Marco Revelli e Gianni Rinaldini su Alba
Marco Revelli: Alba ha due pregiudiziali: quella antiliberista e la centralità del lavoro
Siamo al nostro primo appuntamento. In molti non ci conosciamo neppure tra di noi. Non siamo certo “i soliti noti”, venuti a recitare il “solito copione”. Se siamo qui, in questo sabato di ponte, è perché avvertiamo che non c’è più tempo: che i pilastri fondamentali che la Costituzione aveva posto alla base della nostra democrazia – intendo i partiti politici – stanno sgretolandosi. Rapidamente. E rischiano di trascinare nel loro crollo le stesse istituzioni repubblicane.
Parafrasando il Presidente del Consiglio potremmo dire che “se siamo qui, è perché gli altri hanno fallito”: e cioè i politici di professione, i partiti (a cominciare dai più grandi), la “politica” come la conosciamo dai giornali e dalla televisione. Non ci fa piacere, ma è così. C’è la concreta, concretissima possibilità che si arrivi al più importante appuntamento elettorale della storia Repubblicana – a questa sorta di “ultima spiaggia” che saranno le elezioni politiche prossime – con un sistema politico liquefatto. Per metà abbandonato dagli elettori, per l’altra metà frantumato in mille schegge impazzite.
Convocati dall’urgenza, ci tocca l’obbligo di dire, fin da subito, “chi siamo”. E insieme, naturalmente, “cosa non siamo” e non vogliamo essere. Non siamo materia di gossip per i media. L’abbiamo percepito, con una certa sorpresa, non lo nego, dal silenzio mediatico sul nostro esordio: non uno dei grandi quotidiani nazionali ci ha degnato di uno sguardo. E forse è un bene. Intanto perché godiamo del grande privilegio di poter scegliere in autonomia il nostro nome, invece di vedercelo imposto dagli altri. E di poter costruire con i nostri tempi la nostra identità, invece di vedercela appiccicata dall’esterno da altri. Crediamo più nel fare che nell’apparire; nel lavoro paziente di elaborazione e di organizzazione più che nel fuoco d’artificio.
Non siamo nemmeno l’urlo roco del populismo a buon mercato. La voce sguaiata del rancore e della rabbia impotente. Non cerchiamo “serbatoi dell’ira” da poter sfruttare per un effimero consenso elettorale. Non useremo mai il linguaggio come una clava, l’invettiva come forma del discorso. Crediamo nella parola come mezzo di comunicazione e di argomentazione: per intendersi e magari distinguersi, non per separarsi in amici e nemici. E all’argomentazione ci affideremo sempre per affermare le nostre ragioni.
Non siamo, infine, una nuova, piccola formazione politica. Un ennesimo partitino: uno tra gli altri, uno contro gli altri. La gravità della crisi in atto – il suo intreccio di crisi politica e di crisi economica, entrambi potenzialmente terminali – non lascia spazio né tempo alle vocazioni minoritarie. Allo spirito di setta. Richiede la messa in movimento di un fronte molto ampio. Soprattutto richiede una svolta radicale ma tendenzialmente maggioritaria. Un “cambio di paradigma” nel modo di pensare le cose e di fare la politica. Nei programmi, certo, ma anche negli stili di comportamento e di organizzazione. Nel metodo, che qui diventa contenuto. Nel rapporto inevitabilmente nuovo, tra governanti e governati, che rovesci l’attuale deriva che va, ferocemente, dall’alto verso (e contro) il basso. Nel linguaggio, che sappia parlare non ai già convinti, ai “nostri” come si dice, ma alla platea ampia, larghissima, delle vittime dell’attuale modello economico e sociale – fallito e fallimentare, ma totalitario -: a quel 99% a cui si rivolge il movimento di Occupy Wall Street, tanto per intenderci, e che non si riconosce nella lingua morta delle diverse tradizioni politiche…
E un “salto di paradigma” – diciamocelo pure – anche negli strumenti organizzativi, che non possono essere quelli tradizionali – centralistici, verticali e gerarchici – delle burocrazie dominanti, ma che sappiano praticare, all’opposto, l’orizzontalità della rete, la comunicazione decentrata, l’eguaglianza nella parola e nell’ascolto “tra diversi”. Tutto questo vuol dire – come ci è stato contestato – rimuovere il “conflitto sociale”? Cancellare le “forme di organizzazione” – i “corpi intermedi” costituiti dai partiti politici -, in nome di uno spontaneismo un po’anarchico? O non significa, piuttosto, ripensare il conflitto – e insieme l’organizzazione – nelle forme e nei modi in cui ce lo ripropone quello che Luciano Gallino ha definito il finanz-capitalismo (che non cancella certo le classi sociali e il loro antagonismo, ma che le ridisegna in forma del tutto inedita)? E d’altra parte, che ne pensereste se qualcuno, dopo il 1848, avesse continuato a proporre i vecchi club del 1789, come strumenti della lotta politica (i Cordiglieri, i Montagnardi, i Foglianti, i Girondini…), e la jacquerie contadina come via all’emancipazione?
Insomma, per dirla in positivo: “cosa vogliamo”?
Vogliamo essere gli abitanti di un nuovo spazio pubblico liberato dalle presenze ingombranti dei vecchi monopolisti della decisione. L’embrione di una nuova cittadinanza, che ha mostrato il proprio profilo esattamente un anno fa, con la vittoria referendaria e con i risultati “eretici” delle amministrative in molti comuni. Abbiamo scritto a chiare lettere che “intendiamo dar vita a uno strumento costituzionale di partecipazione della cittadinanza alla vita democratica del paese”. Una forma organizzata che raccolga la testarda domanda di partecipazione di quella parte di cittadini che (oggi in Francia, domani in Italia) non vogliono rassegnarsi al cappio del fiscal compact e alla dogmatica feroce di Berlino e di Bruxelles, alla riduzione dei diritti sociali in costi da tagliare e sacrificare sull’altare dei mercati, allo smantellamento del modello sociale europeo e alla mercificazione sistematica della vita individuale e collettiva…
Abbiamo aggiunto che parlare di “beni comuni” al plurale significa, in primo luogo, riappropriazione dello spazio pubblico e indisponibilità alla delega per le decisioni impegnative per tutti. L’abbiamo detto, e da oggi dobbiamo incominciare a praticarlo. Non come punto, lontano, di un programma futuribile, ma qui ed ora. Come esperienza in atto. In cima alla nostra “agenda” sta la questione della democrazia. Della malattia grave – per certi versi “terminale” – che l’affligge; e dei possibili antidoti, da mettere in campo urgentemente. Ebbene, questo è il luogo e il tempo per sperimentarli. Per questo seguiremo, fin da oggi, nella gestione di questa giornata, alcune semplici, ma impegnative, regole. Intanto per quanto riguarda il programma, a cui è dedicata la seconda parte di questa plenaria: verrà elaborato dal basso, con la più ampia partecipazione, senza pregiudiziali iniziali, né punti già scritti, con due sole eccezioni. 1) la pregiudiziale antiliberista – la constatazione del fallimento totale del dogma che ci ha portato alla catastrofe attuale e la necessità di contrapporgli un organico modello alternativo; 2) la centralità della questione del lavoro, a cominciare dalla difesa intransigente dello Statuto dei lavoratori nella sua integralità. Tutto il resto sarà oggetto di un percorso che incomincia oggi, si articolerà nei territori, e sarà alimentato da contributi, schede, materiali di informazione per favorire la più ampia “partecipazione informata”. Si possono poi indicare cinque semplici regole :
Prima regola: gli interventi dureranno tutti, senza eccezioni, 7 minuti. E saremo feroci nel far rispettare a tutti questi tempi, in modo da favorire la massima partecipazione alla discussione. Poi, dal prossimo incontro, ci organizzeremo anche per tavoli, come si dice nel Manifesto.
Seconda regola: il nome. E’ il prodotto anch’esso di un’ampia consultazione, di un primo pronunciamento in rete, e oggi ne completeremo il percorso con una votazione in aula preceduta da brevi interventi esplicativi.
Terza regola: le strutture, il coordinamento. Gli organi di coordinamento sono tutti a termine – a breve termine -: il gruppo promotore si presenterà dimissionario. L’articolazione territoriale è l’asse portante del “soggetto nuovo”: il coordinamento dovrà rispondere a questo principio.
Quarta regola: la trasparenza. Tutti i passaggi della nostra elaborazione e della nostra vita collettiva dovranno essere visibili, accessibili, conoscibili tra tutti. Il dibattito, le scelte, e anche le (scarse) finanze. Nessuna carica o ruolo sarà retribuita.
Quinta regola: l’appartenenza. Non vogliamo l’esclusiva dell’appartenenza. Non diremo mai: “o con noi o fuori (o contro) di noi”. Siamo per l’appartenenza plurima. Per l’apertura a tutti coloro che condividono questo stile “altro”, anche se militano, contemporaneamente, in un’altra organizzazione.
Gianni Rinaldini: Lavoro, welfare, beni comuni, diritti sociali
Sono interessato alla costruzione di un nuovo spazio politico come luogo di confronto e di approfondimento sulle pratiche di movimento, sulla lettura dei processi in atto e sulle scelte da compiere per contrastare e cambiare profondamente il segno sociale, culturale e politico dell’attuale deriva. Attraversiamo tempi cupi e difficili, riassumibili nel precipitare della crisi della democrazia, di quell’impasto di rabbia, rassegnazione e impotenza, che con il crescere del disagio sociale e delle disuguaglianze sociali, può costituire la condizione materiale per gli sbocchi più imprevedibili e pericolosi.
Dalla lettura del documento preparatorio di questa assemblea costituente sono rimasto perplesso per lo scarto evidente tra l’analisi innovativa sul come stare insieme in questo nuovo spazio pubblico ed il precipitare nella enunciazione finale di un nuovo soggetto politico che evoca in qualche modo la scelta di una nuova formazione politica che si aggiunge a quelle esistenti. Una scelta che sarebbe ovviamente legittima e comprensibile, di cui per altro, mi sembrano oscuri i caratteri fondamentali.
L’introduzione di Marco Revelli mi ha permesso di capire meglio il senso della proposta anche nella definizione dell’ambito della ricerca comune che ci viene proposta a partire da due punti fondamentali: la pregiudiziale antiliberista e la centralità del lavoro. Su questo voglio esprimere alcune osservazioni proprio perché interessato a questo confronto. Ci troviamo a fare i conti con un processo di assoluta radicalità che utilizza la crisi per portare a compimento lo stesso modello sociale, culturale, istituzionale e politico che ci ha portato a questa situazione devastante in tutti i Paesi di vecchia industrializzazione.Il modello in cui il liberismo, il mercato e la competitività assunti come valori assoluti a cui rendere funzionali tutti gli aspetti della società. Nella sua espressione storica il capitalismo finanziario non contempla la democrazia come partecipazione attiva delle persone, non contempla il conflitto sociale capitale-lavoro, come dinamica sociale democratica.
La riduzione degli spazi democratici riguarda l’insieme della società, e affonda le proprie radici nella negazione del conflitto capitale-lavoro, considerato estinto con la storia del ‘900. Non si tratta di un arretramento in attesa di tempi migliori, ma di una intensa attività legislativa e contrattuale che nega la stessa possibilità di espressione democratica della soggettività organizzata del lavoro subordinato. La condizione lavorativa viene ricondotta a una pura dimensione di merce che in quanto tale non ha voce, è intercambiabile, uno dei fattori della produzione. Le lavoratrici e i lavoratori non possono decidere e votare i loro Contratti Nazionali come se questi fossero proprietà del Parlamento e delle Organizzazioni Sindacali.Non si tratta di riproporre il passato in una situazione profondamente cambiata, ma di pensare ad una ricostruzione della democrazia e della partecipazione che affondi le proprie radici nei luoghi lavorativi, nel territorio e nella società.
Il voto delle ultime amministrative e il voto referendario ci indicano la possibilità di un percorso da sviluppare, senza caricarlo di una valenza generale di un voto contro il neoliberismo. Il rapporto positivo tra sistema partecipativo e conflitto sociale deve essere l’asse centrale del nostro operare, perché ne qualifica il suo significato di trasformazione di alternativa di carattere generale.
Secondo aspetto è quello relativo ai beni comuni che vengono sottratti ad una logica di mercato. La definizione di beni comuni, mi pare ancora indeterminata e credo sia ardua una definizione precisa. Nello stesso tempo c’è il rischio che tutto venga considerato bene comune, fino ad arrivare al paradossale uso propagandistico da parte di alcune forze politiche. Per questo ritengo sia necessario un approfondimento anche in termini di analisi del rapporto tra beni comuni e intervento pubblico, tra beni comuni e diritti sociali. Questo ci viene imposto dai processi di smantellamento in atto del welfare, che a ben vedere è molto più avanzato di quanto generalmente si pensa. Una dinamica sociale dove la riduzione dell’universalità dei diritti sociali (sanità – previdenza – istruzione), viene accompagnata da una progressiva corporativizzazione della società che aumenterà tutte le disuguaglianze sociali e le fasce di povertà. Il nuovo sistema previdenziale, totalmente su base contributiva, elimina qualsiasi elemento di solidarietà generale e obbliga di fatto le lavoratrici ed i lavoratori a versare una mensilità annua (T.F.R. – Trattamento di Fine Rapporto), ai Fondi Previdenziali per sperare, nel migliore dei casi, in una pensione decente.Nella sanità sono in forte aumento accordi aziendali e nazionali di categoria che sotto la dizione welfare contrattuale, utilizzano una parte della retribuzione per costruire fondi sanitari aziendali e/o di categoria.Non è diversa la situazione per quanto riguarda il diritto allo studio e alla Università che diventa difficilmente accessibile per i giovani di famiglia con reddito medio-basso. Non si tratta di demonizzare, ma di avere coscienza di ciò che sta avvenendo sul piano dei diritti sociali universali.Siamo al trasferimento in Europa della struttura delle relazioni sociali e del rapporto cittadini-istituzioni dei Paesi Anglosassoni ed in particolare degli Stati Uniti.
Beni comuni – intervento pubblico – diritti sociali non possono essere confusi in un insieme indistinto, anche perché diverse sono le pratiche di movimento da costruire. Sulla base di queste brevi considerazioni, mi pare evidente l’interesse a partecipare alle ulteriori fasi di confronto che proponete.
I due interventi sono stati presentati all’incontro del 28 aprile a Firenze e sono stati pubblicati in “Inchiesta”, 176, 2012, pp.41-44