Andrea Hajek: La contro-memoria del ’77 a Bologna
Eloisa Betti e Tommaso Cerusici intervistano Andrea Hajek, dottorato in italianistica presso l’Università di Warwink , tra le fondatrici della Rete di storia orale. L’intervista è sul suo ultimo libro che affronta i temi del ’77 a Bologna
D: Siamo con Andrea Hajek per parlare del suo libro Negotiating Memories of Protest in Western Europe: The Case of Italy (Palgrave Macmillan, 2013). Con Andrea vorremmo approfondire un aspetto in particolare del suo libro, collegato alla memoria del 1977 a Bologna, tema del quale lei si è occupata, in particolare, rispetto alle modalità con cui questa memoria, nei decenni trascorsi, è stata rinegoziata e ripensata. Ecco Andrea, da ricercatrice non italiana, come ti è venuto in mente di occuparti di questo tema, di approfondire le vicende legate al ’77 Bolognese e al trauma della morte di Francesco Lorusso? Ci piacerebbe capire da dove scaturisce il tuo interesse per questa vicenda.
R: In realtà, è stato tutto un po’ casuale. Sono venuta a Bologna per fare uno scambio universitario e mi sono trovata ad abitare in Via Irnerio. Un giorno un mio amico mi ha portato in Via Mascarella e mi ha fatto vedere la lapide che ricorda l’omicidio di Lorusso. Anche se passavo spesso di là, non l’avevo mai vista. Sono subito rimasta colpita da questa lapide in memoria di uno studente ucciso negli anni Settanta. In Olanda, da dove provengo, non abbiamo casi simili, cioè di giovani studenti uccisi dalle Forze dell’Ordine. Non credo che una cosa del genere sia mai avvenuta nel mio Paese e, quindi, sono rimasta molto incuriosita da quella vicenda. Quando c’è stato l’anniversario della morte, sono andata alla commemorazione e vi ho trovato molte persone, anche parecchi giovani, e questo mi ha, al tempo stesso, incuriosito e lasciato perplessa. Da quel momento, ho iniziato ad interessarmi a quella vicenda, anche perché la lapide non ti dice molto sulle vicende di allora, a meno che non le abbia vissute. E’, a mio avviso, un po’ misteriosa e retorica. Questa “scoperta” si è sovrapposta al mio percorso universitario: occupandomi di studi sulla memoria, ho deciso di incentrare il mio progetto di ricerca sulle modalità e sulle forme con le quali questa memoria si è sviluppata negli ultimi trent’anni.
D. Nel tuo libro utilizzi il concetto di “contro-memoria”: in che senso gli eventi del ’77 bolognese e la morte di Francesco Lorusso possono essere considerati una “contro-memoria”?
R. Utilizzo il concetto di “contro-memoria” perché la memoria diciamo “ufficiale” del ’77 è molto parziale: non è mai veramente stata raccontata in tutta la sua complessità. Io ho trovato solo una tesi di laurea, scritta qualche anno fa, che fa una descrizione molto accurata dei fatti e riporta anche varie testimonianze. A parte questo caso, la memoria “ufficiale” dei fatti del marzo ‘77 è dunque parziale. La “contro-memoria” nasce da qui: da quegli agenti di memoria che hanno cercato di contrastare quel racconto parziale, cercando di dare voce a Francesco Lorusso come persona e non come “teppista” che ha attaccato un carabiniere. La “contro-memoria” ha allora contrastato la versione ufficiale e ha tentato, nel corso degli anni, di raccontare la storia dei fatti del ’77 da un altro punto di vista, recuperando quelle informazioni che possano meglio spiegare cos’è veramente successo. Questi agenti di memoria sono, in particolare, alcune componenti della comunità, i genitori, i compagni di Lorusso, i quali hanno tentato di contrastare la memoria “ufficiale” e fornire una versione più complessiva di quella storia e dei suoi protagonisti.
D: Tu parli anche di “un’amnesia collettiva” rispetto a quegli eventi. In che senso utilizzi questa categoria e a chi ti riferisci nello specifico?
R: Il concetto di “amnesia” riguarda un po’ tutti gli anni Settanta ed è un’espressione utilizzata in particolare da una ricercatrice inglese in riferimento al terrorismo e allo stragismo. Si tratta di fatti che non possono dirsi conclusi: molte stragi sono rimaste impunite e non ci sono state sentenze. Si è assistito quindi a una specie di rimozione che, però, non è stata risolutiva. Qualche anno fa, infatti, c’è stato un atto di violenza e tutto è riemerso, come una specie di fantasma che rimane lì sullo sfondo e ogni volta riappare.
R: Secondo te che cosa hanno comportato i fatti del ’77 e la morte di Lorusso per Bologna, la sua cittadinanza, le sue forze politiche?
D: Sicuramente quegli eventi hanno cambiato il rapporto del Partito Comunista con la città: sono arrivati i carri armati, le Forze dell’Ordine sono dovute intervenire; è stato un brutto risveglio per il PCI, che ha perso molto consenso soprattutto tra i giovani. E’ cambiata l’idea stessa che Bologna aveva di sé: dopo il fatti del ’77 diventa difficile continuare a descrivere Bologna come la città rossa per eccellenza, famosa anche all’estero per essere ricca e con un buon sistema di welfare. Tutto è cambiato: la morte di uno studente durante una manifestazione ha prodotto uno shock, non solo per il movimento studentesco o per la sua famiglia ma anche per la cittadinanza nel suo complesso.
D: Infatti, tu parli di “trauma” nel tuo libro…
R: Sì, i fatti del ’77 hanno lasciato un’impronta sulla città che non è mai sparita, una ferita che si è tentato di chiudere, ma che difficilmente può chiudersi senza la volontà di affrontare questo trauma. Dopo quei tragici fatti, ad esempio, il carabiniere che ha sparato a Lorusso è stato congedato in base alla Legge Reale, ma non c’è mai stato un processo, nemmeno un chiarimento dei fatti. Ci sono, per forza di cose, dei dubbi tra le persone più vicine a Lorusso, ma anche tra tante altre persone, come ad esempio alcuni intellettuali che, in seguito a quell’omicidio, hanno preso le distanze dal Partito Comunista. Ovviamente, non solo a causa di quelle vicende ma anche per la svolta politica che il PCI intraprese con il compromesso storico. Molti fattori hanno contribuito a creare quella rottura, però quella morte è stata l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso.
D: Tu affronti anche il tema della memoria del Partito Comunista rispetto a quegli eventi e la sua mutazione nel corso dei decenni. Ci vuoi dire qualcosa a questo riguardo…
R: I fatti del ’77 sono stati un trauma per il Partito Comunista che ha dovuto, nel corso degli anni, recuperare consenso. All’inizio c’è stata una reazione molto forte nei riguardi del movimento studentesco, poi negli anni Ottanta – anche perché probabilmente il PSI cominciava a crescere – il PCI ha fatto qualche passo indietro e ha cominciato non proprio ad assumersi delle responsabilità per quello che era accaduto ma comunque a cercare di ricuperare consenso, mettendo Francesco Lorusso sullo stesso piano delle vittime di terrorismo o di stragismo, ad esempio. Nell’87 il PCI partecipa ufficialmente alla commemorazione dell’11 marzo e l’allora Sindaco Imbeni esprime solidarietà nei confronti dei genitori. Si è dunque assistito ad una lenta appropriazione – almeno a livello locale – di quella memoria senza, però, aver riconosciuto i propri errori.
D: Come incide la cesura prima del’89 e poi della svolta della Bolognina rispetto a questo processo di riappropriazione della memoria della morte di Lorusso da parte del PCI?
R: Secondo me c’è stata una specie di liberazione, visto che non c’era più il Partito Comunista. In seguito, il PCI cambiando nome ha potuto prendere le distanze più facilmente dal peso di quella memoria, presentandosi come un nuovo partito. Non erano certo persone diverse, ma l’hanno inteso come un nuovo inizio e, proprio in quegli anni, i politici bolognesi hanno iniziato a prendere parte alla commemorazione dell’11 marzo, mentre prima era tutto una questione interna alla famiglia e al movimento studentesco.
D: Nel tuo libro parli anche di “trasferimento della memoria” del ’77, verso gruppi più recenti e che sono stati protagonisti delle lotte degli ultimi anni – penso ad esempio ai fatti di Genova 2001 e alla morte di Carlo Giuliani. In che senso c’è un parallelismo tra questi due eventi e quale relazione si instaura?
R: Intanto sono vicende simili, si tratta di giovani militanti uccisi dalle Forze dell’Ordine durante manifestazioni di piazza. Poi è un modo per appropriarsi di una memoria, che i nuovi militanti non hanno vissuto, ma che costituisce una parte della loro identità politica. Queste morti diventano delle specie di modelli, simboli e icone utilizzate per sentirsi parte di una storia. Servono ad agganciare la loro militanza a percorsi di lotta più lunghi e duraturi. Questo si è visto bene con il G8 di Genova. Infatti, dopo il 2001, le commemorazioni della morte di Lorusso hanno visto molta più partecipazione giovanile: c’è stato un nuovo contatto intergenerazionale fra i vecchi militanti di allora e i giovani attivisti di oggi.
D: Che metodo hai utilizzato per la tua ricerca, data l’assenza che richiamavi di fonti “ufficiali” e l’esiguità della storiografia sull’argomento. Come sei andata al di là di questa opacità delle fonti? Hai, ad esempio, utilizzato le fonti orali?
R: Ho utilizzato molto la stampa, i documenti dell’epoca e i volantini. Queste fonti però sono sempre parziali, come abbiamo visto. Si trattava di una storia non ancora scritta ed io ero interessata più alla memoria di questa vicenda, che ad una ricostruzione puntuale degli eventi. La memoria non è uguale per tutti e ognuno ha dei ricordi specifici. A me interessava capire cosa è rimasto di quella vicenda, quindi piuttosto che sulla verità fattuale mi sono concentrata sul ricordo contemporaneo e sull’impatto che quelle vicende hanno avuto nel costruire la memoria della città in tutti questi anni. Da tale punto di vista, la storia orale è l’ideale: parlando con le persone riesci a colmare dei buchi, riesci a far riaffiorare il ricordo, quello che è rimasto. Tutto questo emerge solo parlando con le persone che hanno vissuto quegli eventi.
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