Maurizio Landini intervistato da Tommaso Cerusici sulle sfide che ha di fronte la Cgil
Diffondiamo da Inchiesta a stampa 201, luglio settembre 2018, l’intervista fatta a Maurizio Landini da Tommaso Cerusici
D. Quali novità mette in campo questo congresso? Parlo esplicitamente di novità visto che, a differenza di quelli del 2010 e 2014, si sta andando verso una costruzione unitaria del percorso congressuale…
R. In primis sicuramente quella di allargare la partecipazione attraverso il metodo di costruzione delle proposte. Per la prima volta nella nostra storia non è una commissione politica nazionale di 50 persone che decide le linee di discussione per delegati e iscritti, ma si è definita una traccia che è stata poi sottoposta alla discussione e alle eventuali proposte e modifiche del gruppo dirigente diffuso, cioè alle assemblee generali delle categorie ad ogni livello: territoriale, regionale e nazionale. Questo ha determinato che circa 20.000 persone, cioè il gruppo dirigente diffuso – di cui la maggioranza delegati in produzione – ha potuto prima conoscere e poi discutere le proposte che la Cgil intende mettere in campo. Questo è sicuramente un processo democratico e importante che ha riscontrato un consenso molto diffuso. Credo non debba rimanere semplicemente un metodo utilizzato per il congresso ma che possa invece diventare lo strumento con cui – per esempio annualmente – verificare e definire quello che si sta facendo territorio per territorio, così come le azioni dell’organizzazione e le pratiche contrattuali. Siccome uno dei punti di fondo di questo congresso è quello di riunificare il mondo del lavoro, di combattere le diseguaglianze attraverso un’estensione della contrattazione, noi parliamo esplicitamente di contrattazione inclusiva, proprio per indicare che tutte le forme di lavoro devono essere coinvolte dall’azione del sindacato. Questo vuol dire anche avere momenti e luoghi di discussione, che non siano semplicemente di categoria o confederali, ma che tengano conto di tutte le differenze che sono presenti dentro al mondo del lavoro. Queste differenze devono avere la possibilità di esprimersi, di potersi rappresentare, ricercando però una sintesi comune che metta in campo un’azione inclusiva proprio perché riguarda tutti. Costruire solidarietà e allargare la partecipazione alle decisioni: questi sono gli obiettivi che ci siamo dati, aggiornando anche le nostre pratiche democratiche interne. Lo facciamo proprio perché vogliamo dare un futuro alla nostra Cgil. Le proposte che arriveranno dai luoghi di lavoro – il 20 giugno sono iniziate le assemblee di base e andranno avanti fino al 7 ottobre – serviranno a dare voce a tanti delegati e a farli riconoscere nelle proposte complessive che emergeranno. Noi ci auguriamo che questo determini anche un allargamento vero della partecipazione degli scritti e una preparazione da parte di tutti quando si arriverà a fare le assemblee nei luoghi di lavoro.
D. Come valuti il documento congressuale che si sta discutendo già da alcuni mesi? E quali sono i punti più salienti?
R. Nel documento “Il lavoro è” giudichiamo importanti le scelte fatte negli ultimi anni, come il “Piano per il lavoro” e la presentazione al Parlamento della “Carta dei diritti”, cioè per un nuovo statuto di tutti i lavoratori, ma anche le battaglie fatte contro il Jobs Act, la Buona Scuola e che ci hanno portato a raccogliere le firme per i referendum. Noi pensiamo che siano state tutte scelte giuste e rappresentino la base da cui ripartire nei prossimi mesi. Affermare tutto questo, la volontà di riaprire una fase di contrattazione nel nostro Paese e il bisogno di un cambiamento nel modo di agire e di lavorare della Cgil, sono – dal mio punto di vista – le condizioni per cui si è giunti a un congresso unitario. Non è un’unità semplicemente tra dirigenti ma è la possibilità di fare un congresso unitario perché parte da una base comune, da un’esperienza comune di lavoro e di scelte, alcune anche straordinarie. Perché non era mai successo nella nostra storia che si decidesse, attraverso una consultazione straordinaria delle iscritte e degli iscritti alla Cgil, di essere soggetti promotori di referendum per abrogare scelte fatte dal Governo e dal Parlamento. Nella nostra tradizione noi eravamo quelli che rivendicavano buone leggi e che chiedevano di applicare la Costituzione dentro i luoghi di lavoro. Non eravamo mai arrivati a utilizzare direttamente lo strumento del referendum ed è evidente che questo ha rafforzato il nostro ragionamento sull’autonomia. Se le leggi che vengono fatte sono contro il lavoro, non c’è Governo “amico” o “nemico” che tenga, ci sono solo le persone che rappresentiamo – lavoratori, precari, pensionati – e abbiamo il dovere come Cgil di batterci, con ogni mezzo democratico, contro l’applicazione di quelle leggi. E nel farlo dobbiamo mettere in campo tutti gli strumenti di partecipazione e attivazione sociale di cui siamo capaci, tra gli iscritti e nel mondo del lavoro in generale, oltre naturalmente ad agire la nostra azione contrattuale.
D. Vorrei partire, nell’analisi del documento congressuale, dal piano europeo. Mi sembra sempre più evidente una necessità di scatto in avanti sul piano sindacale in tal senso…
R. Certo. Innanzitutto noi diciamo che sul piano europeo c’è un tema centrale: vanno rimessi al centro il lavoro e le persone che per vivere devono lavorare. Bisogna cioè rimettere al centro un’idea di giustizia sociale, e quindi di nuovo modello sociale ed economico, contrastando quella cultura che ha messo al centro la finanza e il mercato e che ha prodotto le politiche europee degli ultimi decenni, per cui qualsiasi vincolo sociale era un vincolo da cancellare perché impediva il libero mercato. Nel dire questo affermiamo anche che la dimensione, perlomeno europea, dell’azione del sindacato è il nuovo livello minimo da cui partire. Questo significa affermare che alcuni Trattati vanno rivisti, che la BCE deve avere una funzione diversa da quella attuale e cioè non dovrebbe essere solo un soggetto che si occupa della difesa dell’inflazione ma dovrebbe invece avere a cuore la crescita dell’occupazione. Questo pone il tema di un diverso sistema di finanziamento e d’investimenti pubblici, fino ad arrivare alla ricostruzione di un quadro comune dei diritti del lavoro, di una legislazione fiscale comune in Europa. Oggi invece assistiamo a una competizione tra le lavoratrici e i lavoratori – basti pensare a tutto il fenomeno delle delocalizzazioni – ed è evidente che questo avviene perché ci sono trattamenti contrattuali e legislativi diversi tra Paese e Paese. È assurdo pensare che un’azienda che in Italia ha preso soldi pubblici possa decidere di chiudere e andare a lavorare in un altro Pese, magari accedendo anche lì a forme di finanziamento pubblico o sgravi fiscali. Oggi abbiamo la necessità impellente di costruire davvero un sindacato europeo, che non sia semplicemente la somma dei sindacati nazionali ma che si grado di avere anche un ruolo politico e di contrattazione. Questo si può fare se i singoli sindacati nazionali rinunciano ad alcune loro sovranità per affermare un quadro più ampio. So che non sarà semplice ma questa sfida bisogna coglierla.
D. Nel documento si pone anche grande attenzione alla necessità di allargamento della rappresentanza ai “nuovi” lavori, ad esempio a quelli prodotti dalla gig economy e si giunge fino alla richiesta di un reddito minimo. Mi sembrano entrambe due novità consistenti nell’approccio anche teorico da parte della Cgil. Che ne pensi?
R. Rimettere al centro il lavoro vuol dire combattere le diseguaglianze che si sono affermate negli ultimi anni e che hanno determinato una situazione di peggioramento delle condizioni materiali delle persone. Dobbiamo riaffermare un nuovo diritto del lavoro in cui tutte le persone che lavorano – siano dipendenti, precari, autonomi – abbiano uguali diritti, per impedire la competizione tra i lavoratori. E questo vuol dire anche che noi come sindacato dobbiamo cambiare: dobbiamo riorganizzarci sia a livello categoriale che di confederazione e ci dobbiamo aprire davvero a tutte le forme di lavoro. Questo ha significato, nella nostra discussione, affrontare anche il tema del reddito minimo. Fermo restando che per noi l’obiettivo rimane creare e garantire un lavoro con diritti per tutti, pensiamo che assieme ad piano straordinario d’investimenti pubblici vadano messe in campo forme strutturali di sostegno al reddito, per combattere la povertà e la precarietà. La proposta che noi avanziamo si articola in tre livelli: 1) il reddito d’inserimento deve essere esteso oltre le forme attuali, perché lo consideriamo uno strumento fondamentale per combattere la precarietà e le povertà dilaganti, che interessano già 4,5 milioni di persone in Italia; 2) ribadiamo la necessità di affermare un sistema universale di ammortizzatori sociali e proponiamo che tutte le imprese, dalle più piccole alle più grandi – proprio come fanno i lavoratori – paghino un contributo per la cassa integrazione e per i contratti di solidarietà, che potranno così finalmente diventare strumenti utilizzabili da tutti; 3) avanziamo la proposta di introdurre nel nostro Paese un reddito di garanzia e di continuità, perché se, ad esempio, una persona lavora 6-8 mesi all’anno e non riesce a trovare altro, ma è disponibile al lavoro, alla formazione ed è iscritto le liste di collocamento, nei periodi di non lavoro deve comunque avere una copertura.
D. Veniamo al capitolo pensioni, sanità e welfare…
R. Nel documento riaffermiamo l’obiettivo di cambiare la legge Monti-Fornero sulle pensioni, rafforzando anche gli investimenti in sanità pubblica, e introduciamo la necessità di una diversa contrattazione aziendale e territoriale sui temi del welfare integrativo. Per noi si deve rafforzare questo carattere d’integratività rispetto al sistema pubblico, in modo che le azioni che vengono messe in campo, sia nei contratti nazionali che in quelli aziendali, siano in grado di affermare i nuovi bisogni.
D. Ho letto con grande interesse anche un altro passaggio del documento congressuale, cioè quello che tratta della riduzione dell’orario di lavoro. Mi puoi spiegare meglio?
R. Certo. Per puntare alla piena occupazione, bisogna riaprire un’iniziativa e un dibattito sul tema degli orari di lavoro. La scelta della Cgil è quella di andare verso una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario con la novità – che non è semplicemente il classico schema che si poteva usare trent’anni fa e cioè la riduzione d’orario uguale per tutti – di una riduzione effettiva ma diversificata che tenga conto della pesantezza del lavoro e della sua organizzazione (ad esempio il lavoro notturno o il fine settimana). Dentro questo ragionamento affermiamo anche che un pezzo di attività lavorativa deve diventare diritto alla formazione permanente. Dobbiamo rimettere al centro i bisogni delle persone, cioè dare la possibilità di scegliere le modalità di gestione degli orari di lavoro, perché basta pensare a tutti i part-time involontari in cui l’orario ridotto viene imposto e ciò significa anche minor salario. Allora dobbiamo avere la capacità non solo di contrattare l’orario, la sua rimodulazione e riduzione, ma anche aumentare la paga oraria, avendo come obiettivo la ridistribuzione del lavoro, sapendo che la rivoluzione tecnologica e digitale crea un aumento della produttività che per noi va ridistribuita in questo modo.
D. Veniamo a un punto che – immagino – come ex segretario della Fiom avrai molto a cuore e che, negli scorsi anni, non hai mai smesso di denunciare: l’assenza di vere politiche industriali nel nostro Paese. Su questo punto cosa prevede il documento?
R. Noi diciamo che c’è bisogno in modo molto esplicito di far ripartire gli investimenti, sia privati che pubblici, e di rivedere il sistema di finanziamento a pioggia che è stato dato alle imprese negli ultimi anni. Ma diciamo anche che c’è un’emergenza, che è il Mezzogiorno, e quindi chiediamo un piano straordinario d’investimenti che rilanci le infrastrutture sia materiali che immateriali e che serva a tutelare il territorio. Pensiamo che per gestire un processo di questa natura serva una nuova strumentazione, attraverso la costruzione di un’agenzia per lo sviluppo del nostro Paese che dia indirizzo e coordinamento tra i vari soggetti in campo. Questo vuol dire ripensare anche al ruolo di Cassa Depositi e Prestiti. Dobbiamo rimettere al centro la qualità delle produzioni e la sostenibilità ambientale di quello che si produce – la cosiddetta economia circolare – perché va affermata una nuova cultura. Non possiamo più ragionare solo d’investimenti per dare lavoro, ma dobbiamo discutere anche di che tipo di prodotto e di che tipo di lavoro mettiamo in campo, in chiave di cura del territorio, di qualità del lavoro, di qualità dei servizi e di welfare territoriale universale. Ciò significa che il termine “politiche industriali” deve avere un valore coerente con i diritti sociali e di cittadinanza delle persone e come elemento qualificante dello sviluppo del Paese e della sua sostenibilità sociale. E la crescita dell’occupazione si realizza anche attraverso un piano straordinario di aumento dei posti di lavoro stabili nei servizi pubblici e di crescita della loro efficacia e qualità.
D. Veniamo al capitolo Industria 4.0, cioè la cosiddetta quarta rivoluzione industriale. Si tratta di una sfida da cogliere per il sindacato? E una sfida su che basi?
R. La tecnologia non è neutra e quindi questo processo di grande trasformazione che è in atto, con l’arrivo del digitale, e che riguarda tutti i settori produttivi, dalla logistica, all’industria, alla sanità, al bancario, sta trasformando tutto in prodotto, compresi i servizi. Questo determina un doppio problema per noi: da un lato questo processo ridetermina e fa saltare i vecchi perimetri su cui sono nate le categorie e su cui si è costruita la Cgil, rendendo evidente la necessità di ridurre il numero dei contratti e di fare in modo che i contratti rappresentino tutti i lavoratori e le lavoratrici che concorrono alla realizzazione di un determinato prodotto; dall’altra parte pone il problema di incentivare forme di partecipazione e di contrattazione, attraverso una contrattazione d’anticipo che rivendichi un modello di relazioni sindacali in cui si conoscano in anticipo e si possano discutere le scelte aziendali e i modelli organizzativi, fino ad arrivare ad una sperimentazione – a partire proprio dall’Articolo 46 della Costituzione – sulle forme di partecipazione da parte dei lavoratori alla vita dell’impresa e che si affianchi alla normale contrattazione sindacale.
D. In questi anni, a partire da quanto accaduto in FCA, si è assistito ad un attacco generalizzato al contratto nazionale e al ruolo del sindacato confederale. Come si tengono insieme le sperimentazioni di cui parlavi adesso con una realtà fatta anche dal cosiddetto “modello Marchionne”?
R. Di fronte a ciò che ha fatto FCA in questi ultimi anni, di fronte agli accordi separati, essere riusciti a mantenere nel nostro Paese un sistema contrattuale basato su due livelli (nazionale e aziendale) ci sembra una cosa importante e significativa. Io aggiungo anche che non era scontato. In questo contesto per noi il ruolo del contratto nazionale rimane molto importante e nel documento si dice esplicitamente che occorre assumere l’obiettivo di un aumento del potere reale dei salari attraverso la contrattazione nazionale, oltre che agire sulla leva fiscale. Dentro questo schema si affronta anche la questione di come estendere la contrattazione di secondo livello, che non è alternativa alla contrattazione nazionale, ma che indubbiamente riguarda una minoranza di aziende nel nostro Paese. In tal senso dobbiamo sperimentare anche forme di contrattazioni inclusive, che ricostruiscano l’unità dei lavoratori nel medesimo luogo di lavoro e lungo tutta la nuova filiera produttiva che si determina. Oggi partiamo da una realtà in cui prevale la frammentazione e la presenza sotto lo stesso tetto di contratti diversi.
D. Proprio pensando a FCA e partendo dalla divisione sindacale che si era creata (e che tuttora persiste con la firma del CCSL) vorrei un tuo commento anche sulla ricostruzione dell’unità d’azione con Cisl e Uil. La consideri una necessità?
R. L’unità del movimento sindacale in questi anni ha senz’altro subito una battuta d’arresto e in questo contesto noi diciamo che ci sono due elementi che devono stare assieme: 1) la rappresentanza e la sua misurazione, fino ad arrivare ad un provvedimento di legge che garantisca ai lavoratori il diritto di votare i loro delegati e i loro accordi, stessa cosa la immaginiamo anche per le associazioni delle imprese, di cui vogliamo sapere l’effettiva rappresentatività; 2) c’è il tema della democrazia e delle regole che permettono alle persone di votare e di decidere su tutto ciò che li riguarda. Questi due elementi – la rappresentanza e la democrazia – sono la condizione per ricostruire un nuovo progetto di unità sindacale nel nostro Paese. Un tema nuovo come quello del salario minimo per legge può essere affrontato, se si va verso il fatto che i contratti nazionali hanno validità perché espressione della maggioranza dei soggetti e perché i loro contenuti sono approvati tramite il voto democratico. Questo vorrebbe dire anche combattere i tanti contratti pirata che in questi anni sono stati realizzati e superare la natura e la pratica degli accordi separati.
D. Cosa prevede il documento congressuale in merito al mondo della scuola e della formazione?
R. La conoscenza è una chiave di accesso fondamentale per affermare una cittadinanza consapevole e una reale uguaglianza che superi gli attuali divari sociali e territoriali. Occorre rafforzare e qualificare il sistema pubblico dell’istruzione a ogni livello, compresi l’Università e gli investimenti in ricerca e sviluppo. Per questo rivendichiamo in sintesi: 1) l’obbligo scolastico fino a 18 anni; 2) la generalizzazione della scuola dell’infanzia; 3) il diritto alla formazione permanente per tutto l’arco della vita lavorativa; 3) il cambiamento strutturale di quanto previsto in materia di alternanza scuola-lavoro da intendere quale metodologia didattica; 4) il potenziamento dell’apprendistato formativo quale reale ingresso al lavoro; 5) un’effettiva gratuità del diritto allo studio. Affrontiamo poi il tema della lotta alle mafie e per l’affermazione di un’idea di legalità diffusa, che per noi vuol dire che il lavoro con diritti è la prima condizione per permettere alle persone di essere libere.
D. Ti chiederei un’ultima valutazione, sempre rispetto al documento “Il Lavoro è”, sul grande tema dei migranti. Te lo chiedo anche considerando che i luoghi di lavoro sono forse l’unico posto in cui un migrante può non solo votare ma essere anche eletto delegato.
R. Certo. E sono anche migliaia ormai i delegati e i funzionari migranti nella nostra organizzazione. Io penso innanzitutto ci sia una cultura da contrastare, perché bisognerebbe dire con forza che, se vediamo gli ultimi dati del 2017, sono più le persone italiane giovani che sono dovute andare via dal nostro Pese per cercare lavoro all’estero che non le persone migranti che sono venute a lavorare in Italia. In questi anni si è costruita una paura figlia dell’insicurezza e della precarietà, che si è affermata con leggi e politiche sbagliate. E siamo al paradosso che mentre si garantisce al denaro di circolare in giro per il mondo, senza controlli, s’impedisce ai cittadini del mondo di potersi muovere se lo vogliono. Quando c’è una situazione di precarietà, di scarsità di lavoro e di aumento delle disuguaglianze, la paura viene amplificata. Ed è tutta l’Europa a doversene fare carico, non si possono scaricare solo su alcuni Paesi questi temi epocali. Le richieste della Cgil vanno nel senso di una nuova legislazione, che cancelli l’attuale legge Bossi-Fini e chiediamo anche che le politiche dell’accoglienza vengano strutturate in maniera diversa da quanto fatto fino ad oggi, penso ad esempio al tema di una vera formazione linguistica; occorre anche una vera politica che regoli i flussi. Ci sono tante persone che vivono da anni in questo Paese, lavorano e pagano le tasse ma non godono degli stessi diritti, né sul versante del voto né su quello della cittadinanza. Se noi vogliamo parlare d’integrazione bisogna partire da qui.
D. In chiusura non posso non chiederti una valutazione su quanto emerso dal voto alle politiche dello scorso 4 marzo. Il popolo italiano mi sembra si sia espresso in maniera molto netta verso la discontinuità con quelle forze politiche, come il PD, che hanno governato negli ultimi anni…
R. L’esito del voto è una sconfitta storica della sinistra e rappresenta un mutamento – secondo me – non temporaneo. Abbiamo un cambiamento nei rapporti di forza dentro al centrodestra, in cui il primo partito oggi è la Lega che ha quasi tanti voti quanto il PD. L’altro elemento che è intervenuto è che un movimento che dieci anni fa non c’era oggi si conferma il primo partito in termini di voti. Se uno guarda cosa è successo dal 2008 al 2018, che sono stati gli anni della crisi, si vede che 20 milioni di persone hanno cambiato voto: 10 anni fa il PD aveva preso 12 milioni di voti e oggi ne ha 6, 10 anni fa Forza Italia era il primo partito con 13,5 milioni e oggi ne ha presi 4; dopo 10 anni abbiamo il M5S che ha quasi 11milioni di voti e la Lega con 5 milioni di voti. In dieci anni la percentuale di votanti è passata dal 79% al 73%, cioè il livello più basso di partecipazione al voto politico dal dopoguerra. La Cgil era da un po’ che diceva che si stava rompendo la rappresentanza politica del lavoro. Io non dico che sapevamo già quello che sarebbe successo ma erano chiare le tendenze: bastava frequentare i luoghi di lavoro, i luoghi pubblici, per capire che la crescita della povertà, del disagio sociale, delle disuguaglianze non si risolvono con slogan e tweet. E mi permetto di dire che prima del 4 marzo c’è stato il 4 dicembre e cioè il referendum voluto dall’allora Governo Renzi, come elemento per affermare un cambiamento della nostra Costituzione, in cui emerse in modo molto chiaro che quel Governo e quell’idea erano minoranza nel nostro Paese. La battaglia che la Cgil ha fatto, dimostrando anche la sua autonomia, per difendere la Costituzione, ha reso evidente l’apertura di una crisi. Del resto dobbiamo dirci che negli ultimi 5 anni chi aveva la maggioranza in Parlamento non aveva la maggioranza nel Paese ma aveva un premio di maggioranza e ha usato quella maggioranza parlamentare senza cercare il consenso sociale, anzi c’è stato un attacco al sindacato e ai corpi intermedi senza precedenti. E l’attacco è venuto da tutta la politica: di destra, di centro e di sinistra. L’esito di questo quadro ha fatto fallire e ha messo in crisi lo scenario precedente, perché un livello così basso di rappresentanza delle forze che a vario titolo si richiamano alla sinistra nel nostro Paese non c’è mai stato. Uno scenario preoccupante, ma con cui dobbiamo fare i conti perché nasce da una domanda di cambiamento. È il momento di ribadire con forza i valori e le ragioni per cui la Cgil è nata ed esiste da più di cento anni: la centralità del lavoro, la dignità della persona, la solidarietà e la giustizia sociale, l’idea di trasformazione della vita quotidiana, la realizzazione della nostra Costituzione. Però – ripeto – non possiamo non fare i conti con quanto avvenuto. Se per tanti di noi la parola sinistra evoca delle cose precise, oggi per molte persone, in particolare per i giovani, in Italia e in Europa, non è la soluzione ma la causa dei problemi che hanno, per le politiche che sono state fatte, in particolare sulle questioni sociali. Perché la sinistra o è sociale o non esiste. In realtà in Europa sono stati proprio i Governi di centro-sinistra, legati all’internazionale Socialista, che hanno fatto le cose peggiori sul piano dei diritti del lavoro e sullo smantellamento di quella mediazione sociale che la sinistra, anche socialdemocratica, aveva realizzato in Europa dal dopoguerra come mediazione tra il lavoro e il capitale. Fino agli anni ’70 era la politica, di qualsiasi colore fosse, che considerava il lavoro centrale, oggi è esattamente il contrario: il Jobs Act ha tolto le tutele a chi viene licenziato e le ha fornite a chi vuole licenziare. Mentre il diritto del lavoro era nato per impedire la mercificazione del rapporto di lavoro, oggi siamo ritornati a quella cultura, quindi è evidente che il mondo del lavoro non è più rappresentato in quanto tale. Questo è il tema su cui la politica dovrà fare i conti.
D. Il Governo Conte è ormai in carica da tre mesi. Quali valutazioni politiche dai del suo operato?
R. Quando si è formato ha messo insieme due forze politiche (Lega e M5S) che si erano presentate agli elettori in modo alternativo. Personalmente continuo a vedere molte diversità, nonostante il cosiddetto “Contratto di Governo” tra di loro stipulato. Basti pensare, da ultimo, al voto su Orban al Parlamento Europeo. Continuo a pensare che sia stato sbagliato da parte del PD il non aver verificato fino in fondo l’esistenza di una diversa soluzione governativa con il Movimento 5 Stelle, a partire dalla discriminante antifascista e dalla piena applicazione dei principi della nostra Carta Costituzionale. In questo senso gli atti e le dichiarazione del Ministro Salvini (dall’attacco ai migranti fino alle critiche all’autonomia della magistratura) non possono che vedere il nostro contrasto culturale e di politica contrattuale. In questa prima fase è prevalsa nel Governo una logica elettorale, che non va sottovalutata, perché ha determinato un aumento del consenso verso il Governo, con pochi precedenti. Questo richiede di agire con coerenza e forza sui contenuti e le azioni che servono per contrastare la povertà e l’insicurezza che ha determinato paura e sofferenza sociale in larghi strati del Paese. Dobbiamo iniziare a mobilitarci per nuovi investimenti pubblici per creare lavoro, per un piano straordinario di manutenzione del territorio, per la lotta all’evasione fiscale e per la riduzione dell’Irpef per lavoratori dipendenti e pensionati, per l’introduzione una patrimoniale, per un nuovo statuto dei diritti e per il ripristino dell’Articolo 18, per una vera lotta al caporalato e alle forme di schiavitù nel lavoro, per un reale cambiamento delle pensioni, per ammortizzatori sociali universali e per un reddito di garanzia. Il recente accordo Ilva ci dice che si può fare.
D. Un sondaggio commissionato dalla Fondazione Di Vittorio ha analizzato il voto degli iscritti alla Cgil alle scorse elezioni. M5S e PD sopra il 30%, la Lega e LeU intorno al 10%. Che ne pensi?
R. Dal punto di vista sindacale dobbiamo fare i conti col fatto che tanti dei nostri iscritti hanno articolato il loro voto, votando nei modi più disparati. Il punto allora non è essere indifferenti a questo ma aumentare la nostra capacità di autonomia e di azione per riaffermare una cultura del lavoro e portare a casa risultati concreti per tutto il mondo del lavoro.
D. L’autonomia può essere anche una sfida per la Cgil, una sfida per modificarsi al proprio interno e per ritornare al ruolo costituzionale del sindacato, cioè di grande forza di cambiamento radicata nella società…
R. Credo che il tema che abbiamo di fronte sia quello di rilanciare un’idea di confederalità nel mondo del lavoro, cioè l’idea che non ci sono sindacati di mestiere o sindacati corporativi ma che si punti ad avere un sindacato generale che rappresenti tutte le forme di lavoro. Per poterlo fare dobbiamo essere in grado di tenere assieme tutte le differenze che esistono. Da questo punto di vista per noi oggi rimettere al centro il lavoro è certamente un’operazione culturale e politica. Poi c’è un problema che riguarda come noi ci muoviamo, che cosa mettiamo in campo e anche come cambiamo. Il metodo con cui stiamo svolgendo questo congresso – secondo me – ci mostra come la costruzione di una cultura confederale che può essere frutto di un allargamento della partecipazione, anche con discussioni conflittuali che questo può determinare. Mi permetto di dire che un compito di questa natura, che provi a ricostruire un’unità del mondo del lavoro, quindi un’unità sociale del mondo del lavoro, se non lo fa un’organizzazione come la Cgil non so davvero chi altro possa farlo nel nostro Paese.
D. Il tema della ricostruzione di una nuova confederalità mi pare si leghi bene – senza voler fare facili sommatorie – con il ragionamento che avevamo posto già alcuni anni fa sulla coalizione di tutti i lavoratori, cioè la cosiddetta “coalizione sociale”. Che ne pensi di questa mia valutazione?
R. Probabilmente non sono e non siamo stati capaci di far capire davvero cosa volevamo fare e di questo mi assumo le mie responsabilità. Non ho mai proposto di costruire un nuovo partito. Ho pensato che per contrastare il Jobs Act, le politiche del Governo e una cultura basata sull’individualismo avevamo bisogno di unire tutto ciò che socialmente era separato e contrapposto, a partire dal mondo del lavoro fino ad arrivare alle associazioni, ai movimenti. Col senno di poi mi viene da dire che non si scala l’Everest con le scarpe da ginnastica. La Cgil ha avuto la capacità di praticare con autonomia dal quadro politico, dalle imprese e dal Governo la scelta di ricostruzione di una nuova unità del mondo del lavoro avanzando una proposta (la Carta dei Diritti) mettendo in campo una pratica (la contrattazione e i referendum) che offrono agli iscritti e alle iscritte una nuova possibilità di reale cambiamento. Questa è la grande scommessa del congresso in corso.
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