in un’organizzazione di giovani soldati, che oltretutto scontavano una solitudine sessuale estrema, sembra di poter dire. Silvia però insiste andando a ripescare un vecchio episodio del 1975 quando il servizio d’ordine di LC durante una manifestazione a Roma, intervenne contro le femministe che non volevano la partecipazione degli uomini addirittura caricandole. In realtà i fatti furono più intricati ma la contraddizione tra uomini e donne dell’organizzazione fu reale e profonda e lacerante, tanto che LC si sciolse nel 1976 anche per l’impeto del femminismo che la squassava da capo a piedi ormai da un paio d’anni.
Lungo la scia del ricordo come atto che ri-mette nel cuore una storia, arrivo sabato 28 marzo all’Associazione Barriera di Torino invitato da Elena Mazzi, un’artista nata a Reggio Emilia, che vive a Venezia lavorando un po’ dappertutto nel mondo. Il progetto che sta costruendo ruota intorno alla coppia “rivoluzione – comunicazione”. Si svolge in tre tappe. La prima vede una conversazione tra due persone che hanno partecipato a due momenti della storia patria individuati da Elena Mazzi come “rivoluzionari”, la lotta partigiana di resistenza contro il nazifascismo, e il movimento del ’68 con gli anni seguenti. La conversazione avviene in presenza di un gruppo d’ascolto composto dai tre responsabili dell’ Associazione Barriera, da quattro studenti del corso universitario di Economia dell’Ambiente della Cultura e del Territorio, da due donne negli anni ’70 militanti nella “sinistra rivoluzionaria” (LC e MS – Movimento Studentesco milanese). La seconda tappa si realizza domenica 29 quando il gruppo d’ascolto ha discusso del giorno prima traendono un dizionario della “rivoluzione e comunicazione”, un insieme di parole chiave. Su queste basi Elena Mazzi metterà in scena, in collaborazione col gruppo d’ascolto, la terza tappa, una performance aperta al pubblico che avrà luogo il 14 maggio sempre all’Associazione Barriera. Personalmente sono invitato a partecipare alla prima tappa come “rivoluzionario” del ’68, mentre Cesare Alvazzi del Frate sta lì in quanto (ex) partigiano, dove le parentesi a ex sono dovute al fatto che Cesare si è sentito partigiano fino a oggi sul filo dei novantanni (nacque nel 1926), molto ben portati.
Comincio io raccontando una storia che riguarda mio padre, comunista.
Al funerale di Roberto, mio padre, si presenta un anziano signore, Vladimiro che scusandosi per il disturbo, dice “Con Roberto eravamo amici praticamente d’infanzia, non so se ti ha mai raccontato come diventammo comunisti.” “No, mai fatta parola. Non sapevo neppure che lei Vladimiro esistesse ” “Diventammo comunisti insieme. Poi fummo amici per la pelle fino all’Ungheria nel ’56. Io non potevo sopportare che si sparasse contro gli operai insorti, Roberto diceva che senza partito e senza URSS non c’era rivoluzione e nemmeno niente. Così abbiamo smesso di vederci, finanche di salutarci. Ci siamo ritrovati da vecchi, e facevamo delle passeggiate lunghe e dei giri in tram, sai che a Milano esiste anche un circolo dei romagnoli dove andavamo, così giusto per fare quattro chiacchere in dialetto con degli altri. Il tuo babbo come al solito finiva per questionare di politica, che ne capiva. Ma adesso riprendo il filo. Avevamo 14-15 anni a Cesena – doveva essere il ’36, forse il ‘37 – quando smanettando (usò proprio “smanettare” come un ragazzo di oggi) con una vecchia radio a galena ci capitò di sentire Radio Mosca in italiano. Un tale Ercoli (Togliatti ndr) parlava tra l’altro di un certo Marx che pare scrivesse cose straordinarie per il proletariato. Urbano, Urbanì, il babbo di Roberto, era minatore su alla zolfatara vicino a Tessello, socialista i fascisti gli avevano resa invalida una mano. Ascolta una volta ascolta due venne che il tuo babbo disse, ma perchè non andiamo in biblioteca a prenderlo un libro di questo Marx, poi lo leggiamo insieme. Detto fatto il giorno dopo eravamo alla biblioteca comunale, dove mio zio lavorava, chiedendogli un libro di Marx. Mio zio ci disse di parlare piano, quindi ci condusse fuori: ma siete matti… Marx è proibito, non si può leggere, lo teniamo in una bacheca speciale con altri come lui. E il tuo babbo svelto, perchè quando voleva era svelto, dio se era svelto, svelto e matto, non potremmo almeno vederlo da fuori, tanto per sapere. Mio zio era così stranito da una richiesta talmente fuor del comune fatta da due ragazzini, io mi ero subito messo con Roberto a chiedere, anche se non capivo perchè fosse così importante vedere questa benedetta bacheca, che scossando la testa, sai come succede agli asini quando portano un peso che non conoscono, ci condusse dove stavano degli scaffali chiusi con lucchetti, indicandoci con un dito alcuni ripiani pieni di volumi. Ma quanto ha scritto questo Marx ci venne da dire, e lo zio eh sì pare che abbia fondato la Russia, là hanno tutte le sue opere in lingua originale, il russo con quell’alfabeto che non è come il nostro, cambiano proprio le lettere non solo le parole. Quando fummo fuori Roberto disse stanotte torniamo apriamo quella finestra che dà sul corridoio, scassiniamo la bacheca e ci prendiamo il nostro Marx. Proprio così disse: il nostro Marx! Era già il suo ancor prima d’averne sfogliato una pagina, non so mica se era il mio, bene non l’ho mai saputo. Tutto andò liscio, non quella notte ma aspettammo una settimana, e uscimmo dalla finestra col nostro libro, “L’Anti – Duhring”, in saccoccia, rimanendo male una volta fuori perchè l’autore era Engels. Nella fretta e nel buio avevamo preso il primo volume che ci era capitato sottomano, credendo che tutti i libri della bacheca fossero di Marx, come aveva detto mio zio. Però doveva essere comunista anche Engels se stava sotto chiave, e decidemmo di leggerlo comunque. Per farlo andavamo la sera sotto un lampione lungo il viale vicino alla stazione, adesso che ci sono le puttane è piuttosto trafficato, ma allora erano aperti i casini, e per di lì non passava un cane. Così diventammo comunisti proponendoci di attaccare i fascisti. Allora pensa te, Roberto ebbe un’altra pensata delle sue. Trovammo delle boccette di profumo da donna, che sono di vetro grosso e possono fare delle belle schegge, le riempimmo di polvere nera, innestammo una miccia che accendevamo dalla cicca della sigaretta, una in due, e le tiravamo aspettando il botto. La chiamavamo la nostra bomba a mano comunista, ma prima che trovassimo il coraggio di provarla contro un fascista, Roberto chissà come, non me lo ha mai detto, trovò uno del Partito clandestino e da bambini diventammo uomini, rivoluzionari comunisti”. Quindi stringedomi di nuovo la mano e nessun abbraccio ma evidente commozione, come era venuto se ne andò, lasciandomi lì a bocca aperta, a meditare su questa discrezione paterna, nonchè sulla forza di questa amicizia “rivoluzionaria” durata molti decenni.
Il mio racconto pur non entrandoci niente col ’68, mi sembrava avesse un qualche senso rispetto al modo e al tipo di comunicazione con cui si diventava allora rivoluzionari – modi oggi del tutto impossibili.
Dopo Cesare Alvazzi del Frate ha preso la parola con storie una più affascinante dell’altra, tenendo l’attenzione di tutti inchiodata. Prima quando faceva parte del partigianato passivo o anche resistenza civile, raccolta di armi, abiti civili, rifugi per i renitenti la leva, contatti tra gruppi armati e quant’altro servisse per la guerriglia in montagna; poi come aveva rimesso in sesto casse di bombe a mano tedesche disinnescate, inventandosi un innesco artigianale che aveva provato direttamente rimettendoci alcune dita; quindi l’amicizia con Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra e altri antifascisti di lungo corso piemomntesi, fino al giorno in cui decide di arruolarsi nel partigianato attivo. Suo padre, alto magistrato, accompagnandolo lungo la strada gli dice : se incontri tuo cugino (che era fascista arruolato nellaRepubblica di Salò) sai cosa devi fare, con un gesto inequivocabile. Scivola invece sul suo arresto da parte dei tedeschi e su come abbia fatto a cavarsela. Alvazzi operava in Valsusa, collaborando anche col maquis francese – è nato a Oulx dove ancora vive – va in giro a raccontare per le valli e in città, soprattutto nelle scuole e tra i giovani. Se la resistenza sia stata rivoluzione, ebbene sì, non la rivoluzione sociale ma quella che ha abbattuto una dittatura per costruire una democrazia. Con qualche delusione dopo la Liberazione che Cesare non nasconde. Fioccano le domande fino a quella fatidica, cosa è oggi la rivoluzione; e il tentativo di risposta su cui qui non entriamo. Per parlare del ’68 comunque non c’è tempo, soltanto anche qui tornano il discorso e le domande sulle donne, la loro libertà, il loro pensiero, la loro visione come condizioni necessarie di qualunque convivenza civile, tanto più di qualunque rivoluzione sia oggi concepibile.
Viene l’ora d’andarsene e ho un unico rimpianto. Entrando a inizio pomeriggio avevo detto per scherzo che portavo con me la borsa del rivoluzionario di professione, borsa che avrei aperto per mostrarne il contenuto più tardi. Fuor di scherzo qualcosa dentro che avrei voluto citare in realtà c’era, una copia delle “Ceneri di Gramsci”, lo splendido poema di Pasolini che meglio di qualunque altro testo io abbia letto, narra la mancata rivoluzione italiana proiettandosi nel futuro fino alla prefigurazione dell’attuale magma di reazione e conservazione, nonchè corruttela morale e egoismi fuor di controllo.
Per finire quel che ho provato a raccontare rappresenta, al di là della sequenza di coincidenze, un punto di vista che sta sui margini, che però spesso, come in un libro, sono gli unici spazi liberi dove tracciare nuove scritture. Potrebbe accadere come per il teorema di Fermat, uno dei più importanti nella teoria dei numeri, che egli enunciò in margine a un libro aggiungendo le seguenti parole: dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina. Dopo ci vollero secoli per dimostrarlo, come forse sarà per la rivoluzione.
PS. Ho preso il titolo – con un punto interrogativo che ho tolto – da un vecchio articolo firmato da 11 imputati nel processo 7 aprile, comparso su il manifesto nel 1983.
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