Piergiovanni Alleva: Contratti di solidarietà espansiva. In Emilia Romagna una proposta contro la disoccupazione

| 31 Gennaio 2017 | Comments (0)

Diffondiamo da Il Manifesto Bologna del 31 gennaioi 2017

L’idea che una riduzione importante dell’orario lavorativo settimanale possa consentire, da un lato, di “fare spazio” a nuove assunzioni e, dall’altro, migliorare le condizioni dei lavoratori già occupati sotto il profilo della conciliazione dei “tempi di vita” rispetto ai “tempi di lavoro” non è certo nuova ma, nel trascorrere degli anni non ha perso nulla del suo fascino, anche a causa della oggettiva constatazione della crescente velocità di sostituzione del lavoro umano con processi automatizzati.

Si consideri che nel nostro paese l’orario settimanale di lavoro dopo essere sceso, alla metà degli anni 70 dalle 48 alle 40 ore, si è poi cristallizzato su tale livello, visto che gli orari previsti dalla contrattazione collettiva di settore mai o quasi mai sono inferiori alle 37,5/38 ore, con l’ulteriore paradosso che a causa della “flessibilizzazione” delle regole d’utilizzo, pur essendo uguali o di poco inferiori al passato risultano “più invasivi” della vita privata e sociale delle persone. Nel frattempo, il tasso di disoccupazione è almeno raddoppiato, raggiungendo punte del 40% nelle giovani generazioni: in Emilia-Romagna, ad esempio, si contano 160.000 disoccupati, ma di essi la metà è costituita da persone con meno di 35 anni.

È allora doveroso riprendere il tema, evitando qualsiasi deformazione di tipo ideologico, e cominciare col segnalare come quella problematica sia incentrata in Italia, sul piano normativo, in uno specifico istituto detto “contratto di solidarietà espansiva” introdotto per la prima volta dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, recante misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali”.

Questa iniziativa legislativa vuole dunque riprendere quel tema – così come di recente l’ha ripreso il legislatore nazionale con l’art. 41 del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 148 “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”- con l’intento di correggere le vistose lacune della disciplina nazionale e di incentivare opportunamente l’uso dello strumento.

È opportuno o addirittura necessario, al proposito, partire da alcuni assiomi, il primo dei quali è dato dal carattere volontario, negoziato e contrattato che deve presentare, a nostro avviso, la riduzione d’orario dei lavoratori già occupati nell’impresa allo scopo della contestuale assunzione di nuovi lavoratori nello spazio così “lasciato libero”.

Il vero è – riteniamo – che quando si tratta di incentivare e promuovere nuova occupazione bisogna, per esperienza ormai consolidata, rifuggire da metodi cogenti, ossia dall’idea che l’imposizione di regole o divieti possa automaticamente produrre, per effetto meccanico, il risultato desiderato. Così ridurre ad esempio, per legge l’orario di lavoro legale massimo di un terzo, vietando contemporaneamente il lavoro straordinario, non significa affatto che le imprese automaticamente, di necessità, assumeranno un terzo di lavoratori in più potendo, invece, ricorrere a soluzioni diverse come ulteriore automazioni, riorganizzazione, esternalizzazioni, eccetera.

La garanzia del risultato viene invece solo dallo strumento contrattuale, che contiene soluzioni, raggiunte attraverso negoziazione, giuridicamente impegnative e “giustiziabili”, come dimostra, ad esempio, l’esperienza, negli anni novanta, dei contratti di formazione e lavoro, unico vero successo, fino ad ora, nei tentativi di incremento dell’occupazione giovanile.

Invero non fu la vantaggiosità teorica dei contratti individuali di formazione e lavoro a produrre risultati positivi ma il fatto che l’assunzione di giovani in formazione era pattuita in accordi sindacali aziendali, i quali garantivano, ab origine, l’assunzione della maggior parte dei giovani in formazione.

In questo senso la scelta del legislatore italiano del 1984 e poi del 2015 sul come organizzare il programma “lavorare meno lavorare tutti” è stata in sé felice, perché, appunto, il contratto di solidarietà espansiva altro non è che un accordo sindacale aziendale, che da un lato riduce l’orario dei già occupati ma dall’altro stabilisce da subito con certezza il futuro dei nuovi assunti.

La volontarietà, però, esiste anche in un secondo senso perché, nella nostra concezione, occorre il consenso non solo delle parti sociali ma anche dei singoli lavoratori potenzialmente interessati, e ciò supera in breccia ogni possibile protesta, obiezione o polemica circa i pur modesti sacrifici che il contratto di solidarietà espansiva può richiedere ai lavoratori già occupati: chi tra questi lavoratori non avverte, in cuor suo, i vantaggi e la giustezza della solidarietà può tranquillamente non aderire.

Il che non toglie, ovviamente, che occorra fare di tutto perché il sacrificio sia minimo e che quindi molti o moltissimi lavoratori apprezzino il vantaggio, a fronte di un sacrificio minimo, di avere molto più tempo libero per sé ed insieme di redimere la condizione di disoccupazione di tanti giovani.

Il secondo assioma dal quale ci sembra opportuno partire ha una caratteristica più “tecnica” e si riconduce all’esperienza per cui solo le riduzioni d’orario che investano non già l’orario giornaliero ma il numero di giornate lavorative della settimana producono un sicuro effetto occupazionale. Ridurre, ad esempio, di un’ora l’orario giornaliero tutti i giorni, non serve perché l’organizzazione aziendale sistematicamente reagisce con aggiustamenti che mantengono inalterata la produzione pur con un minor numero di ore lavorate. La “barriera” della giornata lavorativa non è, invece, facilmente superabile, ed invero l’introduzione negli anni ’70 della cosiddetta “settimana corta” con l’abolizione del sabato lavorativo, produsse un effetto occupazionale aggiuntivo innegabile ed addirittura vistoso.

Per altro verso, non è certo una mezz’ora o un’ora di anticipo nell’uscita dal lavoro che migliora sostanzialmente la vita delle persone, bensì l’avere “per sé” un giorno in più alla settimana, così da poter disporre di tre giorni su sette per la famiglia, per lo sport, per la cultura, per i contatti sociali, e tutto ciò significa un grande cambiamento in meglio della condizione esistenziale. Certamente questo effetto potrebbe anche essere ottenuto con un accordo individuale di riduzione a part time verticale dell’orario, ma un diritto ad ottenere una simile modifica non esiste nel nostro ordinamento ed esso allora può essere introdotto proprio dal contratto di solidarietà espansiva, in quanto accordo sindacale aziendale.

Concludiamo questa prima parte dell’illustrazione sottolineando quindi che se lo scopo principale del progetto di legge è di dare lavoro ai giovani, quasi altrettanto importante è però quello di migliorare le condizioni di vita di tutti quelli che, attraverso la riduzione del loro orario, rendono possibile l’incremento occupazionale.

 

1. Storia e attuale disciplina legislativa dei contratti di solidarietà espansiva. Il problema della compensazione della perdita salariale della riduzione d’orario

La disciplina legislativa del contratto di solidarietà “espansiva” risale a molto indietro, all’art. 2 d.lgs. n° 863/1984 che lo introdusse assieme al contratto di solidarietà “difensiva”, quasi a formare una coppia di Dioscuri.

Ricordiamo che con il contratto di solidarietà difensivo si fronteggiano le crisi occupazionali, nel senso che l’eccedenza di personale invece di essere “curata” con il licenziamento collettivo di parte dei lavoratori o con il loro collocamento in Cigs a zero ore, viene fronteggiata distribuendo fra tutti i lavoratori una riduzione di orario lavorativo di dimensioni contenute. Interviene allora la Cig per compensare una parte delle ore così perdute (ossia il 60%) sicché, in definitiva, resta un modesto sacrificio per tutti ma nessuno viene licenziato o escluso di fatto dalla produzione.

Anche nel contratto di solidarietà “espansiva” vi era e vi è una riduzione dell’orario di lavoro, distribuita fra tutti i lavoratori, ma non per rispondere ad una crisi produttivo-occupazionale dell’impresa ma per “far posto” a dei nuovi assunti. La produzione resta la stessa come il complessivo monte ore lavorato ma il numero dei dipendenti aumenta perché ognuno lavora di meno. Anche questa, ovviamente, è solidarietà ma rivolta prevalentemente all’esterno, verso i disoccupati.

Nei successivi trenta anni i contratti di solidarietà difensiva hanno conosciuto un costante e crescente successo mentre i contratti di solidarietà espansiva sono stati poco utilizzati, tanto che recentemente con l’art. 41 del dlgs n. 148/2015 (uno degli otto decreti attuativi del Jobs act) l’istituto è stato ridisciplinato e rifinanziato e poi la sua disciplina ancora integrata con l’art. 2 del decreto correttivo d.lgs. 24/09/2016, n. 185 “Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 15 giugno 2015, n. 81 e 14 settembre 2015, nn. 148, 149, 150 e 151, a norma dell’articolo 1, comma 13, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”.

Qual è stata però la ragione dello scarso utilizzo del contratto di solidarietà espansivo? certamente un’incertezza delle organizzazioni sindacali tra riduzione dell’orario giornaliero e riduzione delle giornate lavorative settimanali, ma soprattutto la quasi incomprensibile decisione del legislatore di non accordare alcuna compensazione retributiva ai lavoratori già occupati, il cui orario deve essere ridotto. Incentivi sono previsti per il solo datore di lavoro sotto forma di decontribuzione previdenziale per gli eventuali neo assunti, se giovani in età non superiore ai 29 anni, oppure un contributo economico triennale decrescente, (15%, 10% e 5%).

Però, come detto, il sacrificio richiesto ai lavoratori di cui si riduce l’orario non ha indennizzazioni e ciò spiega umanamente la ritrosia loro ed anche dei sindacati a spingere per la conclusione di questi contratti di solidarietà. Una compensazione appare necessaria e, tra gli scopi della presente legge, vi è appunto quella di definirne i modi e poi l’apporto, per più versi decisivo, dell’Ente Regione. Fermo restando, però, che è comunque necessario porre il problema non solo al livello regionale, ma anche a quello della legislazione nazionale, allo scopo di incrementare quanto più possibile, con un apporto anche della finanza centrale, il livello della compensazione e attraverso di essa dell’incremento occupazionale.

Si consideri la straordinaria importanza di una iniziativa che in sostanza ogni quattro posti di lavoro ne genera uno nuovo: in teoria se tutti i 2.000.000 di lavoratori dipendenti dell’Emilia-Romagna accettassero la riduzione di orario, i nuovi posti sarebbero 500.000 ossia il triplo del numero dei disoccupati che è di 160.000, ma se anche solo 400.000 lavoratori accettassero la riduzione si avrebbe il riassorbimento di tutta la disoccupazione giovanile e di buona parte di quella dei lavoratori più anziani ed è assolutamente sicuro che se la compensazione fosse completa, assolutamente tutti i lavoratori vorrebbero avere un giorno libero di più alla settimana a parità di salario, con relativo amplissimo effetto occupazionale.

 

2. Modalità e fattori di realizzazione della compensazione

Per illustrare nel modo più semplice la nostra problematica e le previsioni, poco numerose ma essenziali del progetto di legge, è utile esemplificare la questione assumendo il dato di uno stipendio mensile netto di euro 1.300, 00 con relativo potere di acquisto. Una riduzione dell’orario da cinque a quattro giornate ossia del 20% ridurrebbe di altrettanto il salario netto e il potere di acquisto, abbassandolo ad euro 1.040,00[1.300 – (20% di 1300,00)= 260,00].

Tuttavia, con il contratto di solidarietà espansiva che – si ripete – è un accordo sindacale aziendale, si stabilisce che il datore di lavoro garantisce al lavoratore che accetta la riduzione, un potere di acquisto di euro 1.200 (sicché la perdita salariale definitiva è solo dell’8%), il che, in teoria, significherebbe l’accollo a carico del datore della differenza di euro 160. L’accollo, però, è solo apparente in quanto la posizione del datore di lavoro verrebbe reintegrata attraverso il concorso di diversi fattori operanti a suo beneficio, quali: a) un salario di ingresso praticato ai neoassunti in grazia della riduzione di orario; b) l’utilizzo ai fini della compensazione dell’istituto di welfare aziendale comportante la fruizione e gli sconti sui benefits forniti; c) uno specifico contributo dell’Ente Regione.

Vediamo questi fattori separatamente:

  • a) Salario di ingresso dei neoassunti

    Si tratta di un istituto ormai generalizzato e che può essere utilizzato senza remore ideologiche, visto che lo scopo è quello di dare finalmente un lavoro a chi da troppo tempo lo ricerca invano e quindi può anche accettare per un periodo iniziale una compressione salariale.

    Lo scarto retributivo tra il salario di ingresso e le tariffe ordinarie si aggira, nei vari settori produttivi, sul 18-20%, ma, in ogni caso, i singoli accordi sindacali aziendali costituenti contratti di solidarietà espansiva potranno contenere, ai sensi dell’art. 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari”, una disciplina specifica, trattandosi appunto di accordi diretti all’incremento occupazionale, specificamente contemplati da detta legge.

    Si può dunque ipotizzare, per tornare al nostro esempio, che il datore di lavoro possa “recuperare” per ogni lavoratore neoassunto circa euro 240,00, risparmio redistribuito nella misura di euro 60,00 per ciascuno dei quattro lavoratori che hanno accettato la riduzione di orario.

  • b) Utilizzo del welfare aziendale

    È questo uno dei punti più innovativi e di maggior interesse anche politico. In tempi recenti e nella recente legislazione si è sviluppata una tendenza a compensare i lavoratori non solo con denaro, ma con l’attribuzione di beni e servizi, assistiti da un trattamento fiscale di favore, fenomeno conosciuto come welfare aziendale. Dopo l’art. 1, commi 182-184, della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”, l’istituto è stato coltivato con disciplina sempre più ampia e frastagliata dalle leggi di stabilità 2016/2017.

    Va detto che la tendenza è stata osservata con una certa perplessità e sguardo critico dalle organizzazioni sindacali che hanno ravvisato nel welfare aziendale un forte pericolo di aziendalismo e di perdita di controllo dei salari effettivi. Ma la presente proposta di legge costituisce un ottimo antidoto contro simili pericoli, perché utilizza il welfare aziendale per uno scopo comune e largamente condivisibile: quello della riduzione di orario congiunto a nuove assunzioni, così da porre sotto controllo e finalizzare correttamente questi nuovi strumenti.

    Ai nostri fini comunque è importante l’esistenza non solo e non tanto di benefici fiscali, ancora in via di definizione ed interpretazione, quanto la circostanza che i beni offerti e corrisposti attraverso il welfare aziendale hanno un dato valore per il lavoratore che dovrebbe comprarli al minuto, ma un costo minore per il datore che se li può procurare all’ingrosso attraverso convenzioni con i fornitori.

    Ed è questa la “leva” che consente al datore un ulteriore recupero sulla compensazione da lui accordata ai lavoratori che hanno accettato la riduzione di orario. Per illustrare il semplice meccanismo si può riprendere l’esempio di poco sopra e quindi ipotizzare che il potere di acquisto di euro 1.200 assicurato al lavoratore sia realizzato con l’attribuzione, attraverso voucher o buoni di acquisto, di euro 400,00 da spendere presso catene di grande distribuzione commerciale e di euro 800,00 in denaro.

    Una spesa di euro 100 settimanale presso la grande distribuzione si può ritenere assolutamente normale per ogni famiglia. Si tratta, allora, di sapere quale sconto il datore di lavoro potrebbe ottenere (da solo o, meglio, consorziato con altri) tramite convenzione con catene di distribuzione commerciale. Allo scopo si è provveduto ad interpellare una delle maggiori, che ha annunziato la disponibilità ad uno sconto del 15 %, quando si tratti di grandi quantità, come sicuramente accadrebbe nella “campagna” di negoziazione e conclusione dei contratti aziendali di solidarietà espansiva.

    Ciò comporterebbe un recupero per il datore di lavoro di ulteriori euro 60 (15% di 400) sulla compensazione assicurata ai lavoratori che hanno accettato la riduzione di orario.

    Ovviamente il risparmio sarebbe proporzionalmente più alto se quel potere di acquisto di euro 1.200 fosse realizzato attraverso una quota di voucher o titoli rappresentativi maggiore, ad esempio di euro 800 vicino ad una quota in denaro di euro 400, perché allora il “recupero” per il datore sarebbe doppio ossia di euro 120 (15% di 800). Preferiamo però attenerci ad ipotesi prudenziali, fermo restando che il rapporto e la quantità fra le due quote costituisce materia tipica del merito dei vari contratti aziendali di solidarietà espansiva.

  • c) Contributo regionale

    Alla Regione spetta, secondo il progetto, un ruolo importantissimo di dinamizzazione e mediazione tra le parti sociali per la stipula dei contratti di solidarietà, come espressamente previsto nell’art. 4 della legge, ma anche – e giustamente – l’onere di una contribuzione, che costituisce il “terzo fattore” del recupero sulla compensazione di euro 40 mensili per ogni lavoratore che ha accettato la riduzione di orario.

    Ciò significherebbe un costo annuale di 520 euro (40×13) per ognuno dei quattro lavoratori aderenti alla riduzione di orario. Dunque per dare occupazione a 10.000 giovani gli aderenti alla riduzione di orario dovrebbero essere 40.000 con un onere finanziario da parte della Regione di 20, 8 milioni di euro, come da scheda tecnica. Ovviamente, ove il bilancio della Regione lo consenta, le quantità potrebbero essere più alte.

Come si vede, sommando, i tre fattori A), B) e C), nei rispettivi valori di 60+60+40, il datore di lavoro ottiene il recupero totale per il datore di lavoro della compensazione di 160 euro che ha corrisposto al lavoratore. Quest’ultimo in questo modo recupera a sua volta 160 euro su 260 ottenendo così una compensazione al 61% della differenza salariale; nel concreto nella settimana di 4 giorni presta l’opera per poco più di 30 ore, ma viene remunerato per 35.

 

3. Profili previdenziali

Ogni riduzione di orario in quanto non avvenga a completa parità di salario comporta una problematica di tipo previdenziale data dalla conseguente diminuzione del futuro trattamento pensionistico. La questione riguarda in generale tutti contratti di lavoro a part-time per i quali è consentito o il versamento di contributi volontari a ripiano della differenza, ovvero, retroattivamente, del riscatto dei periodi di versamento ridotto. Esiste però anche la possibilità di riconoscimento di contributi figurativi da parte dell’INPS, soluzione che non comporta oneri né per il lavoratore né per il datore di lavoro.

L’accredito di contributi figurativi relativi all’intera riduzione di orario è stata prevista anche per i contratti di solidarietà dall’art.5, comma 5, della legge 19 luglio 1993, n. 236 “Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 20 maggio 1993, n. 148, recante interventi urgenti a sostegno dell’occupazione”, ma è discusso se si tratti dei soli contratti di solidarietà difensivi o anche a quelli espansivi. A questi ultimi si è invece riferito espressamente l’art.1, comma 285, della L.208/2015 (legge di Stabilità 2016), prevedendo che la contribuzione differenziale possa essere versata dai datori di lavoro o dagli Enti bilaterali o da fondi di solidarietà di futura istituzione nei casi in cui tale contribuzione non venga riconosciuta dall’INPS.

Non esiste, pertanto, sull’argomento la necessaria chiarezza normativa perché, a nostro avviso, non viene precisato quali sarebbero i casi di contribuzione figurativa riconosciuta d’ufficio dall’INPS e quali sarebbero invece quelli in cui è consentito soltanto il versamento volontario, ma oneroso, dei datori di lavoro o degli Enti bilaterali. Ovviamente la soluzione da patrocinare è quella della contribuzione figurativa da parte dell’INPS, ma se così non fosse le associazioni datoriali e dei lavoratori, che sono partner negli enti bilaterali, dovrebbero coinvolgerli nel processo di stipula dei contratti aziendali di solidarietà espansiva.

Rivendicazione da parte dell’Ente Regione di necessarie modifiche alla normativa nazionale

Questo progetto di legge parte dalla necessità ma anche dalla possibilità di fare qualcosa di importante, qui e ora, per dare una risposta al dramma della disoccupazione giovanile, utilizzando, per così dire, risorse locali. La lacuna gravissima della disciplina nazionale dei contratti di solidarietà espansivi, costituita dalla non-previsione di una compensazione può essere colmata fino ad un 60% circa con i metodi e accorgimenti poco sopra illustrati, ma ciò non toglie che lo scopo politico ulteriore sia quello di pervenire ad una compensazione totale, premessa ad una riduzione stabile e generalizzata dell’orario lavorativo settimanale a parità di salario.

Dalla nostra Regione, in altre parole, può venire l’idea e l’esempio, ma ciò non esonera affatto il legislatore nazionale dal fare la sua parte, visto che quello del riassorbimento della disoccupazione giovanile è un problema di dimensioni nazionali.

Già dal giorno successivo alla entrata in vigore della legge che si propone, bisognerebbe cominciare a premere per il “completamento dell’opera”, per così dire, oltre che per la sua estensione all’intero territorio nazionale.

Questa configurazione a “due stadi” del programma di riduzione generalizzata dell’orario e di connesso riassorbimento della disoccupazione risponde ad un evidente criterio di opportunità e fattibilità politica. Invero la semplice nuda pretesa di una modifica migliorativa della legge nazionale rischierebbe di risultare velleitaria e di incerto risultato, se non giustificata dalla già avvenuta realizzazione, come “primo stadio” dell’intero programma, di accordi scaturiti nei territori dal sistema di relazioni economico-sociali e sindacali ivi esistenti e finanziati con risorse locali.

A quel punto la richiesta di un apporto della finanza centrale per aumentare la compensazione salariale sarebbe giustificatissima perché maggiorazioni anche modeste della percentuale di compensazione rispetto a quella raggiunta con gli accordi regionali avrebbe un effetto positivo non lineare ma addirittura esponenziale sul numero dei lavoratori accettanti la riduzione di orario. È lapalissiano, ci sembra, che portando la compensazione, grazie ad ulteriore apporto della finanza centrale, all’80% o al 90% (rispetto al 61% del nostro esempio) tutti i lavoratori vorrebbero il beneficio e l’effetto di incremento occupazionale potrebbe riassorbire la quasi totalità della disoccupazione.

 

 

Questo testo è la premessa al progetto di legge di iniziativa del consigliere regionale Piergiovanni Alleva, del Gruppo assembleare L’Altra Emilia Romagna, Misure per il riassorbimento della disoccupazione tramite la promozione di contratti di solidarietà espansiva

 

Category: Economia solidale, cooperativa, terzo settore, Lavoro e Sindacato, Osservatorio Emilia Romagna

About Piergiovanni Alleva: Piergiovanni Alleva (Ascoli Piceno 1946). Laureato in Giurisprudenza presso l'Università di Bologna dove è stato allievo del prof. Federico Mancini. Professore ordinario di diritto del lavoro, ha insegnato nelle università di Bologna e Ancona dove ha pubblicato una rilevante mole di articoli e saggi giuridici. Già consigliere CNEL e componente di diverse commissioni ministeriali. Responsabile della consulta giuridica della CGIL, organismo di cui si avvale il Sindacato composto da 40 giuslavoristi italiani. In qualità di esperto giurista del lavoro, collabora con alcuni dei quotidiani nazionali vicini alla sinistra politica. È stato candidato alle elezioni politiche del 2013 al Senato in Campania per la lista Rivoluzione civile. Il 4 marzo 2014 è entrato nelle liste della coalizione elettorale 'L'Altra Europa con Tsipras' per le elezioni europee. E' capolista per "L'altra Emilia Romagna" nelle elezioni regionali di fine 2014.

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