Enrico Peyretti: Pier Cesare Bori e Tolstoj. Il rifiuto della violenza, della guerra, della vittoria
Pier Cesare Bori, «Al posto della morte c’era la luce». Alcuni finali nella narrativa di Tolstoj. A cura e introduzione di Francesca Biagini, Castelvecchi, Roma 2017,
Allievi e amici, studiosi dell’opera di Pier Cesare Bori (Casale Monferrato 1937, Bologna 2012), hanno il merito di ripubblicare dopo la sua morte articoli e saggi dello storico e filosofo, indagatore dell’universalismo morale e della pluralità delle vie nelle sapienze di ogni tempo dell’umanità, ed eccellente studioso di Tolstoj.
Segnaliamo le precedenti riedizioni: Il dialogo al pozzo. Gesù e la Samaritana secondo Tolstoj, EDB, Bologna 2014; La tragedia del potere. Dostoevskij e il Grande Inquisitore, EDB, Bologna 2015; «È una storia vera?». Le tesi storiche dell’Uomo Mosè e la religione monoteistica di Sigmund Freud, a cura di Gianmaria Zamagni, Castelvecchi, Roma 2015. Inoltre, quegli stessi allievi, realizzando un progetto di Bori, hanno pubblicato scritti della pioniera del femminismo cristiano Sarah M. Grimké, Poco meno degli angeli. Lettere sull’eguaglianza dei sessi, a cura di Thomas Casadei, Castelvecchi, Roma 2016.
L’ultimo lavoro, che presentiamo qui brevemente, è un saggio che uscì su «Lo Straniero», 105 (2009), pp. 53-67 . Le parole del titolo sono nel finale di La morte di Iván Ilíč (1886). Simili pensieri di Tolstoj si trovano nei suoi grandi romanzi, negli scritti religiosi, filosofici, e nei racconti, nel narrare la morte dei diversi personaggi, di Anna Karenina e di Levin, della signora, dell’albero e del povero contadino in Tre morti, del cavallo che diventa nutrimento dei lupacchiotti, del padrone che morendo salva il suo lavorante, eccetera.
Scriveva Bori: «Il finale di Iván Ilíč rappresenta l’idea di una “autorealizzazione” al termine della vita», un processo morale evangelico e universale, severo e progressivo – «perdere la propria vita per salvarla» – che per Tolstoj culmina «nel momento della morte accettata come un fare spazio e un promuovere la vita degli altri». Con “autorealizzazione” Bori intende un “coltivarsi” che designa insieme la dimensione mentale e quella ontologica, anche dove manca la dimensione psicologica, come la morte dell’albero in Tre morti del 1858 (cfr p. 33).
In un testo citato in epigrafe, Tolstoj dice che affliggersi come se le malattie e la vecchiaia diminuissero la vita, è come se un uomo, avvicinandosi alla luce, si rammaricasse del diminuire della propria ombra (Della vita, 1888). L’Introduzione di Francesca Biagini (pp. 22-23) illustra bene come «L’autonoma evoluzione dei personaggi letterari fa sì che siano caratterizzati da quella sensibilità alla dimensione storica, materiale e corporea che, come nota Bori (qui a p. 47 e in Tolstoj oltre la letteratura, Fiesole 1991, p. 103) manca alla produzione teorica».
Pier Cesare Bori ci parlò di questa sua ricerca quando venne a Torino l’ultima volta, il 10 novembre 2010, nella libreria La Torre di Abele, a ricordare Tolstoj nel giorno centenario della morte. Quella sera di sette anni fa (copio dai miei appunti) Pier Cesare ci diceva che Tolstoj «quanto meno teorizza, tanto più è efficace. Dostoevskij parla “bene” del cristianesimo, Tolstoj ne parla meglio quando narra. La comprensione della vita deve partire da noi stessi. Conosciamo noi stessi, e meno il resto (contro il positivismo). La vita è centrale. Si trova dentro di noi una grossa contraddizione: la grande tensione al bene, alla pienezza di vita, alla felicità, alla non-morte (che è più del bene morale); e l’immensa intollerabile frustrazione della sofferenza e della morte. La mia vita passa, rimane la vita fuori di me. Si può uscire dalla contraddizione con il “risveglio della coscienza razionale”, prima della quale “non vi è stata nessuna vita”. La coscienza razionale non è il razionalismo. Tolstoj trova questo termine nella Sapienza biblica: una conoscenza sapienziale superiore. La vera vita non è nello spazio-tempo. Questa consapevolezza si raggiunge con la sottomissione della psiche alla sapienza, livello superiore di coscienza, vita comune agli altri esseri di ragione. Spostamento vitale di tutto il nostro essere, un fare, un attuare la legge dell’amore. Ama gli altri più di te stesso, per essere vivo. È menzogna pensare che l’egoismo sia la legge della vita. Non offendere, non giurare, non disordine sessuale, non combattere il male col male, amare i nemici (contro il nazionalismo). Tolstoj non rispettò del tutto questi suoi insegnamenti, ma chi è senza peccato? La liberazione dall’attaccamento permette la conoscenza. Il vero io è il mio rapporto col mondo, che mi unisce alle persone coscienti. Solo facendo si capisce. Tolstoj vede nel “non resistere al male” (Matteo 5,39), cioè non opporsi al male col male, un culmine del vangelo, che egli “accoglie come un bambino”, senza fiducia nell’esegesi colta e nella teologia dotta. Il rifiuto della violenza, della guerra, della vittoria è un gesto grandioso, metafisico (come Bobbio dice della mitezza). È il primo passo verso la luce, la vita vera, che contiene anche la non-morte».
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