Stefano Rodotà: Perché non sia mai messa in discussione la dignità di chi lavora

| 18 Luglio 2012 | Comments (1)

L’intervento, rivisto dall’autore, del costituzionalista Stefano Rodotà, costituzionalista  nell’incontro organizzato a Roma il 9 giugno  dalla Fiom. Questo intervento è stato pubblicato in Inchiesta 176 aprile giugno 2012

 

Mi limiterò a ricordare delle cose che conoscete tutti, ma che è utile mettere insieme per avere chiaro il contesto all’interno del quale il grande tema del lavoro in questo momento si pone in Italia e non solo.

Ricordiamolo; quando si parla del lavoro non si parla di una parte della società, quando si parla del lavoro si parla di tutti noi, si parla di un valore fondativo, e quando è a rischio il lavoro o quando il lavoro è privato delle sue caratteristiche proprie – la libertà, l’eguaglianza, la dignità – stiamo mettendo in discussione i diritti di tutti.

Oggi questo è il tema: la democrazia, l’eguaglianza e la parola dignità che ricorre molto spesso. Vi prego di non ritenere che io voglia fare subito un esercizio di demagogia, ma sono abituato a parlare chiaro e per me la dignità ha da un po’ di tempo il volto di due intervistati nei giorni in cui si svolgeva il referendum a Mirafiori, i volti di due operai FIAT che dicevano: “Io voterò sì perché devo pagare il mutuo”; io voterò sì perché voglio che i miei figli studino”.

Quando una persona, non un lavoratore, viene obbligato a questo comportamento sono violate la sua dignità e la sua libertà.

Io ho guardato con grande  ammirazione a chi a Pomigliano prima ed a Mirafiori dopo ha votato no. Ma quei volti non li potrò dimenticare, sono i volti della dignità violata. Questo è un punto di partenza, ed è un punto di partenza che ci obbliga a guardare con un po’ meno di approssimazione quello che ci accade intorno.

In questi anni tutto ciò che era fuori dalla politica ufficiale è stato definito antipolitica. In parte era vero, ma c’è stato un errore analitico nel non comprendere che non tutto quello che veniva etichettato in questo modo era antipolitica- E forse c’è stata anche una convenienza ad etichettare tutto come antipolitica per non vedere che un’altra politica si stava manifestando in questo Paese, non era solo la politica della protesta, la politica movimentista in senso classico, ma era: a) la costruzione di una agenda politica; b) l’individuazione di soggetti capaci di incarnare questa agenda politica; c) infine, cosa importantissima, era una politica vincente.

Che cosa voglio dire? Tra la fine della seconda metà del 2010 e la prima metà del 2011 sono avvenute cose importanti in Italia. Vi è stato un risveglio civile, io dico che la Costituzione ha incontrato – forse per la prima volta nella storia repubblicana – spontaneamente il suo popolo, e anche da qui sono partite le grandi manifestazioni che conosciamo, quelle dei lavoratori, degli studenti, delle donne. Manifestazioni senza precedenti, perché in passato soltanto le grandi organizzazioni di massa – i partiti, i sindacati, la Chiesa – portavano decine o centinaia di migliaia di persone in piazza. Questa volta nella società sono avvenute cose assai significative, con risultati assai positive. Un movimento molto forte ha bloccato quella che si chiamava “la legge bavaglio” e che in Parlamento – devo dirlo con grande sincerità – non aveva trovato fino a quel momento convinta opposizione. Sono venute le elezioni amministrative dell’anno scorso,con successi che sono in gran parte il risultato di quel risveglio civile, sia nella scelta dei canditati sndaci – non lo dico con spirito polemico nei confronti in particolare del PD che ha visto bocciati i suoi candidati ufficiali, ma ha poi vinto le elezioni, e uquesto dovrebbe pure significare qualcosa. E vorrei ricordare Ilvo Diamanti ha analizzato quei dati sottolineando che non era mai avvenuta una mobilitazione spontanea così forte in occasione di una campagna elettorale amministrativa. E, approdo finale, la grande vittoria nei referendum del giugno dell’anno scorso.

Questa è un’altra politica, che ha fatto le sue prove; ha smentito l’idea che dai movimenti i partiti si debbano tenere lontani per non essere inquinati; e, soprattutto, è stata vincente.

Bersani che ha avuto un grande merito di schierare il Pd a favore di tutti e quattro i referendum, con una scelta sicuramente coraggiosa. Ora, però, dobbiamo porci un problema. Perché  quella novità della politica italiana è stata trascurata, degradata a fatto secondario, incapace di innervare una nuova fase politica? E perché alcuni di quei risultati tanto positivi sono stati messi in discussione, o addirittura si prendono provvedimenti che negano i risultasti referendari?

 

Il referendum sull’acqua e i beni comuni

Penso a quello che sta avvenendo sul tema dell’acqua. Il risultato del referendum chiaro è stato chiaro, ma in questo momento vi sono continui tentativi istituzionali di svuotarlo da parte del Governo, di molti comuni a maggioranza Pd. Si coglie così una incapacità politica di rendersi conto che qui, più che su altre questioni, si misura di nuovo la distanza dai cittadini che agiscono autonomamente con quella che hanno giustamente chiamato una obbedienza civile, rifiutando di versare quel 7% di profitto che è stato cancellato.

E’ aperto un problema, e c’è un’agenda politica individuata. A me piace molto che Pier Luigi Bersani compaia, quando deve fare una intervista, avendo alle spalle la scritta “Italia bene comune”. Ma il bene comune oggi è un grande tema che si articola in tutta una serie di questioni specifiche, come quelle dell’acqua e della conoscenza, come quelle dei beni pubblici che debbono essere valorizzati e possono essere fonte di utilizzazione economica importante non soltanto con la vendita. Ricordiamo che le privatizzazioni del passato sono oggi oggetto di una diffusa riflessione critica.

Ma da quell’altra politica è venuta pure una indicazione dal punto di vista istituzionale, perché quei movimenti e quelle iniziative hanno sempre scelto di avere una interlocuzione continua con le istituzioni, hanno scelto le vie istituzionali, hanno parlato con il Parlamento quando si trattava della legge sulle intercettazioni, hanno parlato con le istituzioni locali quando si è votato nelle amministrative dell’anno scorso, hanno parlato attraverso la voce del referendum. Nulla di aggressivo, dunque, nei confronti della politica, ma la politica ufficiale fa fatica a rendersi conto che bisogna prendere sul serio le due indicazioni venute dall’altra politica: l’indicazione di alcuni temi da mettere in cima all’agenda; le forme della partecipazione.

Adesso si parla tanto delle iniziative legislative popolari, ma da molto tempo alcuni di noi hanno posto l’accento sulla necessità di introdurre una sorta di obbligo del Parlamento di prenderle in considerazione.

Questo è un passaggio fondamentale. Se i cittadini che si impegnano, scrivono una proposta di legge, la firmano (e si può aumentare la soglia di cinquantamila), il loro sforzo non deve essere vano.

 

Democrazia rappresentativa e partecipazione diretta

Oggi abbiamo bisogno di capire come la democrazia rappresentativa debba essere integrata dalla partecipazione diretta. Se ne è accorta l’Europa con il Trattato di Lisbona, dove c’è un art.11 che consente ad un milione di cittadini europei di porre una questione alla Commissione Europea che deve rispondere. E se deve rispondere un organo che non è democratico, a maggior ragione debbono rispondere i parlamenti.

Lo dico sinceramente. Di fronte ad una realtà così ricca e innovativa, la proposta di riforma costituzionale licenziata dal Senato è vecchia, inutile e pericolosa, non raccoglie nulla del costituzionalismo del terzo millennio, zero.

Non possiamo restare attardati su quelle posizioni, perché altrimenti lasciamo spazio a imprese rischiose. E’ stata usata in questi giorni l’espressione “vogliamo l’iperdemocrazia”, che è parola che risale ad anni lontani, usata in modo critico, non voglio fare il professore, da Ortega y Gasset. L’iperdemocrazia è un grande rischio. L’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, me ne occupo da tanti anni, può dare risultati straordinari, ma da anni si è pure detto che la democrazia solo elettronica  può essere la forma del populismo del terzo millennio,  perché, quando si dice “tutto attraverso referendum”, in realtà si nega il valore della rappresentanza. Questo è il grande tema che abbiamo di fronte. Quando si nega il valore della rappresentanza politica, è chiaro che si svaluta poi anche la rappresentanza sindacale, come ci ha ricordato poco fa Landini. La legge sulla rappresentanza sindacale è un pezzo della costruzione della rappresentanza, non può essere staccata da tutto il resto.

 

Riforme costituzionali all’insaputa dei cittadini

In conclusione voglio indicare due questioni. La prima riguarda il fatto che   abbiamo avuto e rischiamo di avere ancora – permettetemi la battutaccia – riforme costituzionali all’insaputa dei cittadini.

La modifica dell’articolo 81 della Costituzione, con l’introduzione del pareggio di bilancio, è stata fatta senza una pubblica discussione che deve essere suscitata e alimentata in primo luogo dai partiti.  Sono un vecchio signore, non credo di essermi dimesso dalla politica –altrimenti oggi non mi avreste invitato oggi, e vi ringrazio enormemente –, me ne sono occupato in altro modo, ma non ho avuto mai lo spirito antipolitico, antipartitico, però i partiti sono quelli che hanno il dovere d’essere i protagonisti della discussione, perché la democrazia è anche governo in pubblico. A parte le valutazioni di merito, allora, non si può ammettere che le proposte di riforma costituzionale siano affidate solo a negoziazioni più o meno coperte e discusse in parlamento con continui colpi di mano. La Costituzione, ricordiamolo, non nasce nel vuoto e nel silenzio, ha le sue radici   nell’Assemblea Costituente investita solennemente dai cittadini.

Non voglio dire che l’attuale Parlamento machi del tutto di legittimazione per affrontare questi argomenti. Ma certamente tutti devono stare molto attenti e ricordare che, nel 2006, la Costituzione italiana è stata salvata dai cittadini, 16 milioni che hanno detto no alla riforma Berlusconi, all’interno della quale purtroppo discendono alcune delle proposte contenute nel testo oggi in discussione.

Aggiungo che l’articolo 8 del decreto dell’agosto scorso, lo hanno sottolineato Maurizio Landini e Umberto Romagnoli, ha avviato la privatizzazione del diritto del lavoro. La fine di un’epoca.

Quando la legge può essere messa da parte, cambia il valore del negoziato, riemergono le pure posizioni di forza. Il grande valore del negoziato, in tutte le sedi rilevanti politicamente, si fonda proprio sull’antica formula “negoziare all’ombra della legge”, che vuol dire che nessuno può far prevalere la legge del più forte. L’articolo 8 abbandona questo principio, e consuma una   rottura.

 

Due decreti inquietanti

Voglio aggiungere che vi è  un punto inquietante che connette il decreto Berlusconi dell’agosto dell’anno scorso ed il decreto “Cresci Italia” di quest’anno, ed è la svalutazione dell’art.41 della Costituzione. Questo articolo non è il frutto di una prepotenza della Sinistra, chi lo ha studiato sa che vi sono mani liberali nella sua stesura, che in esso si realizza un equilibrio molto delicato.

In quei due decreti, invece, l’art.41 viene riscritto dicendo che il valore di base è quello della competizione, della concorrenza, capovolgendo completamente il senso di quell’articolo in cui certamente si dice che l’iniziativa economica privata è libera, ma si sottolinea che non può svolgersi in contrasto con sicurezza, libertà, dignità umana.

Quanto erano lungimiranti i Costituenti, hanno messo la sicurezza prima ancora della libertà ed hanno detto “mai in discussione la dignità”.

E un’altra norma chiave che dobbiamo avere sempre davanti in questo momento, è quella dell’art.36 dove si dice che la retribuzione deve garantire l’esistenza libera e dignitosa.

Sono, queste, tra le parole più belle della nostra Costituzione – esistenza libera e dignitosa, dunque non il lavoro come merce, non il grado zero dell’esistenza, non la riduzione delle persone a postulanti del posto del lavoro. Questa, invece. È la drammaticità della situazione che stiamo vivendo.

Il tema dei diritti è quello che ci sostiene in questa fase difficile, un tema che è stato messo sullo sfondo. Molte cose ci dividono sul modo di intendere l’Europa. Ma, per esempio, è stato ricordato che, per il reddito di cittadinanza, nella Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, che ha ormai valore giuridico vincolante, si trova nell’articolo 34   un forte appiglio per affrontare questo tema.

Vogliamo ricostituire insieme questo tessuto, questa trama di diritti che è la trama dei diritti di tutti, perché il lavoro cade o regge soltanto se tutti siamo consapevoli, non solo a parole, che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

 

Trascrizione, rivista dall’autore, dell’intervento svolto nel corso dell’incontro pubblico del 9 giugno 2012 promosso dalla Fiom: “Il lavoro prende la parola (è ora di scegliere)”

Category: Lavoro e Sindacato

About Stefano Rodotà: Stefano Rodotà. Nato nel 1933 a Cosenza da una famiglia originaria di San Benedetto Ullano, comune della minoranza arbëreshë di Calabria, discende da una famiglia che ha annoverato, fra il XVII e il XVIII secolo, intellettuali e religiosi. Ha frequentato il liceo classico Bernardino Telesio nella città natale e successivamente l'università La Sapienza a Roma, presso la quale si è laureato nel 1955 in giurisprudenza, discutendo una tesi con il docente Emilio Betti, allievo di Rosario Nicolò. È fratello dell'ingegnere Antonio Rodotà ed è il padre della giornalista Maria Laura Rodotà, editorialista del Corriere della Sera. Nel 2008 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria dalla città di Rossano. Dopo essere stato iscritto al Partito Radicale di Mario Pannunzio, rifiuta nel 1976 e nel 1979 la candidatura nel Partito Radicale di Marco Pannella. È eletto deputato nel 1979 come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano, diventando membro della Commissione Affari Costituzionali. Nel 1983 viene rieletto e diventa presidente del gruppo parlamentare della Sinistra Indipendente. Deputato per la terza volta nel 1987, viene confermato nella commissione Affari Costituzionali e fa parte della prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Nel 1989 è nominato Ministro della Giustizia nel governo ombra creato dal PCI di Achille Occhetto e successivamente, dopo il XX Congresso del partito comunista e la svolta della Bolognina, aderisce al Partito Democratico della Sinistra, del quale sarà il primo presidente del Consiglio nazionale, carica che ricoprirà fino al 1992. Nell'aprile del 1992 torna alla Camera dei Deputati tra le file del PDS, viene eletto vicepresidente e fa parte della nuova Commissione Bicamerale. Nel maggio del 1992 in qualità di vicepresidente della Camera sostituisce il presidente Oscar Luigi Scalfaro alla presidenza del Parlamento convocato in seduta comune per l'elezione del presidente della Repubblica: Scalfaro, che prevedeva l'elezione al Quirinale, aveva infatti preferito lasciare lo scranno della presidenza. Nel 1994, al termine della legislatura durata solo due anni, Rodotà decide però di non ricandidarsi, preferendo tornare all'insegnamento universitario.Nel 2007 partecipa ad una Commissione Ministeriale istituita al fine di dettare una nuova più moderna normativa del Codice Civile in materia di beni pubblici. Questa commissione voluta da Clemente Mastella e presieduta da Stefano Rodotà ha presentato in Senato un disegno di Legge Delega che però non è mai stato discusso. Dal 1983 al 1994 è stato membro dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa. Sempre in sede europea partecipa alla scrittura della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Dal 1997 al 2005 è stato il primo Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, mentre dal 1998 al 2002 ha presieduto il gruppo di coordinamento dei Garanti per il diritto alla riservatezza dell'Unione europea. È stato inoltre componente del gruppo europeo per l'etica delle scienze e delle nuove tecnologie e presidente della commissione scientifica dell'Agenzia europea dei diritti fondamentali. Rodotà è stato votato, ma non eletto, durante l'elezione del presidente della repubblica italiana del 2013. Sul suo nome sono andati a convergere i voti del Movimento 5 Stelle (che lo ha proposto dopo una votazione in rete tra i suoi iscritti), di Sinistra Ecologia Libertà e di alcuni esponenti del suo partito (Partito Democratico) che, alla fine, ha preferito altre figure facendo rieleggere il presidente uscente, Giorgio Napolitano. In seguito ad alcune critiche del giurista alla conduzione dirigenziale del Movimento 5 Stelle è stato definito da Beppe Grillo "ottuagenario miracolato dalla rete" Il 29 novembre 2010 ha presentato all'Internet Governance Forum una proposta per portare in Commissione Affari Costituzionali l'adozione dell'articolo 21bis, che recitava: "Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale". Nei confronti del mondo di internet Rodotà ha assunto posizioni di tipo libertario, implementando le sue idee sui media in diversi ambiti quali: Internet Governance Forum dell'Onu, all'Unesco, al Parlamento europeo. Ha insegnato nelle università di Macerata, Genova e Roma, dove è stato professore ordinario di diritto civile e dove gli è stato conferito il titolo di professore emerito. Ha insegnato in molte università europee, negli Stati Uniti d'America, in America Latina, Canada, Australia e India. È stato professore invitato presso l'All Souls College di Oxford e la Stanford School of Law. Ha insegnato presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne e ha collaborato con il Collège de France. Ha ricevuto la laurea honoris causa dall'Università Michel de Montaigne Bordeaux 3 e dall'Università degli Studi di Macerata. È presidente del consiglio d'amministrazione dell'International University College of Turin. Fa parte del comitato dei garanti del Centro Nexa su Internet e Società del Politecnico di Torino.Dal 2013 è titolare del corso di Bioetica presso la Scuola di Studi Superiori dell'Università di Torino.Ultime sue pubblicazioni: Elogio del moralismo, Roma-Bari, Laterza, 2011; Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2012. La rivoluzione della dignità, Napoli, La scuola di Pitagora, 2013 È stato Presidente della Fondazione Lisli e Lelio Basso e dal 2008 dirige, in qualità di responsabile scientifico, il Festival del diritto di Piacenza. In campo editoriale ha diretto 'Il diritto dell'agricoltura' e dirige attualmente le riviste 'Politica del diritto' e 'Rivista critica del diritto privato'. Ha collaborato a diversi giornali e riviste, tra i quali Il Mondo, Nord e Sud, Il Giorno, Panorama, il manifesto, L'Unità. Collabora dalla fondazione con il quotidiano La Repubblica.

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