Gianni Bortolini: Un libro di Eloisa Betti ed Elisa Giovanetti sulle donne licenziate senza giusta causa
Diffondiamo da www. huffingtonpost.it del 2 luglio 2014 questa recensione scritta da Gianni Bortolini, operaio metalmeccanmico della Magneti Marelli di Bologna
La casa editrice Socialmente ha appena pubblicato un bel libro, a cura di due giovani studiose (Eloisa Betti ed Elisa Giovannetti), che si intitola “Senza giusta causa: le donne licenziate per rappresaglia politico-sindacale a Bologna negli anni 50.”
Il volume ripercorre le vicende di un periodo assai tormentato della nostra storia (in particolare della storia di Bologna); quegli anni 50 così ricchi di contraddizioni in cui si assiste al passaggio dalla dittatura alla democrazia; da un’economia basata essenzialmente sull’agricoltura a una industrializzazione irruente ma priva di qualsiasi programmazione. Tutti questi sono i tratti caratteristici di un decennio sempre in bilico tra pace e guerra, tra inclusione sociale e repressione feroce, tra democrazia e discriminazione.
Parliamo quindi di anni caratterizzati da condizioni di lavoro spesso drammatiche, soprattutto per le donne, ma soprattutto perché leggi e contratti non ponevano quasi alcun vincolo alla discrezionalità dei datori di lavoro: lo Statuto dei Lavoratori, infatti, sarebbe arrivato solo nel 1970.
“Vi sono periodi (…) nei quali vengono imposte 15-16 ore di lavoro giornaliero e si resta fino a 6-7 ore senza prendere cibo e guai a chi è sorpreso a mangiare un pezzo di pane. Quando si arriva verso le ore piccole e per la stanchezza le operaie non reggono più, vengono apostrofate con parole triviali che vanno ad offendere la loro moralità. “Avanti, andate più in fretta, altrimenti domani starete a casa, tanto carnaccia come voi ne troviamo (…).”
Usando termini più contemporanei potremmo dire che erano anni di grandissima flessibilità sia in entrata che in uscita, con un uso assai disinvolto dei contratti a termine.
Sentiamo ancora cosa ci dice una testimone di quel periodo.
“Infatti nel 1953 si iniziarono le assunzioni a termine (…) Le assunzioni a termine sono una forma per eludere il contratto di lavoro, cioè per non far maturare ferie, l’indennità di licenziamento ecc. A confermare come i contratti a termine siano una forma di coercizione e soggezione morale alla volontà padronale basti citare due esempi: 1) all’inizio della lotta salariale del 1954 erano presenti in fabbrica 5 ragazze con il contratto a termine e proprio per aver partecipato a questa lotta furono licenziate e immediatamente sostituite (…).
Le donne, come spiega bene il libro, specie se sindacalizzate o militanti in partiti politici di sinistra, dovettero subire discriminazioni e rappresaglie: uno sciopero o una manifestazione potevano essere motivo di licenziamento in tronco. Nonostante ciò, molte di loro seppero reagire con grandissima dignità e coraggio.
Il volume di Eloisa Betti ed Elisa Giovannetti, nel ricostruire le storie di Rosa, Laura, Teresa, Bruna e tante altre (operaie, sartine, braccianti, ecc.); nel ripercorrerne le lotte per paghe uguali a quelle degli uomini, per una mensa dignitosa, per un asilo, per il diritto alla maternità, o per l’essere considerate persone e non merci, ci invita implicitamente a una riflessione anche sull’oggi: a mio avviso, una qualità tipica proprio dei buoni libri di storia.
Infatti, pur essendo un lavoro rigorosamente scientifico, non può di certo sfuggire che l’opera delle due studiose esce dopo gli anni drammatici della vicenda Fiat, dopo Pomigliano, dopo le discriminazioni subite dalle delegate e dai delegati della FIOM, ma soprattutto dopo un lunghissimo periodo di ricette economiche molto simili a quelle praticate negli anni ’50: precarietà, bassi salari, pochissimi diritti, abusi di ogni genere.
Il libro, però, parla anche al sindacato e lo fa nel modo più limpido e chiaro: riproponendo cioè storie importanti di militanza e solidarietà. Storie pulite e positive che colpiscono per l’umiltà, il senso del dovere e l’assenza di ogni arroganza che caratterizzano le protagoniste. Un’attività sindacale schietta, dove ogni compito veniva affrontato nella consapevolezza che fare sindacato non poteva essere considerato solo un compito burocratico e di sevizio ai lavoratori, ma costruttivo e pedagogico, e perciò propedeutico a una società più solidale.
Ecco la bella testimonianza di Adriana Lodi che negli anni successivi sarà un’importante dirigente sindacale, nonché una protagonista della vita politica bolognese:
“Mentre ero in fabbrica la sera ho fatto un corso di perfezionamento di stenografia ed ho preso un vero e proprio diploma. L’estate del ’50 sono andata alla scuola sindacale di Castel San Pietro (…) Il giorno dopo compivo 17 anni. Ho accettato, sono andata lì a fare tutto, perché lì c’era da spazzare l’ufficio la mattina appena si entrava, da rispondere al telefono, da fare le tabelle salariali, da scrivere i contratti. E poi il Segretario mi aveva detto che l’organizzazione era fatta in questo modo: tutti i giorni bisognava toccare almeno due luoghi di lavoro, uno a mezzogiorno e uno alla sera. Anche se si trattava di piccoli luoghi di lavoro, però si doveva prendere contatto. Questo era il rendiconto che si doveva fare. Anche per un’altra ragione, che non avevamo soldi ed il contatto con i lavoratori voleva dire andare a raccogliere le quote. Era un lavoro politico; l’inizio di una politica difficile (…).
Qualche conclusione sulla quotidianità è inevitabile. Oggi Bologna è una città certamente diversa. Oggi, come raccontano i giornali, ci si confronta sul modello duale tedesco (Ducati, Lamborghini, ecc.) piuttosto che su un sistema di welfare inclusivo che sappia dare rappresentanza alle istanze di una società in continua trasformazione. Oggi però anche la ricca e solidale Bologna subisce la crisi, e il rischio concreto è che alcuni possano ritenere la violazione, o il semplice aggiramento dei diritti, se non proprio legittimi almeno funzionali a riagganciare una ripresa che è tanto invocata quanto lontana.
Infatti, sono sempre più frequenti i casi di imprese che riducono unilateralmente tutele, diritti e quote di salario facendo leva sulla paura generalizzata della disoccupazione, secondo il vecchio adagio “o mangi questa minestra o salti dalla finestra”, riscoprendo così una modernità molto più vecchia e logora dello Statuto e dell’art.18.
Si tratta di piccoli e grandi ricatti quotidiani (di cui spesso sono vittime donne lavoratrici) sui quali una provincia avanzata come quella di Bologna (storicamente tra le provincie con la più alta percentuale di donne occupate) deve vigilare attentamente, non solo per salvaguardare un modello avanzato di relazioni sociali e sindacali, ma anche perché, in fondo, siamo un po’ tutti figli o nipoti di quelle 1.982 donne che, nei primi anni 50, furono processate perché scioperavano per condizioni di lavoro più umane e meno precarie (prendendo condanne per 182 anni di carcere!). Questo libro ce lo ricorda con grande efficacia e Bologna non può (e non deve) dimenticarlo.
Category: Donne, lavoro, femminismi, Lavoro e Sindacato, Libri e librerie