Fabian Nji Lang: Essere straniero a Bologna

| 18 Giugno 2010 | Comments (0)

 

Diffondiamo da Bandiera gialla del 18 giugno 2010 due testi di Fabian Nji Lang (nelle foto)

Fabian Nji Lang è il presidente dell’associazione “Universo” e dell’associazione “Harambe” di Bologna, nonché un mediatore culturale. E’ in Italia dal 1994 e da quando è qui ha imparato a conoscere questo paese e la sua gente. Oggi è una persona impegnata nel sociale e offre un contributo importante alla città di Bologna. Fabian ci ha raccontato del suo arrivo in Italia, dei primi mesi trascorsi a Bologna, quando ancora era uno studente universitario, del suo impegno nel sociale e della situazione in cui oggi vivono molti immigrati partiti come lui alla ricerca di una vita migliore.

 

1. Fabian Nji Lang : Essere straniero a Bologna

Fabian e il Camerun
Mi chiamo Fabian Nji Lang, ho 45 anni e sono nato in Camerun, dove ho studiato lettere all’università. Una volta laureato, come per molti ragazzi africani, il mio sguardo si è rivolto verso l’occidente, perché ciò che ha lasciato la colonizzazione in Africa è stata anche la curiosità verso di esso, la voglia di trovare una vita migliore nei paesi occidentali. Noi giovani quando pensavamo all’occidente lo pensavamo come punto di arrivo. L’ambizione massima che avevamo era quella di arrivare in occidente, dove avremmo potuto trovare una vita migliore, avere una macchina, vivere in quelle belle case che si vedono in televisione, nei film.

L’arrivo in Italia
Una volta deciso di venire in Italia, mi sono iscritto all’Università di Bologna. Ottenuto il visto d’ingresso, nel 1994, sono partito. Il mio luogo d’arrivo è stato Bergamo. Sono arrivato il 4 agosto. La data del mio arrivo è importante. Infatti l’immagine che avevo dell’Italia prima di partire era fondata su tre convinzioni: la prima era quella che in Italia viveva Roberto Baggio, la seconda era quella che l’Italia è il paese dove si producono i migliori abiti e le migliori scarpe del mondo, la terza era che in Italia c’è la Chiesa. Con queste tre convinzioni pensavo che in Italia avrei visto uomini con abiti e scarpe eleganti e le donne vestite come suore. Si, perché in Africa le uniche italiane che vediamo sono suore. Quindi, in treno, durante il viaggio verso Bologna, ho notato come la gente era quasi nuda. Partendo, avevo immaginato l’Italia come un paese dove fa freddo, non avevo mai visto la neve in Africa e pensavo che in Italia ci fossero sempre la neve e il freddo. Non avevo ancora in mente l’alternarsi delle stagioni. Per questo il giorno in cui arrivai avevo addosso tre maglioni e un cappotto. Dal primo momento ho capito come tutte le convinzioni che avevo sull’Italia erano sbagliate. Mi chiedevo: “Ma dove sono finito? Chi sono queste bestie?”. In realtà si trattava di gente normale che naturalmente il 4 di agosto andava in qualche località turistica al mare vestita in quel modo.

L’arrivo a Bologna
Arrivato a Bologna ho cominciato a vivere la mia vita quotidiana. Non ho trovato però quello che mi aspettavo. Pensavo, infatti: arrivo a Bologna, sono iscritto all’università, quindi ci sarà un autobus mandato dall’università che verrà a prendermi e mi porterà lì. Giunto all’università entrerò nel campus, mi faranno vedere la mia stanza, la mensa e tutto il resto. Invece sono arrivato alle 21, avevo il numero di telefono dell’università, ho chiamato tantissime volte ma nessuno mi rispondeva. Così ho passato la mia prima notte in Italia in stazione. La mattina seguente, ripensando alle lettere che qualche amico mi aveva affidato con il compito di consegnarle al proprio parente in Italia, le ho prese, ho guardato il retro di una di esse e letto un indirizzo: era quello della Villa Pallavicini. Non sapevo si trattasse di una casa di sacerdoti. Per fortuna mi hanno accolto.

I primi mesi a Bologna
I primi mesi sono stati duri. In Africa sei nero, tutti sono neri, e lo straniero è il bianco. Quando ero bambino ed io e gli altri bambini vedevamo passare i bianchi, ci nascondevamo dietro le case e gridavamo “L’uomo bianco! L’uomo bianco col naso lungo!”. Da bambini ci spaventava vedere questi uomini bianchi col naso lungo.
Quando poi sono arrivato qui mi sono accorto di essere io lo straniero, il nero, e che il nero per gli altri era un problema: quando prendevo l’autobus vedevo la reazione delle persone, vedevo la nonna tenere stretta la borsa. Questo m’infastidiva molto.

La scelta di rimanere
Quindi il primo impatto fu questo: tanto caldo, gente vestita male, disagio sugli autobus, l’impossibilità di ottenere subito tutti i soldi che avrei voluto, nessun posto dove dormire. A conti fatti, l’idea dell’occidente che avevo maturato prima di venire era completamente sbagliata. I primi mesi, avendo già il biglietto di ritorno, avrei potuto tornare indietro immediatamente. Così ho fatto alcune considerazioni e mi sono dato tre possibilità tra cui scegliere. La prima possibilità era questa: tutto ciò non rispondeva alle mie aspettative, avevo il mio biglietto di ritorno, avrei potuto prendere l’aereo e tornare a casa. Questa possibilità tuttavia non era realizzabile, perché per permettermi di comprare il biglietto aereo e arrivare in Italia la mia famiglia aveva fatto tanti sacrifici e tornare sarebbe stato un fallimento. Chi torna viene considerato dalla comunità come un fallito, gli altri non immaginano neanche cosa significhi vivere qui. Tornare indietro, quindi, sarebbe stato peggio che rimanere. Se sei partito ce la devi fare.
La seconda possibilità, che è quella scelta da molti immigrati, era quella di rimanere in Italia, lavorare, accumulare un po’ di soldi e tornare a casa. Tuttavia anche questa sarebbe stata difficile da mettere in pratica. Infatti, non avendo ancora capito come funzionasse questa società, non avevo la possibilità di accumulare soldi. Questa constatazione mi obbligava a scegliere la terza opzione, quella di rimanere. Così mi sono detto: “Questo posto è fatto di persone, per capire come funziona la società bisogna conoscere le persone che ci vivono, osservare come si comportano e cercare di imparare da loro”.

Imparare dagli altri per integrarsi
Una delle mie prime decisioni è stata quella di farmi degli amici italiani, di uscire dal gruppo della mia comunità e avvicinarmi agli italiani. Per fortuna, essendo iscritto all’università, avevo diversi gruppi di amici. In tutti ho trovato una sorta di rispetto nei miei confronti, poiché ero l’unico che aveva bisogno di essere aiutato, e disponibilità ad insegnarmi qualcosa. Io ero una persona umile, accettavo il ruolo di colui che doveva apprendere. Difatti lo scopo del mio avvicinamento a queste persone era stato proprio quello di imparare come funzionavano qui le cose.
Quand’ero arrivato avevo con me un’agenda; dopo il mio primo mese trascorso qui in Italia era già piena di numeri di telefono.

La percezione che hanno molti africani e molti stranieri in generale dell’Italia e dell’occidente è del tutto distorta. Quando in Africa vediamo in televisione, nei film, le case degli occidentali ci sembrano tutte uguali, le persone sembra abbiano tutto quello che serve loro, che i bianchi siano tutti ricchi. Frequentando i miei amici in Italia e gli studenti dell’università, ho imparato che anche qui non tutti sono ricchi, magari hanno tutto quello che serve loro, ma non di più, e che ci sono anche persone che non hanno tutto ciò di cui hanno bisogno. Ho conosciuto studenti che frequentavano l’università grazie ad una borsa di studio e che vivevano in studentato.
Pian piano, quindi, ho imparato tante cose e ho sviluppato l’idea di integrarmi, di entrare a far parte di questa società e nello stesso tempo di aiutare i miei fratelli che arrivavano in Italia.

Il lavoro e l’impegno sociale
Durante i primi due anni, proprio grazie ai contatti che avevo stabilito, ho frequentato un corso organizzato dal Comune di Bologna per operatori della mediazione interculturale. Le mie aspettative erano quelle di frequentare questo corso e trovare un lavoro. Purtroppo alla fine non ci sono riuscito. Però ho ottenuto qualcos’altro, ho imparato delle cose che negli anni ho potuto far fruttare. Durante il corso infatti ci hanno insegnato il teatro dell’oppresso, ci hanno spiegato le condizioni degli stranieri e come intervenire per aiutare coloro che hanno bisogno di una mano. Così, dopo il corso, insieme ad altre persone che lo avevano frequentato e che erano nella mia stessa condizione, abbiamo fondato un’associazione, l’associazione “Di Mondi”.
Il corso ci aveva aperto gli occhi di fronte alle problematiche esistenti, eravamo partiti con grande entusiasmo e avevamo molte aspettative. Adesso bisognava concretizzarle. Tuttavia eravamo ancora persone inesperte, sapevamo quali problematiche c’erano da affrontare, ma non sapevamo come affrontarle. Dopo un anno di difficoltà e discussioni non avevamo concluso niente. Così ho smesso di farne parte.
Alcuni anni dopo insieme ad un altro gruppo di stranieri abbiamo fondato l’associazione “Universo”, quella che attualmente gestisce i giardini “Fava”. All’epoca, nel 1996, ero il responsabile della sicurezza del “Link”, un centro sociale. E’ stato il primo posto dove mi sono sentito ben accolto, perché solo lì ho incontrato persone che mi hanno trattato come una persona. Al “Link” si era creata una piccola squadra, con la quale ho fondato per l’appunto l’associazione “Universo”.

Essendo immigrato ormai da due anni circa, molti altri immigrati da poco arrivati in Italia mi chiedevano aiuto, consigli sulle pratiche burocratiche, su come ottenere i documenti. Per questo io e gli altri membri dell’associazione abbiamo deciso di attivare uno sportello informativo. All’epoca ci diedero una sede in via delle Belle Arti, vicino ai Giardini “del Guasto”. Quello stesso anno, era il ’98, io ed altri abbiamo promosso un progetto di recupero dei giardini. Ci hanno detto che era un posto abbandonato, che bisognava fare qualcosa. Così abbiamo costruito una baracca e abbiamo proposto delle attività culturali. In seguito, come associazione, ci hanno dato una sede per avviare lo sportello informativo e corsi di lingua italiana. Nel 2000 ci hanno assegnato come sede i giardini di Villa “Angeletti”. Anche qui abbiamo proposto delle attività per quattro anni.

Le nostre attività culturali sono sempre legate all’attività dello sportello informativo. Qui, oltre a dare informazioni, indicazioni e consigli di vario tipo, offriamo gratuitamente internet agli stranieri. Una delle richieste più frequenti da parte degli utenti è quella di essere aiutati nella compilazione della domanda di asilo politico. Infatti spesso agli stranieri che fanno richiesta di asilo non viene concesso perché non sanno raccontare la propria storia, essendo appena arrivati e quindi molto confusi, non conoscendo la lingua. Per la gran parte, però, riceviamo persone in cerca di lavoro.
Per questo tutte le attività che organizziamo sono mirate a creare opportunità lavorative per coloro che si rivolgono a noi. Questa è la motivazione principale, oltre ad un’altra che per me è anche molto importante, cioè quella di far divertire la gente, di far cultura.

Nel tempo abbiamo fondato una seconda associazione, l’associazione “Harambe”, che gode dell’aiuto di circa cento volontari all’anno, tutti studenti universitari, che fanno attività di animazione e doposcuola nei campi nomadi. Ogni anno infatti mi reco all’università a parlare con gli studenti del primo o secondo anno, faccio loro una lezione che chiamo “la traduzione dalla teoria alla pratica”, perché per riuscire a cambiare il mondo bisogna guardarsi intorno e cercare di fare qualcosa nel proprio piccolo.

Un passaggio importante si è verificato nel 2000, quando il Comune di Bologna ha promosso un progetto rivolto ad Assistenti civici, ovvero volontari presenti nelle aree di affollamento e davanti alle scuole. Il comune, all’epoca diretto dal Sindaco Guazzaloca, con questo progetto intendeva accrescere la sicurezza in città. Noi dell’associazione abbiamo potuto parteciparvi perché lavoravamo ai giardini “del Guasto”, un’area frequentata da molta gente, e ci occupavamo di assistenza civica. Con l’arrivo del Sindaco Cofferati il progetto è stato incentrato molto di più sulle scuole e sui parchi. Ancora oggi i nostri volontari si recano fuori da queste scuole, durante l’orario di entrata e d’uscita.
Il nucleo centrale del progetto è l’esigenza di dare indicazioni relative al territorio ai cittadini.

Oggi organizziamo attività presso il Giardini “Fava”. Frequentato inizialmente quasi esclusivamente da tossicodipendenti e inaccessibile quindi ai bambini, il nostro compito è stato quello di  ripulirli e destinarli a loro. Ciò che dicevamo ai frequentatori del parco era “Noi stiamo ripulendo questi giardini per destinarli ai bambini. Tu hai un bambino?” Molti mi rispondevano di si, e allora io ribattevo loro “quindi non venire da solo, vieni con il tuo bambino, perché organizziamo attività per i bambini”. Durante il primo anno al punto bar non venivano vendute bevande alcoliche, ma solo bevande analcoliche e gelati. La polizia passava per controllare la situazione, ma non interveniva mai. Il secondo anno abbiamo introdotto bevande alcoliche. Adesso, al terzo anno di gestione, il nostro lavoro è ormai consolidato, ed i giardini sono diventati un posto tranquillo, sicuro e adatto ai bambini. Ogni giorno si svolgono attività rivolte a loro, che vengono qui con le proprie famiglie. Alcune volte organizziamo attività di laboratorio, in collaborazione con associazioni o altri gruppi socio-educativi del territorio. La sera proponiamo l’aperitivo, con a volte qualche concerto. Durante queste serate questo posto si trasforma. Il mercoledì organizziamo l’aperitivo vegetariano e uno stand per i massaggi. Il giovedì si possono comprare tortellini preparati da una signora che viene qui a venderli.

L’Italia è il paese che mi piace di più
I primi tempi ero convinto di andare via, che sarei restato qui per alcuni anni e poi sarei andato in Germania o in Inghilterra o in Francia. Ma dopo aver girato tutti questi paesi mi sono accorto che l’Italia è il paese che mi piace di più ed è qui che rimarrò.

 

 

2. Fabian Nji Lang: Gli stranieri oggi a Bologna. Chi sono, cosa si aspettano, come vivono

Perché si parte
Chi parte spesso ha sentito raccontare delle grandi difficoltà di chi è partito ed è ritornato. Purtroppo, però, esistono forze maggiori che ci spingono a partire. I venditori ambulanti, i cosiddetti “vu cumprà”, abitano in quindici in una stanza, non pagando l’affitto e conducendo una vita durissima, ma accumulando soldi. Credendo che prima o poi andranno via non si affezionano a questa terra, non richiedono il permesso di soggiorno, non ambiscono a comprare una casa, ma cercano solo di accumulare denaro il più possibile per poi ripartire. Per questo si ritrovano qui dopo moltissimi anni senza niente.
Di quelli che tornano in Africa nessuno racconta di quanto sia difficile, per esempio, ottenere i documenti in Italia, sopravvivere in generale, perché per loro significherebbe raccontare il proprio fallimento o apparirebbe agli occhi degli altri come un tentativo per impedirgli di arrivare dove loro sono arrivati. E’ difficile far capire e la gente non crede a quello che racconti. Quello che vedono e solo il “vu cumprà” che ce la fa, che riesce a superare le difficoltà, non tutti gli altri, che probabilmente lavoreranno per 15 anni come “vu cumprà” e alla fine non avranno neanche modo di tornare a casa. Le famiglie di queste persone e le loro comunità non sapranno mai niente della loro vita qui in Italia.

La situazione degli stranieri oggi a Bologna
Penso che in generale la situazione sia cambiata molto, poiché oggi esiste molta più integrazione di quanta ne esistesse nel ’94, quando sono arrivato. Tuttavia anche oggi mi capita di incontrare un bolognese che mi parla a monosillabi, come se non capissi, e per certi versi le cose sono peggiorate. Quando sono arrivato in Italia era da poco stata emanata la legge “Martelli” sull’immigrazione, che regolarizzava gli immigrati clandestini, dando loro la possibilità di lavorare qui in Italia. Con questa legge si riconosceva che il presupposto per l’integrazione era la regolarizzazione e quindi l’entrata nel mondo del lavoro.
In seguito è subentrata la legge “Turco-Napolitano”, in base alla quale uno straniero per regolarizzare la sua posizione aveva bisogno di un datore di lavoro. Ancora dopo è subentrata la legge “Bossi-Fini”.
Con tutte questi cambiamenti legislativi, alla fine è scattata una sorta di odio da parte degli italiani nei confronti degli stranieri, di catalogazione dello straniero come nemico. Per questo credo che le cose siano cambiate. Molti degli stranieri che oggi arrivano vorrebbero accedere al mondo del lavoro, integrarsi nella società, hanno delle aspettative, ma di fronte alla chiusura della società, si chiudono anch’essi, iniziano ad odiarla, non sentendosene parte. Molti di loro hanno scelto così la seconda opzione, quella di rimanere qui in Italia per un po’ di tempo, mettere da parte dei soldi e tornare nel proprio paese, perché c’è sempre qualcuno che ti ricorda che devi andare via. Molte delle persone che incontro ancora oggi mi chiedono “Di dove sei? Da quanto tempo sei in Italia? Quando intendi tornare a casa?”. Potete immaginare il fastidio che può dare ad uno straniero che ha scelto di vivere in questo paese e che da il suo contributo a questa società il fatto che qualcuno gli ricordi costantemente di venire da un altro paese.
Ad ogni modo, non posso dire che adesso le condizioni degli stranieri non siano anche migliorate sotto certi aspetti. Le persone sono più aperte. Per esempio, poco dopo il mio arrivo mi sono fidanzato con una ragazza italiana che non poteva dire ai suoi genitori di avere un fidanzato nero. Invece la ragazza con la quale oggi convivo dopo una settimana dal nostro fidanzamento mi ha portato a casa sua per farmi conoscere i suoi genitori e per loro il fatto che stiamo insieme è una cosa normale. Oppure, solo adesso si vedono in giro ragazzini stranieri con ragazzine italiane. Quindi qualcosa sta cambiando in senso positivo nella società. L’unica cosa che cambia in senso negativo sono le scelte dei nostri legislatori, che sembrano vivere in un altro mondo, non riconoscere le trasformazioni cui si assiste nella società.

I rapporti tra le comunità di stranieri
Tra le diverse comunità di stranieri che oggi vivono a Bologna esistono rapporti cordiali, anche perché siamo nella stessa condizione e in linea generale ci sentiamo fratelli. Tuttavia, se andiamo un po’ più in là, tra di noi ci sentiamo diversi: la comunità cinese è chiusa in se stessa, i pakistani vivono tra di loro, anche gli africani, per esempio i nigeriani con i camerunensi, non è detto che vadano d’accordo. Questo perché c’è una lotta fra poveri e ognuno vuole dimostrare di essere arrivato prima. Da parte di alcune popolazioni dell’est, poi, noto addirittura un certo disprezzo nei confronti di noi africani.
Tuttavia c’è anche una forma di solidarietà tra di esse. Faccio un esempio. Ho lavorato anch’io nei campi nomadi, insieme agli altri volontari dell’associazione “Harambe”. La prima volta che sono arrivato a Villa “Salus”, una struttura che ospita una comunità di rumeni, le donne pensavano che fossi l’uomo delle pulizie mandato dal comune. In un altro campo nomade, quando i bambini mi vedevano, scappavano e si nascondevano, gridando “L’uomo nero! L’uomo nero!” Ad ogni modo, per me entrare in questi campi nomadi, a contatto con questa gente, è stato più semplice di quanto avrebbe potuto essere per un italiano, perché i nomadi capiscono che io e loro, essendo stranieri, siamo nella stessa condizione, c’è tra noi qualcosa in comune e per questo possiamo intenderci.

Il problema più grande delle comunità di stranieri è dunque il fatto di non essere uniti. Credo però che a lungo andare questa divisione possa trasformarsi in un’occasione, perché in qualche modo faciliterà l’integrazione. Le varie comunità di stranieri possono essere unite attorno ad un’idea e l’idea che in questo momento può tenerle unite è quella della lotta contro le discriminazioni. Nel momento in cui queste comunità troveranno nelle forme di discriminazione qualcosa che le accomuna, la fase successiva sarà quella della ribellione. Il fatto di essere divisi farà si che l’integrazione avvenga più facilmente.

L’informazione e la comunicazione sull’immigrazione
La comunicazione che oggi viene fatta a Bologna e in tutta Italia su questi temi è pilotata dal clima in cui si vive. Spesso si parla degli immigrati quando c’è un problema: va di moda, quando si parla di immigrati, sottolineare il problema, va di moda parlare degli immigrati come fossero un elemento estraneo, non come un elemento parte della società.
Se un immigrato commette un crimine, quando se ne da notizia, viene sottolineato il fatto che è stato commesso da un immigrato, non da una persona che fa parte della società e che solo per caso è un immigrato. Quindi la comunicazione sugli immigrati è assolutamente di parte, nel senso che si tende a sottolineare solo le cose che non vanno, generalizzando, non considerando che nel mondo degli immigrati ci sono singole persone e che ogni singola persona ha un suo percorso di vita e che c’è chi sceglie di essere delinquente e chi no.
Quando un solo immigrato fa qualcosa di eclatante, è tutta la comunità ad essere colpita, però sempre e solo quando si tratta di qualcosa di negativo, mai di positivo.

L’errore più grave che si commette è quello di fare una comunicazione esclusivamente per gli immigrati e sugli immigrati. Essa andrebbe invece integrata all’interno di un sistema di comunicazione più generale.
Non servono nuovi strumenti di comunicazione per facilitare l’integrazione degli stranieri bensì l’adeguamento degli strumenti che già esistono. Creare un nuovo strumento significa per certi versi creare una nuova forma di ghettizzazione. Se si crea un nuovo strumento deve trattarsi necessariamente di uno strumento che pone l’accento sugli stranieri ma non può avere la risonanza che ha uno strumento tradizionale. Chi lo utilizza è già interessato ai problemi che vivono gli stranieri, quindi non avrebbe bisogno di utilizzarlo. Perciò io credo che siano gli organi di comunicazione che già esistono a dover capire che la società si è allargata e trasformata e che bisogna riconoscere le trasformazioni di cui è protagonista. Noi biasimiamo chi fa comunicazione solo per gli autoctoni e parla degli stranieri solo quando c’è un problema ma guai a chi si limita a fare solo comunicazione per stranieri.
Bisognerebbe rivedere la comunicazione in generale e riadattarla alla società di oggi, perché la società si è trasformata ma la comunicazione sembra essersi fermata al passato e accontentarsi di raccontare le cose in modo parziale.

 

Category: Migrazioni, Osservatorio Emilia Romagna

About Fabian Nji Lang: Fabian Nji Lang è nato nel 1970 a Bafut, un villaggio della provincia inglese del nord-ovest del Camerun . La sua famiglia è originaria del villaggio di Weh, del dipartimento di Menchum, dove egli ha vissuto per brevi periodi. Dopo aver frequentato il liceo bilingue di Bamenda, si è infatti iscritto alla facoltà di Letteratura Inglese dell’Università di Yaoundé, conseguendo un diploma di laurea breve. Dal 1995 vive a Bologna, dove frequenta la Facoltà di Economia e Commercio. Nel gennaio del 1999, dopo aver partecipato ad un corso per operatori interculturali organizzato dal Comune di Bologna, ha fondato l’Associazione “Di Mondi”, che si propone di facilitare l’integrazione socio-culturale tra gli immigrati e i cittadini italiani. È inoltre consigliere dell’Associazione degli Studenti Camerunesi. Nel 1999 ha pubblicato per l'Editore Pendragon di Bologna il libro: Camerun. Storia, economia e risorse, società e tradizioni, arte e cultura, religione

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