A sessanta anni dalla nascita di Andrea Pazienza e a ottanta anni dalla nascita di Fabrizia Ramondino

| 30 Dicembre 2016 | Comments (0)

 

 

Il 2016 che sta terminando è anche l’anno che ci ricorda i 60 anni dalla nascita di Andrea Pazienza (nato nel 1956 a San Benedetto del Tronto) e  gli 80 anni dalla nascita di Fabrizia Ramondino (nata nel 1936 a Napoli). Andrea Pazienza è morto a 26 anni e  Fabrizia Ramondino a 72. Ricordo Andrea Pazienza  e Fabrizia Ramondino con due saggi scritti da Daniele Croci e Goffredo Fofi .

 

 

1. Daniele Croci: Zanardi , l’eredità del 77 e la dissonanza cognitiva

Fumettologica del 26 MAGGIO 2016

In occasione dei 60 anni dalla nascita di Andrea Pazienza, che ricorrono il 23 maggio, Fumettologica dedica al fumettista una settimana di articoli, interviste, ricordi e approfondimenti. L’iniziativa si può seguire sui social tramite l’hashtag

Il 16 giugno del 1988, moriva Andrea Pazienza. Una quindicina di giorni più tardi, io nascevo. No, non credo certo che i due fatti siano collegati in alcun modo. Ma quello che si può desumere da questa breve nota biografica è che io e Pazienza apparteniamo a due generazioni diverse. E che la sua opera ha per me – per quelli della mia età, e per i più giovani – un altissimo valore storiografico. Ha la capacità, in altre parole, di far rivivere un preciso momento storico, attraverso le immagini, le parole e i segni di un’Italia che non esiste più.

Di questo, però, si può dire di un po’ tutta la letteratura, arte, cinema – e ovviamente fumetto. La particolarità di Paz, così come degli altri ‘Cannibali’, consiste nell’aver fotografato un periodo storico di vitale importanza per il nostro paese e l’Occidente tutto: la controcultura, l’onda lunga del ’68, il movimento convulso ed eterogeneo del ’77, la Bologna del DAMS. La mia è nostalgia per procura, nei confronti un momento storico e artistico che non ho vissuto, per ovvi motivi anagrafici, e di cui sopravvivono i fumetti, i libri, le canzoni. Gli autori un po’ meno. Chi è morto giovane (Pazienza, Stefano Tamburini), chi meno giovane (Freak Antoni), chi c’è ancora ma è irriconoscibile (Giovanni Lindo Ferretti).

Apparso su Frigidaire nel 1981 con Giallo Scolasticoil liceale bolognese Zanardi è una delle più sorprendenti invenzioni di Pazienza. Inseparabile dai compagni di merende Colasanti e Petrilli, incarna il fascino di un übermensch dal vitalismo quasi dannunziano, privo di etica – o forse dotato di un’etica tutta propria – e dall’aspetto luciferino. In un’ormai celebre intervista a Linus nel 1981, Paz ne dettagliava la vacuità in termini tanto semplici quanto efficaci:

La sua caratteristica principale è il vuoto. L’assoluto vuoto che permea ogni sua azione.

Un personaggio enorme, che nel suo essere ‘altro’ e ‘oltre’ assume caratteristiche dal sapore conradiano. Come Kurtz supera le barriere della civiltà, addentratosi nel continente oscuro fino ad identificarsi col cuore nero dell’imperialismo occidentale, così Zanardi diventa il volto distorto della ribellione nichilista di fine anni settanta. Le analogie tra Cuore di Tenebra e Zanardi sembrano quasi essere suggerite dallo stesso Pazienza nella citazione che apre Giallo Scolastico: «Perché il freddo, quello vero, sa essere qui. In fondo al mio cuore di sbarbo». E non dimentichiamo il revival che ebbe il testo di Conrad nei primi anni Ottanta, a seguito dell’uscita del quell’“Apocalipsi Nau”, già oggetto dello sgangherato esame di semiotica al DAMS di un’ altra indimenticabile creatura pazienziana, Enrico Fiabeschi.

In una delle storie successive, Zanardi costringe il proprio demiurgo a una contorta e metatestuale folie à deux, quando nel racconto La prima delle tre creatore e creatura si incontrano in un cinema e finiscono per prendersi a pugni. Quella de La prima delle tre mi sembra una variazione esplicita del meccanismo narrativo che sottende le vicende di Zanardi, e che prendendo a prestito un termine proprio degli studi sulla sci-fi possiamo chiamare “straniamento cognitivo”.

 


L’espressione fu coniata da D. Suvin in Le metamorfosi della fantascienza (1979), riarticolando la nota verfremdungseffekt Brechtiana. Semplificando, descrive quel processo per cui la speculazione fantascientifica lavora attraverso l’inserimento di qualcosa di “nuovo” (una nuova tecnologia, razza aliena, dimensione spaziale) all’interno di un contesto tutto sommato possibile o verificabile. In altre parole, descrivere quello che dovrebbe essere ‘strano’ e ‘diverso’ come se fosse famigliare; e in questo modo, di riflesso, farci riflettere sulla nostra percezione del mondo ‘reale’.

Per quanto Zanardi sia tutto tranne che un testo di fantascienza, mi sembra che gli antieroi di Pazienza siano assimilabili a quel ‘nuovo’ di cui parlava Suvin. Ci viene descritto quindi un contesto realistico e conoscibile, la Bologna di quegli anni, all’interno del quale si muove una scheggia impazzita che non riusciamo a comprendere fino in fondo. E soprattutto, le vicende ci vengono narrate con una tale semplicità che quasi dimentichiamo l’efferatezza degli atti compiuti. Violenza, stupro, omicidio assumono la gravità di innocenti marachelle tra amici, anche quando sfociano nell’irrappresentabile: “Zanna colpisce l’impiccato con un mattone sulla testa” recita infatti la celebre didascalia che sostituisce la vignetta finale di Pacco. E proprio qui sta la dissonanza cognitiva, nel sapere che quello che stiamo leggendo è orribile, ma nel volerlo accettare con leggerezza e goliardia.

Nel 2002, quattordici anni dopo la morte di Andrea, esce il film Paz!. Il regista è Renato De Maria, al suo secondo lungometraggio, con un passato da videoartista e documentarista, più qualche esperienza su Frigidaire. Oggi, quattordici anni dopo l’uscita di Paz!, possiamo guardare alla pellicola come un esperimento, non perfettamente riuscito, comunque in grado di fotografare un’epoca. Di raccontarci quei giovani che non studiano, non lavorano, non guardano la TV, non vanno al cinema e non fanno sport. E, con qualche difficoltà, di tradurre su schermo del materiale decisamente resistente a ogni forma di trasposizione. È forse proprio nell’implicita ammissione dei propri limiti che risiede il valore principale dell’opera. Nell’aver infatti scisso cosa è possibile adattare su schermo (i luoghi, la musica, la sessualità libera pre-AIDS) e quello che non lo è (le volgarità, la violenza gratuita, l’eroina), ma di averci provato lo stesso.

Il film ha una struttura episodica, in cui tre diverse vicende si snodano e si sfiorano, senza mai sovrapporsi. Seguiamo così Pentothal, Zanardi e Fiabeschi nell’arco di una lunga, interminabile giornata Bolognese. Sembra paradossale, ma il film sembra funzionare meglio quando si distacca maggiormente dall’opera di Pazienza, ossia nella vicenda dello scapestrato Enrico Fiabeschi, interpretato dal bravo Max Mazzotta. Anche qui, però, la scena madre dell’esame al DAMS risulta una versione slavata e imborghesita dell’originale a fumetti, per ovvi limiti legati al contesto produttivo di riferimento. Con questo non voglio dire che un buon adattamento deve essere per forza fedele, per carità, ma che il problema principiale di Paz! consiste proprio nell’impossibilità manifesta di rappresentare la violenza e il disagio emotivo legato a un certo tipo di esperienza sociale.

Un po’ per tutto questo, un po’ per una prestazione attoriale poco memorabile, il nostro Zanardi è quello che ne esce peggio. La storia scelta è Giallo Scolastico, e mi sembra una scelta piuttosto obbligata. Le altre sarebbero state troppo: brevi, complesse, violente, metanarrative, oniriche (anche se metterci Zanardi Medievale avrebbe avuto un suo perché). Zanna è interpretato da un untissimo Flavio Pistilli (siamo dalle stesse parti di Foggy in Daredevil), che fatica a rendere la sfuggente malignità del modello fumettistico. Soprattutto, l’egoismo irrazionale che rende Zanardi grottesco prototipo del ‘riflusso nel privato’. Ma forse, di nuovo, più che di un limite di sceneggiatura e di interpretazione, possiamo parlare di un calderone narrativo assai poco adatto ad adattamenti e rimasticature. (Piccola nota da fanboy: non si sarebbe potuto scegliere Luca Marinelli? La sua fisionomia lo rende praticamente perfetto, e avrebbe inoltre avuto l’età giusta per interpretare Zanna).

La scena più riuscita del film si trova versi i tre quarti, quando uno spaesato Fiabeschi si aggira per il DAMS alla disperata cerca di una ‘canna’ (l’aspetto onirico dell’università occupata ma deserta, nonché la fisionomia di Mazzotta, mi hanno fatto venire in mente lo zio Teo di Amarcord). Salendo le scale, gli appare a mo’ di visione Giovanni Lindo Ferretti, che sta divorando una mela. Alla domanda “C’è nessuno qui?”, risponde “Ci sono io, che mastico, e medito nell’ombra”, per poi chiudersi in religioso silenzio.

È questa è l’eredità del ’77? Di quegli anni di contestazione, violenza, eccessi, ci rimane una scuola deserta, e uomo solo, con una mela, passato da Lotta Continua ad Atreju? Ci hanno davvero preso tutto? Non ho risposte a questi interrogativi. Quello che so è che almeno, tra gli altri, Pazienza resiste. La straordinaria vivacità della forma e dei contenuti lo rendono un autore tanto attuale quanto necessario, a ricordarci che una volta le cose si potevano fare diversamente. In quella zona d’ombra tra impegno politico e nichilismo, tra contestazione e autodistruzione, si muovono personaggi profondi e complessi, veicolo della straordinaria capacità di un autore di lavorare sulle potenzialità espressive del medium. Zanardi, Colas, Petrilli, ma anche Pompeo, Penthotal e tutti gli altri. Figure che finiscono per essere ben più del ritratto di un’epoca. Con buona pace dei miei – e nostri – voli nostalgici.

 

 

 

2. Goffredo Fofi: Sorella di tanti. Ricordo di Fabrizia Ramondino

Lo straniero 20 ottobre 2009

 

Il 26 giugno scorso è morta nel mare di Formia, colpita improvvisamente da ictus, all’età di 72 anni la nostra amica e collaboratrice Fabrizia Ramondino. A giudicare la sua opera letteraria, composta di romanzi e preferibilmente di racconti e divagazioni ai limiti dell’autobiografia e dell’inchiesta, o più semplicemente del resoconto fortemente poetico di “cose viste” e ragionate nel corso di una vita ben spesa, saranno in futuro molti, perché nel quadro della letteratura italiana degli ultimi decenni il nome di Fabrizia è centrale, per originalità e per profondità. Ma, come sappiamo tutti molto bene, il chiasso mediatico premia anzitutto chi vuol farsene premiare ed esclude anzitutto chi vuol farsene escludere… e certamente Fabrizia non amava il chiasso mediatico.

Ciò nonostante, aveva molti affezionatissimi lettori e lettrici, e nessuno che abbia mai letto una sua pagina potrebbe mettere in discussione l’originalità e la bellezza della sua prosa. Fabrizia era un’irregolare, ma nel modo in cui lo sono state le più grandi delle nostre scrittrici, Elsa Morante e Anna Maria Ortese, entrambe frequentate e amate da Fabrizia. Fui proprio io, se ben ricordo, a introdurla alla conoscenza personale di Elsa, ma fu lei a insistere con me, al tempo di “Linea d’ombra”, perché si rileggesse e prendesse in considerazione l’opera di Anna Maria, con la quale era in corrispondenza da tempo. Erano loro le sue principali maestre  in fatto di letteratura, anche se la sua cultura era vastissima e aveva saputo approfittare dei suoi vagabondaggi biografici, tra la Spagna dell’infanzia (in tempo di guerra: il padre era un diplomatico) e la Germania della prima gioventù (tra Machado e Rilke, potremmo dire), ed era anche una profonda conoscitrice di cultura francese e anglo-americana. Ma Morante e Ortese erano ben vive e con loro si poteva discutere e confrontarsi direttamente, non solo con la loro opera.

Ognuno ha molti maestri, ma alcuni sono più importanti di altri. Senza considerare che una scrittrice, in Italia, può trovare numericamente meno modelli tra le scrittrici di quanti non possa trovarne tra gli scrittori. Fabrizia non era peraltro semplicemente “una scrittrice”, e una grande scrittrice, è stata anche un’educatrice (e noi di “Lo straniero” ci gloriamo di aver ripubblicato ancora recentemente il suo bellissimo testo sulla storia dell’Associazione risveglio Napoli o Arn, “L’isola dei bambini”, esemplare per la fusione, in lei naturale e immediata, tra testimonianza e letteratura, anzi poesia).

Ed è stata una militante che, per esempio nel ’68, ha fondato e animato a Napoli uno dei gruppi più intellettuali e aperti, e quindi meno leninisti e più perdenti, il Centro di coordinamento campano, con il torinese Giovanni Mottura, venuto da Danilo Dolci e dai “Quaderni Rossi”, e con il calabrese Enrico Pugliese, venuto dall’Università di Portici e dall’insegnamento di Manlio Rossi-Doria. Diversamente da loro o molto più di loro, Fabrizia era anche una “populista”, una parola che non sempre è stata un insulto, quando un popolo con cui e per cui operare esisteva, ed era pieno di vitalità e di speranza. La sua matrice politica era in definitiva quella del socialismo più anarchico, e dell’anarchismo ella fu sempre attentissima studiosa e cultrice, tanto dei classici che delle figure contemporanee più rappresentative, che conobbe e frequentò da vicino, da Borghi a Capitini, da Cesare Zaccaria (che succedette a Errico Malatesta nella direzione di “Volontà” e che di Malatesta curò le opere, e fu però anche vicino ai gruppi dei Cemea e al Movimento di cooperazione educativa) a Carlo Doglio. Sul versante socialista, una sua importante maestra fu certamente Vera Lombardi, che è stata tra le più instancabili organizzatrici di gruppi di iniziativa politica e pedagogica nei quartieri di Napoli e che fu l’anima dell’Arn.

Si sarà capito che Fabrizia non era un personaggio facilmente classificabile, né sul versante politico né sul versante letterario, e che nel suo anarchismo confluivano tantissime acquisizioni dirette, di esperienza vissuta, e tantissime letture. Ma era proprio questo il suo fascino, in una diversità spesso sofferta e nevrotica quasi per obbligo – non nascondeva la sua “malattia”, l’alcol, dalla quale sapeva rapidissimamente risollevarsi ma nella quale altrettanto rapidamente poteva ricadere – e in una capacità straordinaria di mai arrendersi, di sempre ricominciare, e di essere estremamente attenta, pur nel suo disordine, ai grandi e ai piccoli mutamenti del mondo e delle persone, dalla parte degli oppressi. Ha scritto libri bellissimi su Napoli, il più incerto, ma non il meno affascinante dei quali è il romanzo sulla generazione del ’68 “Un giorno e mezzo”. Fui io a portare alla Feltrinelli la sua inchiesta sui disoccupati, che venne molto prima, e che è il suo primo libro, e quando Laura Gonsalez, sua e mia grande amica, mi mostrò i primi capitoli di “Althénopis”, la sua prima opera narrativa (una Napoli vecchia e anzi antica e non “neapolis” città nuova) le mie reazioni furono complicate: da un lato, di irritazione perché si era messa a far letteratura invece che dedicarsi all’inchiesta e alla politica; e dall’altro di entusiasmo perché scoprivo in Fabrizia una grande scrittrice, una vera scrittrice, in un’epoca in cui il movimento aveva decretato il disinteresse per la letteratura e l’arte, e lasciava loro le energie più fiacche, o ideologiche o secondarie.

Ha scritto molti libri assai belli, da allora, come “L’isola riflessa”, o “Passaggio a Trieste”, che è opera di gruppo, e altre opere composite, mai di rigida struttura, sempre nuove e “disponibili”. Eccelleva nel racconto – come in “Storie di patio” o in “In viaggio”. E a parer mio “Il calore” (Nottetempo) e “Arcangelo” (Einaudi) contengono alcuni tra i racconti più belli della nostra letteratura recente, e sono un ritratto formidabile e vario delle mutazioni meridionali del dopo ’68 – antropologiche ed economiche: dalla vecchia “questione meridionale” a una brutta modernità o post-modernità di nuove mafie e nuovi denari, ma su antichi scenarii di malgoverno. “La Via”, il suo ultimo libro, uscito in libreria nel giorno stesso della sua morte, vuole essere un romanzo, ma è in realtà un arazzo formato da tante storie che, come nella letteratura più lontana o nelle narrazioni orali orientali, molti personaggi raccontano a un narratore o si raccontano tra di loro. Riguarda il paese di Acraia, cioè Itri, dove Fabrizia si era trasferita a vivere da molti anni, e la Via è l’Appia, quella di un tempo e quella di oggi. Personaggi che sembrano favolosi e sono perlopiù ben veri, o hanno veri riferimenti, vengono al proscenio per riferire di vitali speranze e conflitti, di esperienze picare e variegate, di rispetto delle memorie e dei morti e di attenzione a un nuovo che sconcerta, in cui i vecchi vizi si sommano a nuovi, e più gravi, perché estranei ormai a un contesto di comunità e di verità.

Fino all’ultimo, Fabrizia Ramondino è stata al centro di una vasta rete di amici, di ogni ceto e di ogni paese. È stata sorella a tanti, e sarà molto difficile per tutti accettare di non averla più tra noi.

 


Category: Arte e Poesia, Fumetti, racconti ecc.., Guardare indietro per guardare avanti, Libri e librerie

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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