Berlusconismo senza fine?
A proposito del libro di Rino Genovese Cos’è il berlusconismo? La democrazia deformata e il caso italiano, Manifestolibri, 2011.
Berlusconismo senza fine è il titolo dell’ultimo capitolo di questo stimolante libro che così si candida a mantenere il suo interesse nonostante l’ultimo clamoroso ribaltone governativo, intervenuto dopo la pubblicazione di questo lavoro di Rino Genovese.
Come vi si dubita della fine definitiva del berlusconismo così le sue origini sono considerate talmente frammiste da non potere venire chiarite del tutto esaustivamente. Merito precipuo di questo libro sta infatti proprio nel suo distinguersi dalle tante, noiose, quanto inflazionate, demonizzazioni di Berlusconi, le quali si sono intestardite a imputargli tutti i guai del nostro paese. Anziché un assurdo incidente di percorso, una deviazione perversa o una parentesi scandalosa, la politica italiana degli ultimi diciassette anni è invece giustamente vista da Genovese come ultimo impasto di due ordini di problemi. Uno tutto italiano, riguardante i profondissimi mali che non risparmiano alcun partito, formazione parlamentare od orientamento culturale, proprio perché si radicano nelle più persistenti e antipolitiche caratteristiche antropologiche di questo paese. L’altro, relativo alle mancanze di portata globale che affliggono attualmente la politica ad ogni latitudine.
L’Italia contemporanea appare così ancora una volta come un “laboratorio”, quale fu al tempo del fascismo, dell’ “ibrido” insito in ogni modernità, ma declinato in modo che il “neo-arcaico” finisce per coniugarsi col “tardo-moderno”.
Nel libro troviamo dunque parecchie penetranti incursioni tra tutte le più controverse tematiche connesse sia alle più cruciali vicende della storia patria, sia alla enorme influenza esercitata dalla comunicazione su scala planetaria.
Tra le più convincenti di tali incursioni sono da segnalare anzitutto quelle relative al “neopopulismo mediatico”, al “familismo”, nonché al legame tra questione meridionale e questione settentrionale. Quanto al primo tema, particolarmente efficace è la categoria di “monoideologia depotenziata” che Genovese impiega per descrivere l’uniformità del senso comune oggi dominante su scala planetaria grazie alla crescente e pervasiva influenza della comunicazione di massa. L’ “ideologia” di Berlusconi non ne sarebbe dunque che la variante italiana, resa ancora più efficace dal fatto di fondarsi su un diretto possesso dei media.
Quanto al “familismo”, esaminato attraverso una ripresa critica delle famose ricerche di Banfield degli anni ‘50, esso è giustamente identificato come uno delle prime condizioni di quella propensione clientelistica, a- e/o anti-politica che in Italia non si limita ad essere un passato che non passa, ma trova appunto nella monoideologia mediatamente depotenziata nuove occasioni di rilancio.
Riguardo al terzo tema, è assai stimolante la rievocazione della Napoli dei tempi di Lauro che Genovese analizza come precedente significativo di quel localismo corrotto divenuto più recentemente cavallo di battaglia della Lega Nord. Il tutto a ribadire il carattere essenzialmente nazionale delle due questioni solitamente distinte come “del Sud” e “del Nord”: distinzione tanto fittizia, quanto efficace nell’alimentare quel consenso razzista e xenofobo che ha fatto della Lega la anima più nera e decisiva delle maggioranze berlusconiane.
Parecchi altri sono gli stimoli che il libro di Genovese offre ripensando sia la categoria di “bonapartismo”, sia l’ “immobilismo” tipico della nostra tradizione politica, e pure ridiscutendo della “cattiva qualità” dello stato sociale italiano, della malavita organizzata, della perversità del giustizialismo, nonché di quanto sia controverso stabilire se il berlusconismo sia stato continuità o rottura rispetto al passato.
Tra i punti di questo libro che mi sono parsi invece più discutibili, ancorché sempre assai interessanti, ne segnalo tre: la questione detta “dell’incoscienza”; l’analisi degli interessi lobbistici; la definizione del berlusconismo come “democrazia deformata”.
Vediamoli uno ad uno.
Detto in poche e scarne parole, ciò che Genovese intende per “incoscienza” – tramite riflessioni del tutto originali che coinvolgono tra gli altri anche Fellini e il suo modo di vedere la Romagna, patria del fascismo – è quel sentimento di impunità, che starebbe alla base dello scarso senso civico da sempre attribuito al carattere degli italiani, e che avrebbe tra le sue condizioni antropologiche, sia l’etica cattolica del perdono e del pentimento assolutorio, sia il familismo protettivo. Qui sarebbe dunque da rintracciare uno dei più rocciosi sostegni della recidività del berlusconismo, ossia della sua capacità di mantenere consensi, nonostante o invece proprio grazie alle evidenti illegalità, sempre accompagnate da un ampio seguito di solidarietà connivente, mediaticamente alimentata.
Tutto molto azzeccato, ben ponderato e scritto, come il lettore potrà apprezzare. Niente da obiettare, dunque, salvo una cosa politicamente cruciale.
Se è vero che l’ “incoscienza”, questo tipo di incoscienza italiota, è un dato antropologico, di lunga, anzi lunghissima, durata, che vale prendersela con esso, col suo continuo perdurare da secoli? Che vale vedere nel berlusconismo un suo ennesimo trionfo? Non sarà che avere coscienza di questa incoscienza antropologica, trans-storica, trascendentale, giova solo a lamentarsene? E non sarà che la lamentela serva solo ad ulteriore conferma? Franco Ferrucci, una ventina d’anni fa, commentando Il discorso sui costumi degli italiani Leopardi (in Nuovo discorso sugli italiani, Mondadori, 1993), lo aveva già notato con grande acume: che l’esibita lamentazione di sé come popolo, la narcisistica autocommiserazione continuano esse stesse a far parte integrante di tali costumi – non per nulla, aggiungo io, da sempre condizionati da quella chiesa più potente del mondo che avendo sede proprio in Italia non la hai mai prediletto gli italiani in quanto tali.
Stanti dunque simili condizionamenti secolari, da prendere di mira non saranno allora piuttosto tutte quelle alternative che coscientemente e politicamente hanno provato o preteso di interrompere questo stesso destino antropologico? È esattamente quanto ho tentato di fare con un recente scritto (pubblicato assieme ad altri saggi tra i quali uno dello stesso Genovese in La democrazia in Italia, ed. Cronopio) e dedicato proprio a mettere in luce “l’infelicità della coscienza democratica e antifascista”: infelice per se stessa, in quanto incapace comunque di uscire dalla lamentela impotente, ma infelice anche per gli altri, in quanto incapace di una reale alternativa a quelle opzioni più tradizionali, conservatrici, se non reazionarie come quelle rappresentate appunto dal berlusconismo.
Tra i luoghi comuni di questo tipo coscienza – in mezzo secolo passata tranquillamente dal comunismo più fervente all’anticomunismo più sprezzante, dall’antiatlantismo dubbioso all’atlantismo più convinto e così via – è proprio una critica all’americana del lobbismo berlusconiano. Critica che lo stesso Genovese fa sua. L’obiezione di fondo è che tale lobby normalmente avrebbe dovuto limitarsi a far pressione sul governo assieme ad altre, e non diventare essa stessa governo. Ora, questo ragionamento sicuramente può valere per gli Usa dove ci sono lobby tanto potenti da esserlo a livello planetario e dunque da non temere ingerenze esterne. Ma in Italia, forse anche più che nel resto dell’Ue, il problema d’ingerenza delle lobby estere c’è, eccome. Tanti patrimoni industriali sono stati in effetti lasciati tranquillamente preda di appropriazioni straniere, immiserendo la portata di ogni strategia elaborata all’interno di questo paese. Così, l’alternativa alla lobby berlusconiana al governo non poteva e non può che essere un governo di più lobby di cui le più potenti non italiane. Non è forse proprio questo che Monti dice, quando dice che anche l’Italia deve sentirsi essa stessa intimamente Europa, e quindi deve smettere di considerala come qualcosa di esterno? L’alternativa tra Berlusconi e Monti mi pare sia insomma, detto brutalmente, tra un fantoccio al governo e un governo fantoccio. Col che non è detto quale sia il migliore, dato che se ingerenze estere ci sono, come in fondo c’erano anche con un governo più italiano che europeo, meglio forse vederle in faccia. Cioè nella faccia di Monti e dei suoi ministri “tecnici” e cattolici d.o.c. Ma d’altra parte non è neanche certo che al conflitto di interessi tipico del Cavaliere sia preferibile l’influenza preponderante di interessi di chissà chi e provenienti da chissà dove.
Genovese, al tempo in cui ha scritto questo libro, non ha potuto vedere quale alternativa ha posto fine al ciclo dei governi Berlusconi, ma se vi è una critica complessiva cui il suo libro si espone è, a mio parere, proprio di non aver dato abbastanza rilievo al contesto geopolitico internazionale. Sotto silenzio ha lasciato, ad esempio, il fatto – del resto poco commentato, ma dalla rilevanza non sottovalutabile – che la prima volta in cui l’ultimo di tali governi ha perso la maggioranza non è stato né per le puttane, né per la corruzione, ma per gli accordi con Gheddafi.
La sottovalutazione delle vicende geopolitiche è rilevabile per altro nell’ultima delle questioni più sopra segnalate: la definizione data da Genovese del berlusconismo come “democrazia deformata”. Con tale definizione si vuole distinguere questo modo governare dai precedenti, definiti a loro volta come “democrazia bloccata”. Insomma, il passaggio dalla Prima Repubblica alla Seconda Repubblica viene visto come passaggio da una “democrazia bloccata” ad una “democrazia deformata”. Così si dice che prima di Belrusconi le cose per la politica italiana non è che andassero al meglio, ma almeno veniva conservato, pur senza svilupparlo, quel nucleo di normalità etica e legale originariamente rappresentato dai valori fondanti della Costituzione. La “deformazione della democrazia” sarebbe quindi consistita per Genovese nell’ “erosione” di tale nucleo.
Ma, anche a costo di far scandalo, a me pare che da ridiscutere sarebbero proprio i tanto celebrati valori fondanti della Costituzione. In effetti, basta pensare al fatto che essa, appena varata, è stata subito dimezzata, rinviando a tempo indeterminato la realizzazione della sua parte detta “programmatica”: parte di cui si comincerà a dare attuazione solo più di vent’anni dopo. Di che nucleo di normalità etica e legale si può dunque mai parlare, dal momento che esso si è trovato fin da subito lacerato e poi attuato a pezzi? Kelsen insegna che ogni costituzione degna di questo nome racchiude l’essenza unificante di quella “norma fondamentale” da cui tutte le altre norme devono prendere riferimento logico. Che riferimento logico può quindi mai aver rappresentato una Costituzione come la nostra, spaccata in due fin dal suo nascere?
Il fatto è che tutti gli apologeti “democratici” della Costituzione dimenticano le condizioni geopolitiche in cui fu stesa. O meglio le erigono a mito, occultandone le singolarità. Tra il ’45 e il ’47 si è creata infatti la circostanza straordinaria per cui Usa e Urss, uscite vincenti dalla Seconda Guerra Mondiale, si sono ritrovate a braccetto sotto le insegne dell’antinazifascismo. È stato in un simile contesto eccezionale che le potenze trionfanti hanno concesso cose altrettanto eccezionali: prima fra tutte, che lo stesso trattamento inflitto alle altre nazioni dell’orribile asse Roma-Berlino-Tokio non venisse riservato anche all’Italia; e ciò malgrado anche il fatto che dal ’45 non vi fosse alcun partito in grado di competere, per consensi e organizzazione, col partito comunista. Tutto merito dei partigiani, che avevano saputo riscattare il nostro paese dalle infamie del fascismo. Ma già con la primavera del ’47 le cose mutano radicalmente. Giusto il tempo che Togliatti conceda l’amnistia ai fascisti e rinnovi il concordato mussoliniano con la Chiesa, disilludendo così ogni speranza degli stessi partigiani, che subito irrompono anche in Italia gli effetti conseguenti all’innescarsi della Guerra fredda. Ed ecco che allora la Costituzione, nel frattempo varata, si incaglia immediatamente. Figlia della fugace stagione dell’antifascismo globalmente trionfante , col volgere di questa si atrofizza precocemente. Tutto il suo afflato democratico e antifascista si trovò così già a quel tempo bloccato dal muro contro muro che divise il mondo tra comunismo e anticomunismo. Fu dunque fin dai suoi esordi che la Repubblica italiana cominciò a essere teatro più di manovre e intrighi che di politiche ben chiare ed esplicite, effettivamente democratiche. E ciò non tanto perché il nostro paese subiva condizionamenti internazionali di notevole intensità – posto com’era al centro delle tensioni tra l’ovest capitalistico e l’est comunista, tra il nord sviluppato e il sud sottosviluppato -, ma soprattutto perché i partiti, anziché denunciare la progressiva impotenza dei principi costituzionali, si abituarono a coprire più che ad affrontare tali condizionamenti. Di qui tutti gli orribili misteri, fatti di omicidi politici e attentati impuniti, che hanno punteggiato tutta la storia della nostra Repubblica.
Ecco, detto in pochissime parole, tutto lo sporco che la cosiddetta coscienza democratica e antifascista ha preferito troppo spesso nascondere sotto il tappeto. Non può allora stupire che anche oggi, in nome di tale coscienza oramai divenuta solo retorica, si è potuto avallare il più detestabile misfatto di cui l’Itala post-fascista si sia mai macchiata: la guerra di aggressione, per di più nei confronti di un paese, come la Libia, già vittima del “nostro” colonialismo. Il tutto col gusto di osservare l’imbarazzo di Berlusconi in tale occasione.
Ma quasi nessuno dà importanza a simili faccende. Neanche Genovese.
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