Gianni Usai, Loris Campetti: La cooperativa pescatori Su Pallosu per il ripopolamento delle aragoste

| 10 Luglio 2014 | Comments (0)


 

 

Sabato 19  luglio a Bologna alle ore 18 all’interno della iniziativa La Manifesta presso il Centro Sociale Culturale Giorgio Costa, Via Azzogardino 44 Bologna, è stato presentato il libro di Gianni Usai Operaio in mare aperto Edizione Abele, Torino 2014 (il libro è il risultato della intervista di Loris Campetti all’autore).

 

1. Foto scattate da Daniele Leardini del Circolo  Manifesto di Rimini alla iniziativa della Manifesta a Bologna del 19 luglio dove con i due autori (Usai e Campetti) hanno discusso Daniela Biagini, Marco Ligas e Tiziano Rinaldini



 

 

 

2. Gianni Usai (intervistato da Loris Campetti): Il progetto di ripopolamento delle aragoste rosse a Su Pallosu

 

Gianni Usai (nella foto) torna in Sardegna nel settembre del 1980 dopo la sua esperienza di operaio alla Fiat di Torino e inizia ad apprendere il mestiere del pescatore animando la cooperativa di pescatori di Su Pallosu che nel 1998 collabora con l’università di Cagliari per la ripopolamento delle aragoste rosse.

L. La pesca va bene, ma a un occhio attento non possono sfuggire i segnali che vengono dal mare: le risorse ittiche sono limitate, senza una seria regolamentazione prima o poi cominceranno a scarseggiare e, col tempo, a esaurirsi. I primi a dover essere convinti che comportarsi come le cicale alla lunga si rivela una scelta suicida sono proprio i pescatori.

 

G. Qui a Su Pallosu, qualche decennio prima che io arrivassi, non c’era una tradizione di pesca fino al giorno in cui scesero dall’interno della Sardegna dei pastori che si improvvisarono pescatori, imparando un po’ dai ponzesi e un po’ dagli algheresi, gli unici a battere questa costa. D’inverno tiravano avanti con qualche coniglio selvatico, come quelli che popolano l’isola di Mal di Ventre, cacciato di frodo con il cappio. Tiravano avanti così, con qualche frittata fatta con le uova dei gabbiani, qualche pesce, un po’ di zuppa, quel che restava nella rete o nelle trappole. La natura reggeva e l’ambiente non ne veniva danneggiato. Alla lunga, però, questa situazione non sarebbe potuta durare, serviva un salto di qualità, e insieme una nuova professionalità per migliorare le condizioni di vita dei pescatori. Naturalmente rispettando le regole basilari per non danneggiare l’equilibrio naturale e le risorse ittiche.


L. E così inizia la nuova battaglia di Gianni, quella in difesa del mare, dell’ambiente e del futuro, fatta non contro ma con i pescatori di Su Pallosu, cicale che passo dopo passo, non senza molte resistenze, si trasformano in formiche. Bisogna evitare che si ripeta la storiaccia degli stagni di Cabras, a meno di dieci chilometri di distanza dalle baracche di Gino e Barore, terreno di pascolo dei fenicotteri rosa.

G. Lì si coltivano i muggini migliori del mondo, dalle loro uova, raccolte in sacchette protettive, si ottiene la famosa bottarga che ha raggiunto sul mercato prezzi da capogiro. Nel 1982, in seguito a un’epica battaglia dei pescatori contro il barone Carta, l’antico proprietario, gli stagni vennero acquisiti dalla Regione Sardegna. Una lotta finita bene, dunque, anche perché la gestione era stata affidata a cooperative di pescatori. Ma una pesca incontrollata, che non rispettava il tempo di riproduzione e crescita dei muggini, insieme a una cattiva manutenzione degli stagni collegati al mare, ne ridusse drasticamente la produttività: i pesci pescati anzitempo non raggiungevano più le dimensioni necessarie alla produzione di bottarga. Andò avanti così per anni, al punto che la bottarga made in Cabras in realtà era fatta con le uova importate dalla Corea del sud o dalla Mauritania, dalla Corsica o da Orbetello. Non è stato semplice far crescere una cultura diversa anche all’interno della Cooperativa degli allevatori degli stagni, e non sono mancati i conflitti interni. Alla fine è diventato evidente anche ai più resistenti che soltanto una pesca regolamentata avrebbe potuto consentire la ricostruzione delle risorse ittiche, ponendo fine a quell’insensato e miope accaparramento. Tieni conto del fatto che, per effetto dell’impoverimento degli stagni, molti di quei pescatori che avevano contribuito al disastro, rimasti senza lavoro, si sono trasferiti sulla costa, andando a ingrossare le fila dei predatori marini.

 

L. I guardiani del mare devono essere i pescatori, formati attraverso un vero e proprio processo di alfabetizzazione ambientale. Contemporaneamente, però, è determinante il ruolo delle istituzioni, del sistema legislativo regionale, nazionale ed europeo, e devono funzionare le strutture di controllo. Qui sta il buco nero di tutto il sistema, minto da inefficienza, incompetenza, interessi e, talvolta, corruzione. Così, ad esempio, è stato consentito a una nuova spregiudicata generazione di corallari di arare i fondali con gli ingegni, e alle ballerine (barche utilizzate per lo strascico indiscriminato con le reti modificate) di distruggere il novellame che in sardo ha un nome evocativo: s’arricreu, ossia l’insieme di avannotti, crostacei e piccoli pesci che rappresenta il serbatoio vitale per ricreare la risorsa ittica.

G. Con il passare degli anni il mare veniva sempre più stressato, a caus dll’assenza di una legislazione adeguata e per la mancanza di controlli da parte delle capitanerie. Nella seconda metà degli anni Ottanta lo strascico fece danni incommensurabili; quando quel tipo di pesca venne esteso dai fondali sabbiosi a quelli di scoglio, con gli attrezzi fatti di rulli e catene che strisciando sul fondo spaccavano tutto, distruggevano l’habitat di molte specie marine, le uova, la poseidonia fondamentale per il pascolo di alcune specie. Se le leggi sono contraddittorie e quelle che ci sono vengono violate, dato che ad Attila viene garantita l’immunità, che cosa può fare il pescatore della cooperativa di Su Pallosu? Te lo do io il guardiano del mare. Noi ci siamo impegnati a praticare tipi di pesca rispettosi dell’ambiente, utilizzando nasse, palamiti, reti a maglie non troppo strette per salvare i pesci di piccola pezzatura e i tremaglioni per le aragoste che non trattengono il pesce di piccola taglia. Ma tra il 1987 e il 1988 abbiamo fatto di più, abbiamo preso i primi contatti con la facoltà di biologia marina dell’Università di Cagliari, proprio per cercare di fermare la pesca a strascico illegale; il rapporto si è fatto sempre più stretto nel corso degli anni e continua ancora oggi. Abbiamo partecipato a corsi di formazione professionale e costruito insieme esperienze e sperimentazioni di nuovi tipi di pesca per rendere i prelievi sempre più selettivi e rispettosi. Perché in gioco non era e non è solo la vita del pesce, ma anche il futuro del pescatore. Poi c’è un concetto che deve entrare nella testa di chi vive di pesca: il mare non è dei soli pescatori, è della comunità.

 

L. Un po’ per sopravvivere, perché le vecchie barche dei soci di Su Pallosu, messe insieme con pezzi rimediati come la Maristella di Barore, ormai reggono a stento il mare e un po’ per rendere possibile una pesca meno invasiva, Gianni con i suoi amici inizia l’ennesima battaglia, questa volta per accedere ai fondi regionali e rinnovare il parco barche circolante.

G. Era necessario modificare la legge regionale che prevedeva il blocco delle licenze e un tonnellaggio troppo basso, che avrebbe consentito di finanziare soltanto cinque imbarcazioni. Abbiamo combattuto due anni con la burocrazia regionale, tra mille difficoltà, per ottenere la modifica necessaria; anche grazie al sostegno di Legambiente, con la collaborazione di un assessore e un funzionario, nel 1990 siamo riusciti a strappare condizioni migliori per chi, come noi, stava impegnandosi in un progetto di pesca ecosostenibile. Rispetto alle direttive comunitarie fu autorizzato un tonnellaggio di duemila tonnellate in più per tutta la Sardegna e i pescatori di Su Pallosu ottennero il finanziamento per l’acquisto di nove barche, quattro in più di quelle previste dalla legge originaria. Sette barche furono messe in disarmo e sostituite con quelle nuove e altre due assegnate ad altrettanti marinai che non avevano un’imbarcazione di proprietà. Nel nostro piccolo siamo riusciti a far crescere l’occupazione, e calcola che se per attivare un posto di lavoro nell’industria chimica serviva più di un miliardo di lire, nella pesca erano sufficienti 25 milioni di danaro pubblico. Giustamente anche altre marinerie sarde impegnate nella piccola pesca hanno usufruito di questa possibilità, ma purtroppo anche un po’ di grandi pescherecci, quelli che provocano i danni ambientali peggiori.

 

L. Parlami dei rapporti con l’Istituto di biologia marina di Cagliari.

G. Con l’università si cominciò con uno scambio di idee, da una parte lo studio, la ricerca e dall’altra la conoscenza di noialtri pescatori basata sull’esperienza pratica. Partecipai a un convegno in cui il professor Angelo Cau, direttore dell’istituto, diventato ben presto il nostro principale interlocutore, presentò i risultati di una ricerca sulle possibilità di praticare una pesca artigianale delle cernie in alternativa allo strascico. Poi abbiamo lavorato insieme, per esempio usando i tremaglioni per le aragoste bianche d’altura che possono raggiungere fino a 6-7 chilogrammi di peso, o sull’utilizzo del fegato degli squaletti spinaroli nell’industria farmaceutica. Per non stressare troppo il mare con una pesca indiscriminata e al tempo stesso per difendere il futuro dei pescatori, quando cominciò a profilarsi la crisi e le reti si salpavano sempre più leggere, il rapporto con l’università si è dimostrato importantissimo. Naturalmente perché questa collaborazione potesse svilupparsi seriamente era necessario lavorare su un parco barche moderno ed efficiente ed è così che lanciammo, insieme con l’istituto, la sfida per i finanziamenti regionali di cui ti ho parlato.

 

L. Nello sforzo per difendere le risorse marine del Sinis vi siete battuti anche per la costituzione del Parco marino intorno all’incredibile isola di Mal di ventre, che è possibile visitare ma dove è vietato insediarsi, sia pure per una sola notte.

G. L’intenzione era buona, la costituzione del Parco marino protetto del Sinis avrebbe dovuto garantire la tutela di un’area importantissima da un punto di vista naturalistico e per le specie ittiche che la popolano, a partire dalla preziosa aragosta rossa della Sardegna. Ma il ministero per l’ambiente scelse una strada centralistica e operò senza minimamente coinvolgere i pescatori. Nella commissione di gestione c’eravamo il professor Cao e io, ma c’era anche un pescatore che sosteneva la pesca a strascico. Se non coinvolgi direttamente i pescatori, se non fai in modo che vivano quest’area come un bene comune, alla fine succede che se ne fottono dei regolamenti e dei vincoli. E infatti, in assenza di controlli regolari e ferrei non sono poche le barche che si avventurano nella zona interdetta alla pesca e fanno quel che vogliono persino all’interno del Parco. Ci sarebbero mille modi per intercettarle e bloccarle grazie ai nuovi sistemi di controllo elettronico anche da terra, ma questo non avviene. A dimostrazione della possibilità di intervento contro la pesca di frodo in aree protette, ti ricordo la vicenda del maresciallo dei carabinieri Cocco, un uomo tutto d’un pezzo che, con una piccola barca e operando in rapporto con noi pescatori di Su Pallosu, in una sola notte riuscì a fermare sette barche da pesca che stavano lavorando illegalmente nel nostro mare. Ma è impensabile che un problema così importante sia lasciato esclusivamente nelle mani di un gruppo di pescatori sensibili e di un pubblico funzionario perbene. Non è un caso se, sia il professor Cau che io, dopo poco, siamo stati sostituiti nella commissione di gestione del parco del Sinis con un decreto dell’allora ministro Matteoli detto per l’appunto Attila, per lasciare il posto a due signori di Alleanza nazionale senza arte né parte.

 

L. Uno dei modi sperimentati per ridurre l’impatto della pesca in un mare che va impoverendosi è lo sviluppo dell’itticolutura nel sistema degli stagni di Cabras. Anche in questo caso Gianni svolge un ruolo attivo per sensibilizzare i pescatori e favorire una cultura attenta alle forme di pesca e al rispetto dei tempi di riproduzione e crescita dei muggini. E si mette a loro disposizione quando, a metà degli anni Novanta, iniziano gli arrivi a Cabras di migliaia e migliaia di cormorani in fuga dal mare del Nord e dal Baltico. Negli stagni del Sinis trovano l’Eden.

G. Era successo che in alcuni paesi baltici, Lettonia, Lituania ma anche nel nord della Svezia e della Finlandia, erano saltati i meccanismi che storicamente avevano garantito l’equilibrio tra le specie. Erano scomparsi alcuni predatori dei cormorani come l’aquila di mare e, in aggiunta, i cormorani erano stati dichiarati specie protetta, per cui antiche tradizioni come la raccolta delle uova destinate all’industria dolciaria era stata proibita. Di conseguenza il numero dei cormorani era cresciuto a dismisura e dunque il cibo non era più sufficiente a garantire la loro sussistenza. Così iniziò una migrazione biblica fino agli stagni di Cabras, Is Benas, Santa Giusta, Terralba e Marceddì, sempre nell’oristanese. Per questi uccelli era come andare in un ipermercato a fare la spesa proletaria. Ne censimmo 18 mila, una quantità spaventosa che andava ad aggiungersi ai cormorani autoctoni che nei nostri stagni ci sono sempre stati, ma in quantità tale da non provocare gravi danni, garantendo al contrario un equilibrio tra le specie. Un cormorano mangia quotidianamente 350 grammi di pesce, ma ne distrugge molto di più: quando arrivano su uno stagno queste nuvole nere di predatori determinano uno shock nel novellame che terrorizzato finisce per spiaggiarsi e morire. Di conseguenza, il danno si moltiplica perché la morte del novellame compromette la vita futura negli stagni, e quella dei pescatori. Così, dopo una mobilitazione che ha coinvolto tutti, siamo riusciti a convincere una parte significativa del mondo ambientalista della gravità del problema e della necessità di trovare una via d’uscita, anche perché il cormorano non è una specie in via d’estinzione. Insieme a Legapesca e Legambiente nel 1997 siamo riusciti a ottenere l’autorizzazione all’abbattimento, controllato dalla Guardia forestale, di un piccolo numero di esemplari per demotivare l’intero branco di invasori. L’intervento funzionò, se ne andarono: era bastato colpirne pochi per educare anche tutti gli altri. Quando si ottenne il placet dell’Istituto nazionale fauna selvatica e della Regione Sardegna, l’Unione europea non trovò nulla da ridire, per la gioia dei pescatori di Cabras e dei cormorani indigeni, liberati finalmente dalla concorrenza straniera. Purtroppo, però, oggi il fenomeno è ripreso e mi auguro che chi di competenza, chi si era attivato in passato, si dia una mossa per impedire un nuovo, catastrofico saccheggio degli stagni. Ho sollecitato Legapesca, ma non posso essere sempre e solo io a darmi da fare. O cresce una coscienza collettiva, un’assunzione di responsabilità, oppure tutti i passi avanti fatti in anni di fatiche rischiano di arenarsi nelle sabbie mobili. E torneremmo alla filosofia devastante del carpe diem.

 

 

 

 

L. Arriviamo così a Le ragioni dell’aragosta di Sabina Guzzanti, dove Gianni da intervistato come era stato nei documentari e in Non mi basta mai, si trasforma in attore vero e proprio e certo non nel ruolo di comparsa. Come è nata l’idea di quel film?

 

G. Io sono semplicemente un attore che recita se stesso, portando in scena dubbi, paure e contraddizioni. Nell’idea originaria di Sabina, che voleva recuperare l’esperienza di Avanzi, il programma cult di Rai Tre diretto da Serena Dandini all’inizio degli anni Novanta, non dovevamo esserci né io né i pescatori. Nel 2006 l’attrice era negli Stati uniti per presentare Viva Zapatero con Michael Moore; in un’intervista Sabina Guzzanti spiegò che avrebbe voluto fare un film su un suo amico, convinto giustamente di essere un bravo batterista, ma preoccupato di non essere più capace di fare l’attore, e si riferiva a Pier Francesco Loche. Poi venne a Su Pallosu, parlammo a lungo e lei mi riprendeva con la telecamera mentre raccontavo la mia storia. Era rimasta colpita dall’esperienza del consiglio di fabbrica di Mirafiori, oltre che dal nostro lavoro per il ripopolamento delle aragoste, e così decise di inserire nel film, incentrato sulla crisi degli attori di Avanzi, anche la crisi del movimento operaio e quella dei pescatori all’interno della crisi di un mare troppo sfruttato. Mi sono molto immedesimato nel recitare me stesso, seguendo le indicazioni di Sabina. La location è stata costruita a Su Pallosu nella casa di Geppetto e per un mese abbiamo lavorato, mangiato e vissuto insieme con l’intero cast del film, divertendoci come pazzi.

 

L. Le ragioni dell’aragosta è stato presentato nel settembre del 2007 al festival del cinema di Venezia ed è stato accolto da una standing ovation. In quell’occasione, spiegando le ragioni per cui aveva deciso di rimettere insieme il gruppo di Avanzi quindici anni dopo e di spingerlo all’autocoscienza, Sabina aveva detto: l’esperienza di Avanzi “è stato un periodo irripetibile. E le ragioni per cui non si può ripetere sono tutte politiche. Quello è stato l’unico momento di libertà per la tv italiana, perché i nostri politici erano troppo impegnati a salvarsi da Tangentopoli per occuparsi della tv. L’Italia oggi è un regime massonico, sovietico, fascista, non so come definirlo. Se hai qualcosa da dire sei nell’impossibilità di farlo”. Nel viaggio all’indietro di Sabina Guzzanti si incontrano frustrazione, mancanza di strategia, impotenza, sensazioni che nel film accomunano operai, pescatori e attori di Avanzi. Si stenta a ritrovare fiducia in se stessi, quasi sopraffatti nel corso di una battaglia per “annientare la potenza mitica dell’avversario, che sia la stampa, la tv, le corporation, l’America di Bush o la pesca a strascico, quella che ha impoverito il mare di Su Pallosu”. Così scriveva Mariuccia Ciotta sul manifesto recensendo da Venezia Le ragioni dell’aragosta, un film dal finale a sorpresa.

 


3. Il film di Sabina Guzzanti: Le ragioni dell’aragosta

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=bcHgAyB7mlg[/youtube]

 


 

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About Loris Campetti: Nato a Macerata nel 1948, ha conseguito la laurea in Chimica nel 1972 e ha insegnato per anni nella scuola media. Entra nel mondo del giornalismo sul finire degli anni '70, dirigendo per circa dieci anni la redazione torinese de il Manifesto. Negli anni successivi per lo stesso quotidiano è inviato per le questioni europee, caposervizio dell'economia e caporedattore. Ha fatto parte del comitato di gestione de il Manifesto. Esperto di relazioni industriali i suoi articoli e libri sono dedicati a questioni sindacali.Ha pubblicato il libro Non Fiat (Cooper , Castevecchi 2002) e Ilva connection. Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevole negligenza, sui Riva e le istituzioni (Editore Manni 2013)

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