Alessandro Somma: Trumpismo, fascismo e populismo
Diffondiamo da repubblica .it/micromega questo testo di Alessandro Somma del 15 novembre
Molti hanno inteso il trionfo di Donald Trump come il punto di arrivo di una rivolta popolare contro un ordine economico e finanziario finito oramai fuori controllo, tanto quanto la reazione ai disastri che ha prodotto. Svolte analoghe si sono del resto già avute, se si pensa agli attuali governi polacco e ungherese, mentre altre sembrano alle porte: prima fra tutte la presa del potere in Francia da parte del Fronte nazionale di Marine le Pen.
Il trumpismo, inteso come sintesi del lepenismo e dei molti “ismi” assimilabili, è vincente in quanto risponderebbe a una pressante domanda di ripoliticizzazione del mercato, di rigetto dei paradigmi tecnocratici utilizzati per sottrarlo al controllo della sovranità popolare. Una domanda, quindi, di contrasto della globalizzazione e di recupero della dimensione nazionale, l’unica capace di restituire terreno alla sovranità popolare e ostacolare la pervasività del capitalismo.
Se così stanno le cose, ci troviamo di fronte a un notevole riscontro di quanto la reazione alla crisi del 2008 ci stia conducendo verso schemi del tutto simili a quelli che hanno fatto seguito alla crisi del 1929. Le due crisi, cioè, non sono accostabili solo per le dimensioni della miseria sociale che hanno provocato, bensì anche per le soluzioni che hanno ispirato: il moto verso l’edificazione di un ordine fascista.
Vi è accordo nel ritenere che il fascismo sia stato un risposta alla crisi del 1929, in quanto ha finalmente messo fine a una situazione che aveva caratterizzato l’Ottocento: epoca in cui l’economia si reggeva sull’interesse individuale come veicolo di benessere collettivo, e il mercato doveva pertanto concepirsi come luogo deputato alla libera e incondizionata formazione dei prezzi. Con il risultato che il benessere dipendeva dallo sviluppo della proprietà privata e dalla libera concorrenza, posto che qualsiasi ingerenza dei pubblici poteri avrebbe intralciato il moto verso il progresso dell’umanità[1].
Il fascismo aveva ricondotto l’economia sotto il comando dello Stato, ma aveva stabilito un rapporto di subordinazione solo apparente. Lo Stato si era infatti assunto il compito di salvare il mercato in quanto ordine incapace di autoregolarsi, esposto all’autofagia perché in balìa dell’individualismo[2]. A tal fine le leggi del mercato erano state trasformate in leggi dello Stato, che doveva imporre la concorrenza per renderla uno strumento di direzione politica dei comportamenti individuali[3]. E che doveva inoltre reprimere il conflitto tra capitale e lavoro, giacché la riforma delle libertà economiche richiedeva la repressione di quelle politiche. Il tutto in quanto la potenza economica della nazione esprimeva al meglio la potenza politica, condizionando in modo determinante la sua collocazione nel contesto mondiale.
Insomma, il fascismo aveva risocializzato l’economia, ma anche sciolto l’individuo ottocentesco entro un ordine di mercato concepito in termini organicistici. Era infatti il luogo nel quale l’emancipazione dei lavoratori era concepita come una forza centrifuga da reprimere rispetto all’idea per cui essi dovevano rappresentare, con il capitale, un fronte compatto, pronto ad affrontare la competizione internazionale.
Ciò che il trumpismo offre è in fondo un prospettiva molto simile. Vuole rilanciare la crescita economica diminuendo la pressione fiscale sulle imprese, riducendo i vincoli ambientali e sfilando gli Stati Uniti dagli accordi commerciali internazionali per poter ricorrere alla leva del protezionismo. Il tutto con la medesima coloritura razzista tipica del fascismo, utilizzata per alimentare la coesione del fronte dei produttori: che ben può seppellire la lotta di classe e concentrarsi in sua vece sullo scontro tra la razza eletta e le altre. È tutto qua il riscatto della politica contro l’invadenza dell’economia e della finanza, che assume in verità le forme di una diversa forma di subordinazione all’economia e alla finanza: mediata da un recupero della dimensiona nazionale non certo pensato per migliorare la condizione dei lavoratori, bensì per saldarli entro un’alleanza con le imprese per meglio sostenere la competizione internazionale.
Sicuramente la via d’uscita dalla situazione attuale passa dalla risocializzazione dell’economia, ovvero da un controllo serrato della politica sull’economia. Altrettanto sicuramente, però, questo deve avvenire attraverso la partecipazione democratica, per i quali il controllo si concepisce come subordinazione del principio di concorrenza al principio della sovranità popolare. Per affermare che, nel momento in cui lo Stato si occupa del mercato, non lo fa per imporre il funzionamento della concorrenza, bensì per promuovere l’emancipazione della persona contro la concorrenza. E se ciò implica un recupero della dimensione nazionale in quanto sede in cui si esprime la volontà popolare, le finalità sono radicalmente diverse da quelle alimentate dal trumpismo: che innalza barriere solo per sostenere il popolo dei produttori nella competizione internazionale.
All’epoca in cui il fascismo si affermò, venne concepito come una terza via tra il liberalismo tradizionale, ancora legato all’idea per cui i mercati costituiscono ordini spontanei, e il socialismo, intenzionato a superare l’economia di mercato. Se il liberalismo tradizionale era condannato dalla storia, il socialismo aveva ancora dinanzi a sé un futuro radioso, motivo per cui la vittoria del fascismo non fu per nulla scontata. Diversa la condizione in cui opera il trumpismo, che sembra non avere rivali nel contrasto dell’ordine economico e finanziario prodotto dalla globalizzazione. Le alternative di sistema elaborate a sinistra sembrano del tutto incapaci di esercitare una qualche forma di attrazione, e tanto meno di produrre senso comune o egemonia anche solo culturale.
Anche per questo si è affacciata l’idea di ripartire dal populismo di destra, in quanto forma assunta dal conflitto sociale, per poi piegarlo verso un percorso di uscita da sinistra dal capitalismo finanziario[4]. Chi accarezza questa idea non nasconde le difficoltà che comporta la sua realizzazione, tutte riconducibili all’essenza del populismo: il suo ridurre il conflitto sociale alla contrapposizione tra popolo ed élites, ovvero fra totalità compatte, prive di antagonismi come quelli cui preludono le distinzioni tra destra e sinistra o tra capitale e lavoro[5]. Il tutto recuperando nel contempo una forte dimensione comunitaria e nazionale, la stessa a partire dalla quale si è sviluppata l’esperienza fascista prima e il trumpismo poi.
Anche per questo è lecito dubitare che sia questa la trovata che consentirà alla sinistra, quella impegnata nella ricerca di alternative di sistema, di recuperare rispetto alla sua attuale marginalità e irrilevanza. Forse allora occorre passare da soluzioni meno radicali, ma non per questo meno capaci di produrre il cambiamento sperato. Soluzioni che marchino la loro alterità rispetto al fascismo in quanto ordine incentrato sul sacrificio delle libertà politiche per la riforma delle libertà economiche, e che pertanto affermino la centralità della persona e del suo progetto di emancipazione.
Passa da qui il recupero di spazi per il conflitto democratico, indispensabile a resistere all’organicismo entro cui prolifera l’attuale ordine economico e finanziario, perfettamente capace di adattarsi alla dimensione nazionale ove sia contrastata quella globale. Passa di qui l’esercizio della sovranità popolare come strumento di liberazione dal primato dell’economico, e di costruzione di una società in cui la giustizia sociale comprende il riconoscimento delle identità.
NOTE
[1] K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), Torino, 1974.
[2] [G. Gentile] e B. Mussolini, Voce Fascismo – Dottrina, in Enc. Treccani, vol. 14, Milano, 1927, p. 847 s.
[3] Aspetto privilegiato in epoca nazista dagli ordoliberali.
[4] C. Formenti, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberalismo, Roma, 2016.
[5] E. Laclau, La ragione populista (2005), Roma e Bari, 2008.
(15 novembre 2016)
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