Enrico Peyretti: Filosofia di Gandhi. O potere, o amore
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Questa recensione di Enrico Peyretti al libro di Roberto Mancini, Gandhi, Al di là del principio di potere, Feltrinelli 2021, è stata pubblicata in versione abbreviata sul mensile il foglio n. 486, gennaio 2022, p. 6.
Gandhi non fu solo un santone nonviolento, un “fachiro seminudo” (per Churchill), un “idealista pratico”, come diceva di sé; non fu solo l’animatore della coscienza e dignità del popolo indiano, e poi di altri. Fu anche un filosofo, cercatore della sapienza, quindi un pensatore attivo e creativo della buona convivenza umana. Con Gandhi avviene un’evoluzione possibile, nella politica, dal “principio di potere” alla verità dell’amore per la realtà. Questo libro è la filosofia di Gandhi, letta da un filosofo che sa leggere le trasformazioni profonde, come Roberto Mancini, docente all’Università di Macerata. Egli ci presenta nelle sue maggiori articolazioni il pensiero operante di Gandhi, indagato su fonti ampie, dimostrate dalla veramente abbondante bibliografia.
Esperimenti con la verità
Potere, da verbo della vita, è diventato sostantivo: strumento che impone, sottomette altri, impedisce loro di esprimere delle possibilità di vita. Il filosofo Mancini legge la validità euristica dell’opera di Gandhi: «al di là del principio di potere» come scoperta di vie inedite per l’umanità. Perciò è critico della modernità, che vede come «per eccellenza la civiltà del potere». Gandhi ha l’autorità non di chi comanda, ma di chi fa crescere coscienza e umanità. La vita di Gandhi fu «esperimenti con la verità». La verità è fonte di senso della vita. Gandhi non è assolutista, ma in continuo approccio alla verità della vita. Il suo è un “realismo trasformativo”. Dalla Bhagavad Gita (testo sacro induista, III sec. a. C.) è avviato alla lotta interiore tra il bene e il male. La sua etica non è un perfezionismo, ma l’essere se stessi lasciandosi trasformare dall’amore, forza cosmica alternativa al potere. Legge Ruskin, Thoreau, Tolstoj. Apprende la politica nell’opporsi all’apartheid razzista in Sudafrica. La lotta nonviolenta è tradurre in politica la verità dell’amore. In India si impegna per i contadini poveri del Champaran, prima che per l’indipendenza. Impara dai propri errori. Dalla guerra mondiale, da Hiroshima, apprende che solo la nonviolenza potrà fermare nazismo e fascismo. L’indipendenza viene insieme alla dolorosa separazione tra India e Pakistan. È ucciso da un fondamentalista indù. Esaminiamo alcuni termini essenziali del suo pensiero-azione.
Attaccamento alla verità
Satyagraha è l’attaccamento alla verità, che dà vera forza: non la nostra forza di volontà, ma la forza della verità dell’amore. La verità è amore, e l’amore è verità. A noi “amore” suona quasi svenevolezza, invece è forza. Ed è anche capacità di soffrire, piuttosto che infliggere sofferenza. Gandhi crede nell’adwaita (non dualismo), l’unità essenziale di tutto ciò che ha vita: non una integrità personale ma una realtà di relazione. Mancini vede anche i limiti dell’idea della corporeità in Gandhi, che chiede castità come autocontrollo, ma ciò vale in lui come primato dell’amore politico per il bene comune. Il Satyagraha è l’arma di chi è davvero il più forte, e per questo esclude l’uso di ogni violenza. Dall’ateismo giovanile, Gandhi arriva a concepire Dio come verità, la forza dei deboli, al di sopra di ogni esclusivismo religioso. Dio non ha figura né concetto, ma è Voce interiore, che l’autodisciplina e l’estrema umiltà possono cogliere, e Gandhi ne ha fatto reale esperienza: «Per me quella Voce fu più reale della mia stessa esistenza» (p. 51). Fede e politica convergono nel servire la giustizia: il potere non aiuta, solo la verità aiuta, la forza metafisica che sostiene la vita del mondo. Oggi, per noi, è questo orizzonte che manca alla politica.
Nonviolenza, amore politico
Ahimsa, nonviolenza, è la forza amorevole della verità che spegne la violenza, è la forza della pazienza attiva, tenace. Ahimsa è il mezzo, la verità è il fine. Pazienza non è remissività ma forza che sostiene gli effetti della violenza, cambia la sofferenza in forza. Ahimsa cambia il terreno del confronto rispetto alla violenza, è generativa di una realtà inedita. Resistere è più che arginare o contrastare, è inaugurare una via diversa: non è ascetismo, ma trasforma situazioni sociali e processi storici. Ahimsa è il cuore della politica, è amore politico, e scaturisce dalla giustizia risanatrice, opposta alla logica di potere. La nonviolenza è alternativa non solo alla violenza, ma al potere; passa dalla logica individualista alla sapienza della coralità. Non è mera astensione dal fare violenza, ma dispiegamento della capacità di amare. Questa capacità si impara dai sofferenti, che sono i nostri maestri. L’appello della sofferenza genera in noi una forza inedita per agire. Non è idealizzazione statica, ma movimento a fare tutti i passi possibili. Ogni passo è in sé la presenza anticipata della meta.
Fini (intenzioni) e mezzi (responsabilità, efficacia) non sono separabili, come fa Weber, perché il risultato avrà la qualità dei mezzi usati, come avviene tra seme e pianta. I mezzi d’azione nonviolenti ottengono risultati di giustizia. I mezzi non sono altro che i fini stessi nel loro maturare. I fini sono già contenuti nei mezzi. L’etica della politica è l’etica della relazione di verità con tutta la comunità dei viventi. La politica è trasformata, da concorrenza per il potere, a swaraj, libertà dal male che si intromette nella relazione. La politica non è più un contrasto meccanico di forze fisiche, ma un sentimento giusto di sé per l’azione giusta per tutti. Non è una vetta irraggiungibile, ma la via per ritrovarsi nella comunione cosmica. In ciò vale anche il compromesso, non come svendita degli ideali, ma come dar tempo al tempo.
La nonviolenza dà significato alla religione, che non è una certa tradizione, ma la relazione personale con la verità viva dell’amore divino. Le religioni tradizionali, autoreferenziali, si appropriano indebitamente dell’universalità di Dio.
Indipendenza dal potere
Swaraj è la libertà dal male, l’indipendenza dal dominio, dal potere che opprime, dal consenso passivo dei dominati. Non è un altro potere indipendente, ma l’indipendenza dal potere. Gandhi vuole l’indipendenza dell’India (più di quanto l’India seppe capirlo) dalle contrapposizioni arcaico-moderno, Oriente-Occidente, verso una civiltà spirituale corale. «C’è Swaraj quando impariamo a governare noi stessi». Gandhi, conosciuto nelle fonti autentiche, non è un leader nazionalista: l’India è sorella tra le nazioni umane. Però giudica l’Occidente come «una civiltà costruita in modo da giungere all’autodistruzione». Concepisce per l’India un nuovo paradigma della democrazia, di portata potenzialmente universale. Per lui «lo spirito della democrazia richiede di interiorizzare lo spirito della fraternità». Più che il principio della maggioranza, una vera democrazia ha il criterio della protezione del più piccolo e povero membro della nazione. Ma l’Occidente ha detto “fraternité” nella Rivoluzione francese, poi l’ha dimenticata. Democrazia non è la vittoria legale di una parte, ma la maturazione etica e civile del popolo. Occorre il massimo possibile di autogoverno dei cittadini, degli organismi vicini alla vita quotidiana, delle singole nazioni, per evitare la concentrazione del potere. Ci possiamo chiedere come attuare questo principio oggi che tutto il mondo è di fatto vicino e a ridosso della vita quotidiana dei singoli. Eppure, proprio per questo dobbiamo esseri liberi dai grandi poteri concentrati.
L’umanità si fonda sulla verità o sul potere? La pratica del non-attaccamento permette di venire alla luce dello swaraj, liberi dal culto dei risultati, nel respiro dell’azione feconda. «Il governo ideale, per Gandhi, è quello che governa il minimo» e ciò non è il liberalismo, ma l’autogoverno delle persone educate allo swaraj. La giustizia giudicante ha un approccio riparativo, non punitivo.
Servizio al bene comune
Swadeshi significa servizio al bene comune, emancipazione da ciò che impedisce di servire la comunità. «Chi vuole essere amico di Dio deve restare solo, oppure deve farsi amico il mondo intero», osa dire Gandhi. La comunità non è definita da una località, ma è relazione universale, inclusiva, è un modo d’essere che non esclude nessuno. La democrazia del villaggio ha il respiro di un progetto federale cosmopolita: cerchi successivi entro un cerchio oceanico, non una piramide. La nonviolenza è incompatibile col nazionalismo. Aderire alla verità dell’amore è aderire alla vita comune universale. «Chi è dedito allo swadeshi cerca di identificarsi con il creato intero».
«L’Occidente è troppo materialista, autocentrato e ottusamente nazionalista. Noi vogliamo una coscienza internazionale che abbracci il benessere e il progresso spirituale dell’umanità intera». Democrazia è organizzare la collettività non col potere, ma col prendersi cura e col servizio, in spirito di gioia. Non basta l’indipendenza dallo straniero: occorre il non-attaccamento per aderire alla verità. L’essere umano viene alla luce quando scopre la sua libertà, e ha per madre la verità dell’amore. Il progresso umano individuale e quello collettivo sono interdipendenti. Agli occhi del potere, Gandhi sembra fallito: in realtà ha avviato una delle più alte imprese dell’umanità.
Il passaggio decisivo, nel cammino con Gandhi, è da quando pensiamo impossibile la nascita di una umanità nonviolenta, a quando non vi rinunciamo, e quindi nasciamo noi a tale umanità. Maria Zambrano: «Solo ciò che resiste alla propria distruzione è davvero vivo». Vero fallimento è la rinuncia. In Gandhi avviene il paradosso del fallimento innegabile e del successo: persiste un seme di futuro che non cede a potere e violenza. Siamo liberi dal male non solo quando lo sradichiamo da noi, ma quando non desistiamo dalla via del bene. Così è pure nella vita della società.
La vita semplice
Sarwodaya è il nome e il valore della “vita semplice”. Nanni Salio aveva fatto suo quel motto di Gandhi: «Vivere semplicemente perché tutti possano semplicemente vivere». Non è un’idea sacrificale, ma il bene comune della salvezza e felicità. Il bene di ciascuno sta nel bene di tutti. Il sarwodaya anticipa una vita libera da violenza. Chi è libero dal male, nello swaraj , e nella presenza di Dio, è nella vita semplice. Ogni persona ha un suo percorso di elevazione spirituale: «Ci sono tante religioni quanti sono gli individui». Nella società attuale, complessa e sollecitata da mille stimoli, l’ideale del sarwodaya è più difficile, ma la coscienza sveglia ci può orientare ad una felicità semplice. Pur attraverso cadute e fallimenti c’è una via di armonizzazione, purché ci immedesimiamo negli scarti umani della società. Gandhi combatté il sistema delle caste: «Un Harijana [fuori casta] è realmente un figlio di Dio», abbandonato dalla società. «Dio è Dio proprio perché difende chi è privo di ogni aiuto». Gandhi pensa la nostra filialità divina, ed è per questo che critica ogni pretesa di superiorità di una religione a danno della relazione vivente di tutti gli esseri umani con la verità divina: non il potere, ma l’amore è il principio. Il fatto che un’economia e una politica di potere producano scarti umani, è fallimento anche della religione. La nonviolenza richiede questa positiva giustizia dell’amore.
Gandhi superò progressivamente i pregiudizi della cultura del suo tempo: razzismo in Sudafrica, nazionalismo, sessismo. Lo spirito religioso dell’amore è indissolubile dalla giustizia politica: «Non potrei avere alcuna vita religiosa senza identificarmi con tutta l’umanità e questo mi è impossibile senza partecipare alla politica». La via della nonviolenza al di là del principio di potere non è per eroi eccezionali, ma per chiunque vuole risollevarsi da una crisi della propria vita.
L’economia attuale è una guerra
Oggi l’istituzione centrale della violenza è l’economia. Il mercato obbliga alla competizione, che ha il modello della guerra. La nonviolenza esige la radicale trasformazione del sistema economico e la liberazione delle sue vittime. «La legge spirituale si esprime proprio nelle comuni attività della vita, quindi coinvolge l’ambito economico, sociale e politico», scrive Gandhi. Egli prefigura un socialismo alternativo al marxismo. Marx vede l’alternativa al capitalismo come contraddizione anche violenta, per Gandhi conta la comunione e l’azione giusta ottenuta vincendo il male dentro di sé: levatrice della storia è la verità dell’amore, quindi la nonviolenza. Marx è figlio della modernità europea e non supera la logica del potere, ma solo quella del capitale. Gandhi è figlio della sapienza dell’India, in dialogo con le altre fedi e col diritto occidentale, e non è attratto dal potere. Nel socialismo gandhiano la proprietà dei mezzi di produzione è sostituita dall’amministrazione fiduciaria, il lavoro è servizio, non c’è competitività ma cura e generatività. L’economia è incentrata nella comunità locale pluralista, ogni proprietà è responsabilità, il fine di ogni impresa non è più il profitto, ma il bene comune.
La critica della proprietà è tutt’uno con la critica del potere, dato che si alimentano a vicenda. Mantenendo la propria individualità nazionale, i popoli umani formeranno una democrazia mondiale, nella libertà dal male (swaraj), perciò senza farsi violenza. Il lavoro e le tecniche non devono sfigurare l’umanità e la natura, come fa il potere violento.
Il non-possesso
Aparigraha è il non-possesso, che sradica l’identificazione tra essere e avere. Invece: uso, custodia, manutenzione dei beni per la condivisione. L’economia non è una sfera autonoma: è un’attività sociale per il servizio alla vita e al bene comune: «La vera economia è l’economia della giustizia». L’economia è da trasformare in questo senso, senza violenza od oppressione, ma col tessere la convivenza. Così è da salvare tutta la vita, che non è solo «corsa verso la morte», come pensa il nichilismo occidentale. La salvezza (moksha) non è solo dopo la morte, ma già nella trasformazione della persona, nella vita aperta alla libertà da tutti i vincoli, alla eliminazione dell’ego, a liberare il divino in noi. Il solo modo per trovare Dio, ben prima della morte, è il servizio verso tutti. «Per vedere faccia a faccia lo Spirito universale della Verità bisogna saper amare come se stessi chi è il peggiore in tutto il creato». Questo impegna in ogni ambito: «Non esito a dire che quanti dicono che la religione non ha niente a che fare con la politica, non sanno cosa sia la religione». «Superare il proprio ego è ciò che permette agli altri di vivere».
L’esperimento di Gandhi non ha dimostrazioni, salvo questa: se una persona si apre davvero all’amore che la umanizza, la sua vita diventa immensa e trova tutta la sua dignità. La salvezza esistenziale è quando viviamo non invano, ma contribuendo alla salvezza dell’umanità, alla vita, che è più del potere.
Epilogo
Nell’Epilogo, Mancini richiama i sistemi che regolano la politica: il codice Hobbes (il potere è la passione fondamentale di tutta l’umanità), il codice Mandeville (il potere è diventato sistema onnicomprensivo, inglobante), e li confronta con il codice Gandhi: egli ha reso obsoleta la lingua del potere, cominciando a parlare la lingua che nasce dall’esperienza della verità. Per lui l’autorità è la qualità di chi promuove lo sviluppo delle persone e del bene comune, l’integrità è il superamento delle scissioni nelle persone, la trasformazione etica e democratica è quando la convivenza prende forma diversa da quella del potere. È notevole che, mentre le virtù morali e civili sono oggi all’incirca quelle classiche, in politica, da Machiavelli in poi, virtù è considerata qualsiasi abilità a prendere e mantenere, di fatto, il potere. La forza è equiparata al giusto. Oppure – direi- non c’è più giusto, ma solo forza: il fatto è il valore, quindi non c’è più valore a regola dei fatti.
Gandhi mostra come la prerogativa umana è la indipendenza come libertà dal male, e l’autogoverno come adesione alla verità dell’amore. Nel codice Gandhi il metodo è dialogo, prendersi cura, partecipazione, giustizia risanatrice, amministrazione fiduciaria: non conquistare il potere, ma coltivare le possibilità di vita buona. Alternativa alla forza del potere è la forza, fragile ma irriducibile, dell’umano. Il potere occupa il vuoto lasciato dalla mancata fioritura dell’umano. L’individualismo tende al potere, l’anima alla comunione con la verità e con ogni vivente. Non possiamo dimostrare Dio o l’amore-verità con cui Gandhi ha dialogato, ma neppure possiamo concludere che nulla è tra noi se non il potere. La “prova” paradossale è che, nonostante la potenza del male, persiste il mondo e la ricerca del suo significato: «Percepisco che vi è una forza vivente che tiene tutto assieme… Questa forza o spirito informatore è Dio. Poiché niente altro di quello che vedo semplicemente coi sensi può persistere o persisterà, Egli solo è. E questa forza è benevola o malevola? La vedo esclusivamente benevola, perché vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce». (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Il male offende il bene ma non lo può distruggere. «La forza dell’amore, dell’anima o della verità sono la stessa cosa. Abbiamo prove dell’azione di questa forza in ogni momento. Se non ci fosse questa forza l’universo scomparirebbe». «L’unica prova possibile della verità è nella trasformazione della persona che ad essa aderisce».
Non è trionfalismo né idealizzazione. Gandhi conosce con lucidità e benevolenza, ed anche con umorismo, la debolezza umana. Vede il paradosso per cui, anche se l’uomo rinuncia alla propria dignità, la verità persiste a stargli vicina, invisibile e disarmata. È importante l’educazione dei piccoli alla bellezza della nonviolenza. Finché politica ed economia sono vincere sugli altri, si lacera il tessuto della vita. Si tratta di vincere sé stessi, l’esistere per sé, e allora si può custodire tutti i valori viventi. La storia ha senso come divenire solidale della comunità umana e della natura.
La competitività lacera l’umanità fino alla sua eliminazione. Noi, dopo Gandhi, lo vediamo. Se è la lotta per il potere che modella economia e politica, il risultato è la disgregazione. La chiave del futuro è la generatività che inaugura dinamiche di vita armonica.
Enrico Peyretti, 7 gennaio 2022
Filosofia di Gandhi: o potere, o amore
Roberto Mancini, Gandhi, Al di là del principio di potere, Feltrinelli 2021, pp. 172, euro 14
(pubblicato in versione abbreviata su il foglio n. 486, gennaio 2022, p. 6)
Gandhi non fu solo un santone nonviolento, un “fachiro seminudo” (per Churchill), un “idealista pratico”, come diceva di sé; non fu solo l’animatore della coscienza e dignità del popolo indiano, e poi di altri. Fu anche un filosofo, cercatore della sapienza, quindi un pensatore attivo e creativo della buona convivenza umana. Con Gandhi avviene un’evoluzione possibile, nella politica, dal “principio di potere” alla verità dell’amore per la realtà. Questo libro è la filosofia di Gandhi, letta da un filosofo che sa leggere le trasformazioni profonde, come Roberto Mancini, docente all’Università di Macerata. Egli ci presenta nelle sue maggiori articolazioni il pensiero operante di Gandhi, indagato su fonti ampie, dimostrate dalla veramente abbondante bibliografia.
Esperimenti con la verità
Potere, da verbo della vita, è diventato sostantivo: strumento che impone, sottomette altri, impedisce loro di esprimere delle possibilità di vita. Il filosofo Mancini legge la validità euristica dell’opera di Gandhi: «al di là del principio di potere» come scoperta di vie inedite per l’umanità. Perciò è critico della modernità, che vede come «per eccellenza la civiltà del potere». Gandhi ha l’autorità non di chi comanda, ma di chi fa crescere coscienza e umanità. La vita di Gandhi fu «esperimenti con la verità». La verità è fonte di senso della vita. Gandhi non è assolutista, ma in continuo approccio alla verità della vita. Il suo è un “realismo trasformativo”. Dalla Bhagavad Gita (testo sacro induista, III sec. a. C.) è avviato alla lotta interiore tra il bene e il male. La sua etica non è un perfezionismo, ma l’essere se stessi lasciandosi trasformare dall’amore, forza cosmica alternativa al potere. Legge Ruskin, Thoreau, Tolstoj. Apprende la politica nell’opporsi all’apartheid razzista in Sudafrica. La lotta nonviolenta è tradurre in politica la verità dell’amore. In India si impegna per i contadini poveri del Champaran, prima che per l’indipendenza. Impara dai propri errori. Dalla guerra mondiale, da Hiroshima, apprende che solo la nonviolenza potrà fermare nazismo e fascismo. L’indipendenza viene insieme alla dolorosa separazione tra India e Pakistan. È ucciso da un fondamentalista indù. Esaminiamo alcuni termini essenziali del suo pensiero-azione.
Attaccamento alla verità
Satyagraha è l’attaccamento alla verità, che dà vera forza: non la nostra forza di volontà, ma la forza della verità dell’amore. La verità è amore, e l’amore è verità. A noi “amore” suona quasi svenevolezza, invece è forza. Ed è anche capacità di soffrire, piuttosto che infliggere sofferenza. Gandhi crede nell’adwaita (non dualismo), l’unità essenziale di tutto ciò che ha vita: non una integrità personale ma una realtà di relazione. Mancini vede anche i limiti dell’idea della corporeità in Gandhi, che chiede castità come autocontrollo, ma ciò vale in lui come primato dell’amore politico per il bene comune. Il Satyagraha è l’arma di chi è davvero il più forte, e per questo esclude l’uso di ogni violenza. Dall’ateismo giovanile, Gandhi arriva a concepire Dio come verità, la forza dei deboli, al di sopra di ogni esclusivismo religioso. Dio non ha figura né concetto, ma è Voce interiore, che l’autodisciplina e l’estrema umiltà possono cogliere, e Gandhi ne ha fatto reale esperienza: «Per me quella Voce fu più reale della mia stessa esistenza» (p. 51). Fede e politica convergono nel servire la giustizia: il potere non aiuta, solo la verità aiuta, la forza metafisica che sostiene la vita del mondo. Oggi, per noi, è questo orizzonte che manca alla politica.
Nonviolenza, amore politico
Ahimsa, nonviolenza, è la forza amorevole della verità che spegne la violenza, è la forza della pazienza attiva, tenace. Ahimsa è il mezzo, la verità è il fine. Pazienza non è remissività ma forza che sostiene gli effetti della violenza, cambia la sofferenza in forza. Ahimsa cambia il terreno del confronto rispetto alla violenza, è generativa di una realtà inedita. Resistere è più che arginare o contrastare, è inaugurare una via diversa: non è ascetismo, ma trasforma situazioni sociali e processi storici. Ahimsa è il cuore della politica, è amore politico, e scaturisce dalla giustizia risanatrice, opposta alla logica di potere. La nonviolenza è alternativa non solo alla violenza, ma al potere; passa dalla logica individualista alla sapienza della coralità. Non è mera astensione dal fare violenza, ma dispiegamento della capacità di amare. Questa capacità si impara dai sofferenti, che sono i nostri maestri. L’appello della sofferenza genera in noi una forza inedita per agire. Non è idealizzazione statica, ma movimento a fare tutti i passi possibili. Ogni passo è in sé la presenza anticipata della meta.
Fini (intenzioni) e mezzi (responsabilità, efficacia) non sono separabili, come fa Weber, perché il risultato avrà la qualità dei mezzi usati, come avviene tra seme e pianta. I mezzi d’azione nonviolenti ottengono risultati di giustizia. I mezzi non sono altro che i fini stessi nel loro maturare. I fini sono già contenuti nei mezzi. L’etica della politica è l’etica della relazione di verità con tutta la comunità dei viventi. La politica è trasformata, da concorrenza per il potere, a swaraj, libertà dal male che si intromette nella relazione. La politica non è più un contrasto meccanico di forze fisiche, ma un sentimento giusto di sé per l’azione giusta per tutti. Non è una vetta irraggiungibile, ma la via per ritrovarsi nella comunione cosmica. In ciò vale anche il compromesso, non come svendita degli ideali, ma come dar tempo al tempo.
La nonviolenza dà significato alla religione, che non è una certa tradizione, ma la relazione personale con la verità viva dell’amore divino. Le religioni tradizionali, autoreferenziali, si appropriano indebitamente dell’universalità di Dio.
Indipendenza dal potere
Swaraj è la libertà dal male, l’indipendenza dal dominio, dal potere che opprime, dal consenso passivo dei dominati. Non è un altro potere indipendente, ma l’indipendenza dal potere. Gandhi vuole l’indipendenza dell’India (più di quanto l’India seppe capirlo) dalle contrapposizioni arcaico-moderno, Oriente-Occidente, verso una civiltà spirituale corale. «C’è Swaraj quando impariamo a governare noi stessi». Gandhi, conosciuto nelle fonti autentiche, non è un leader nazionalista: l’India è sorella tra le nazioni umane. Però giudica l’Occidente come «una civiltà costruita in modo da giungere all’autodistruzione». Concepisce per l’India un nuovo paradigma della democrazia, di portata potenzialmente universale. Per lui «lo spirito della democrazia richiede di interiorizzare lo spirito della fraternità». Più che il principio della maggioranza, una vera democrazia ha il criterio della protezione del più piccolo e povero membro della nazione. Ma l’Occidente ha detto “fraternité” nella Rivoluzione francese, poi l’ha dimenticata. Democrazia non è la vittoria legale di una parte, ma la maturazione etica e civile del popolo. Occorre il massimo possibile di autogoverno dei cittadini, degli organismi vicini alla vita quotidiana, delle singole nazioni, per evitare la concentrazione del potere. Ci possiamo chiedere come attuare questo principio oggi che tutto il mondo è di fatto vicino e a ridosso della vita quotidiana dei singoli. Eppure, proprio per questo dobbiamo esseri liberi dai grandi poteri concentrati.
L’umanità si fonda sulla verità o sul potere? La pratica del non-attaccamento permette di venire alla luce dello swaraj, liberi dal culto dei risultati, nel respiro dell’azione feconda. «Il governo ideale, per Gandhi, è quello che governa il minimo» e ciò non è il liberalismo, ma l’autogoverno delle persone educate allo swaraj. La giustizia giudicante ha un approccio riparativo, non punitivo.
Servizio al bene comune
Swadeshi significa servizio al bene comune, emancipazione da ciò che impedisce di servire la comunità. «Chi vuole essere amico di Dio deve restare solo, oppure deve farsi amico il mondo intero», osa dire Gandhi. La comunità non è definita da una località, ma è relazione universale, inclusiva, è un modo d’essere che non esclude nessuno. La democrazia del villaggio ha il respiro di un progetto federale cosmopolita: cerchi successivi entro un cerchio oceanico, non una piramide. La nonviolenza è incompatibile col nazionalismo. Aderire alla verità dell’amore è aderire alla vita comune universale. «Chi è dedito allo swadeshi cerca di identificarsi con il creato intero».
«L’Occidente è troppo materialista, autocentrato e ottusamente nazionalista. Noi vogliamo una coscienza internazionale che abbracci il benessere e il progresso spirituale dell’umanità intera». Democrazia è organizzare la collettività non col potere, ma col prendersi cura e col servizio, in spirito di gioia. Non basta l’indipendenza dallo straniero: occorre il non-attaccamento per aderire alla verità. L’essere umano viene alla luce quando scopre la sua libertà, e ha per madre la verità dell’amore. Il progresso umano individuale e quello collettivo sono interdipendenti. Agli occhi del potere, Gandhi sembra fallito: in realtà ha avviato una delle più alte imprese dell’umanità.
Il passaggio decisivo, nel cammino con Gandhi, è da quando pensiamo impossibile la nascita di una umanità nonviolenta, a quando non vi rinunciamo, e quindi nasciamo noi a tale umanità. Maria Zambrano: «Solo ciò che resiste alla propria distruzione è davvero vivo». Vero fallimento è la rinuncia. In Gandhi avviene il paradosso del fallimento innegabile e del successo: persiste un seme di futuro che non cede a potere e violenza. Siamo liberi dal male non solo quando lo sradichiamo da noi, ma quando non desistiamo dalla via del bene. Così è pure nella vita della società.
La vita semplice
Sarwodaya è il nome e il valore della “vita semplice”. Nanni Salio aveva fatto suo quel motto di Gandhi: «Vivere semplicemente perché tutti possano semplicemente vivere». Non è un’idea sacrificale, ma il bene comune della salvezza e felicità. Il bene di ciascuno sta nel bene di tutti. Il sarwodaya anticipa una vita libera da violenza. Chi è libero dal male, nello swaraj , e nella presenza di Dio, è nella vita semplice. Ogni persona ha un suo percorso di elevazione spirituale: «Ci sono tante religioni quanti sono gli individui». Nella società attuale, complessa e sollecitata da mille stimoli, l’ideale del sarwodaya è più difficile, ma la coscienza sveglia ci può orientare ad una felicità semplice. Pur attraverso cadute e fallimenti c’è una via di armonizzazione, purché ci immedesimiamo negli scarti umani della società. Gandhi combatté il sistema delle caste: «Un Harijana [fuori casta] è realmente un figlio di Dio», abbandonato dalla società. «Dio è Dio proprio perché difende chi è privo di ogni aiuto». Gandhi pensa la nostra filialità divina, ed è per questo che critica ogni pretesa di superiorità di una religione a danno della relazione vivente di tutti gli esseri umani con la verità divina: non il potere, ma l’amore è il principio. Il fatto che un’economia e una politica di potere producano scarti umani, è fallimento anche della religione. La nonviolenza richiede questa positiva giustizia dell’amore.
Gandhi superò progressivamente i pregiudizi della cultura del suo tempo: razzismo in Sudafrica, nazionalismo, sessismo. Lo spirito religioso dell’amore è indissolubile dalla giustizia politica: «Non potrei avere alcuna vita religiosa senza identificarmi con tutta l’umanità e questo mi è impossibile senza partecipare alla politica». La via della nonviolenza al di là del principio di potere non è per eroi eccezionali, ma per chiunque vuole risollevarsi da una crisi della propria vita.
L’economia attuale è una guerra
Oggi l’istituzione centrale della violenza è l’economia. Il mercato obbliga alla competizione, che ha il modello della guerra. La nonviolenza esige la radicale trasformazione del sistema economico e la liberazione delle sue vittime. «La legge spirituale si esprime proprio nelle comuni attività della vita, quindi coinvolge l’ambito economico, sociale e politico», scrive Gandhi. Egli prefigura un socialismo alternativo al marxismo. Marx vede l’alternativa al capitalismo come contraddizione anche violenta, per Gandhi conta la comunione e l’azione giusta ottenuta vincendo il male dentro di sé: levatrice della storia è la verità dell’amore, quindi la nonviolenza. Marx è figlio della modernità europea e non supera la logica del potere, ma solo quella del capitale. Gandhi è figlio della sapienza dell’India, in dialogo con le altre fedi e col diritto occidentale, e non è attratto dal potere. Nel socialismo gandhiano la proprietà dei mezzi di produzione è sostituita dall’amministrazione fiduciaria, il lavoro è servizio, non c’è competitività ma cura e generatività. L’economia è incentrata nella comunità locale pluralista, ogni proprietà è responsabilità, il fine di ogni impresa non è più il profitto, ma il bene comune.
La critica della proprietà è tutt’uno con la critica del potere, dato che si alimentano a vicenda. Mantenendo la propria individualità nazionale, i popoli umani formeranno una democrazia mondiale, nella libertà dal male (swaraj), perciò senza farsi violenza. Il lavoro e le tecniche non devono sfigurare l’umanità e la natura, come fa il potere violento.
Il non-possesso
Aparigraha è il non-possesso, che sradica l’identificazione tra essere e avere. Invece: uso, custodia, manutenzione dei beni per la condivisione. L’economia non è una sfera autonoma: è un’attività sociale per il servizio alla vita e al bene comune: «La vera economia è l’economia della giustizia». L’economia è da trasformare in questo senso, senza violenza od oppressione, ma col tessere la convivenza. Così è da salvare tutta la vita, che non è solo «corsa verso la morte», come pensa il nichilismo occidentale. La salvezza (moksha) non è solo dopo la morte, ma già nella trasformazione della persona, nella vita aperta alla libertà da tutti i vincoli, alla eliminazione dell’ego, a liberare il divino in noi. Il solo modo per trovare Dio, ben prima della morte, è il servizio verso tutti. «Per vedere faccia a faccia lo Spirito universale della Verità bisogna saper amare come se stessi chi è il peggiore in tutto il creato». Questo impegna in ogni ambito: «Non esito a dire che quanti dicono che la religione non ha niente a che fare con la politica, non sanno cosa sia la religione». «Superare il proprio ego è ciò che permette agli altri di vivere».
L’esperimento di Gandhi non ha dimostrazioni, salvo questa: se una persona si apre davvero all’amore che la umanizza, la sua vita diventa immensa e trova tutta la sua dignità. La salvezza esistenziale è quando viviamo non invano, ma contribuendo alla salvezza dell’umanità, alla vita, che è più del potere.
Epilogo
Nell’Epilogo, Mancini richiama i sistemi che regolano la politica: il codice Hobbes (il potere è la passione fondamentale di tutta l’umanità), il codice Mandeville (il potere è diventato sistema onnicomprensivo, inglobante), e li confronta con il codice Gandhi: egli ha reso obsoleta la lingua del potere, cominciando a parlare la lingua che nasce dall’esperienza della verità. Per lui l’autorità è la qualità di chi promuove lo sviluppo delle persone e del bene comune, l’integrità è il superamento delle scissioni nelle persone, la trasformazione etica e democratica è quando la convivenza prende forma diversa da quella del potere. È notevole che, mentre le virtù morali e civili sono oggi all’incirca quelle classiche, in politica, da Machiavelli in poi, virtù è considerata qualsiasi abilità a prendere e mantenere, di fatto, il potere. La forza è equiparata al giusto. Oppure – direi- non c’è più giusto, ma solo forza: il fatto è il valore, quindi non c’è più valore a regola dei fatti.
Gandhi mostra come la prerogativa umana è la indipendenza come libertà dal male, e l’autogoverno come adesione alla verità dell’amore. Nel codice Gandhi il metodo è dialogo, prendersi cura, partecipazione, giustizia risanatrice, amministrazione fiduciaria: non conquistare il potere, ma coltivare le possibilità di vita buona. Alternativa alla forza del potere è la forza, fragile ma irriducibile, dell’umano. Il potere occupa il vuoto lasciato dalla mancata fioritura dell’umano. L’individualismo tende al potere, l’anima alla comunione con la verità e con ogni vivente. Non possiamo dimostrare Dio o l’amore-verità con cui Gandhi ha dialogato, ma neppure possiamo concludere che nulla è tra noi se non il potere. La “prova” paradossale è che, nonostante la potenza del male, persiste il mondo e la ricerca del suo significato: «Percepisco che vi è una forza vivente che tiene tutto assieme… Questa forza o spirito informatore è Dio. Poiché niente altro di quello che vedo semplicemente coi sensi può persistere o persisterà, Egli solo è. E questa forza è benevola o malevola? La vedo esclusivamente benevola, perché vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce». (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Il male offende il bene ma non lo può distruggere. «La forza dell’amore, dell’anima o della verità sono la stessa cosa. Abbiamo prove dell’azione di questa forza in ogni momento. Se non ci fosse questa forza l’universo scomparirebbe». «L’unica prova possibile della verità è nella trasformazione della persona che ad essa aderisce».
Non è trionfalismo né idealizzazione. Gandhi conosce con lucidità e benevolenza, ed anche con umorismo, la debolezza umana. Vede il paradosso per cui, anche se l’uomo rinuncia alla propria dignità, la verità persiste a stargli vicina, invisibile e disarmata. È importante l’educazione dei piccoli alla bellezza della nonviolenza. Finché politica ed economia sono vincere sugli altri, si lacera il tessuto della vita. Si tratta di vincere sé stessi, l’esistere per sé, e allora si può custodire tutti i valori viventi. La storia ha senso come divenire solidale della comunità umana e della natura.
La competitività lacera l’umanità fino alla sua eliminazione. Noi, dopo Gandhi, lo vediamo. Se è la lotta per il potere che modella economia e politica, il risultato è la disgregazione. La chiave del futuro è la generatività che inaugura dinamiche di vita armonica.
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