Romano Prodi: La crisi della Cina. Tavolo con Pechino o il mondo rischia
D. Le Borse mondiali, esclusa quella cinese, si sono riprese dopo il grande tonfo. Ma questo non vuol dire che sia tutto a posto…
«Non presto molta attenzione ai crolli dei mercati borsistici ed alle successive risalite, preferisco concentrarmi sui problemi reali della Cina. D’altra parte il mercato cinese era cresciuto del 150 per cento in un anno: se si sgonfia un po’ non c’è niente di male».
Qual è allora il problema della Cina?
«Il problema è che il passaggio da un’economia basata su export e investimenti ad una alimentata dai consumi interni si sta rivelando più complicato del previsto. Anche perché il contesto non aiuta. Sono in affanno i Paesi in cui la Cina esportava ed, all’interno, sono aumentati i costi: un saldatore che qualche anno fa a Shangai costava 150 dollari al mese oggi ne costa 800. Poi c’è lo yuan che nel corso dell’anno si era rivalutato di oltre il 15% rispetto alla media delle valute dei paesi con cui la Cina commercia. In questa situazione già varie imprese stavano muovendosi per delocalizzare in Paesi dove il costo della mano d’opera è più basso: Myanmar, Vietnam, Bangladesh, Pakistan. Insomma la crisi dell’export è arrivata troppo presto, in un momento in cui non è ancora possibile rimpiazzare questa componente con la domanda interna, sia per la fase di bolla immobiliare sia per la mancata costruzione di sistemi sanitari e pensionistici, senza i quali è difficile convincere la gente a spendere».
D.Come giudica la reazione delle autorità cinesi? Qualcuno dice che hanno contribuito a scatenare il panico, mostrandosi non in grado di controllare la situazione.
«Certamente ci sono anche nodi politici. La necessaria lotta alla corruzione ha creato tensioni anche perché questa è molto diffusa: per molti funzionari che hanno una bassa retribuzione le tangenti di fatto erano un modo per integrare il reddito. Nei giorni scorsi le possibili misure di breve periodo erano state adottate ma non erano bastate. Ieri è stato anche annunciato un grande intervento di politica monetaria, una sorta di quantitative easing, che sembra avere tranquillizzato i mercati internazionali. Restano da fare tutte le grandi cose per le quali servirà però più tempo: risanare i bilanci delle imprese pubbliche e delle province, riformare il sistema bancario, regolare la bolla immobiliare. Certo difficilmente si riuscirà a mantenere la crescita del 7 per cento di cui si è parlato: questo tasso di sviluppo non è compatibile con dati come il dimezzamento della domanda di minerali del ferro o la stagnazione del consumo di energia».
D. Una Cina che non spinge più come prima fa paura al resto del mondo?
«Mi preoccupa che tutto ciò stia avvenendo in un quadro economico mondiale non brillante. In America c’è meno euforia rispetto a un po’ di tempo fa, Paesi emergenti come Brasile e Russia sono in forte difficoltà, mentre in Europa c’è ancora una ripresa miserevole. Io dico di fare attenzione, perché se non c’è una risposta economica coordinata si rischia una deflazione globale. La crisi del 2008 è stata provocata dagli Stati Uniti, la prossima potrebbe venire dalla Cina. Il che paradossalmente vuol dire che Pechino è protagonista nel mondo. Noi europei non siamo nemmeno capaci di provocare le crisi. Ci limitiamo a subirle e a prolungarle facendoci del male da soli. Lo dico sul filo dell’ironia, ma c’è del vero».
D. Che tipo di risposta coordinata servirebbe?
«Una conferenza mondiale, chiamiamola nuova Bretton Woods o come ci pare. Sicuramente è desiderabile, ma non credo sia realistica, probabile. Non mi pare che l’Europa sia in grado di organizzarla, non so se gli Stati Uniti la vogliano davvero. Certo non aiutano le tensioni con la Russia e quelle che vi sono anche tra gli Usa e la stessa Cina. Però non si può lasciare fuori dal tavolo delle decisioni un giocatore così importante. Questa situazione di tensione danneggia tutti, impedisce di trovare soluzioni anche a problemi come il terrorismo dell’Isis, che potrebbe essere battuto se ognuno collaborasse».
D. Quanto sta avvenendo in Oriente può avere conseguenze negative anche per la crescita europea ed italiana?
«Certo se la crisi cinese dura nel tempo le già stentate prospettive di crescita dell’Europa sono destinate a ridursi. Mi pare inevitabile. Per la Germania l’export verso Pechino raggiunge il 6,5-7 per cento del totale, per noi italiani solo il 2,5, anche se con una forte presenza di alcuni settori. Ma se si esportano meno auto tedesche sono penalizzate anche le imprese del nostro Paese che fanno i componenti. Tutto è legato. E poi c’è la volatilità dei mercati finanziari che qualche problema in termini di spread lo può dare, anche se per ora fortunatamente non è successo. Quando c’è nervosismo come in questi giorni, le piccole tensioni o delle semplici voci bastano a scatenare allarmi».
D. I problemi della grande Cina hanno un po’ oscurato quelli della piccola Grecia, che erano al centro delle preoccupazioni mondiali fino a poco tempo fa. Però anche lì restano questioni aperte, come quella del debito che in qualche modo dovrà essere ristrutturato.
«Ho già avuto modo di dire che sulla Grecia l’Europa è riuscita ad evitare il peggio ma ha fatto il male. È chiaro che Atene non è in grado di ripagare quel debito. Una soluzione bisognerà trovarla, che sia dimezzare lo stock o prolungare quasi all’infinito i pagamenti. Ma il punto è che questa Europa deve cambiare. Guardi come sta affrontando la questione dei profughi. I leader tedeschi e francesi l’hanno trattata come un semplice problema burocratico, senza rendersi conto che ormai ha assunto dimensioni bibliche. Cosa vuole che le dica? Noi europei abbiamo fatto un grande passo in avanti dopo una tragedia come il secondo conflitto mondiale. Speriamo che non serva un evento così disastroso per suscitare qualche politico profetico come i De Gasperi e gli Adenauer e spingerci verso una maggiore saggezza».
Category: Economia, Osservatorio Cina, Osservatorio internazionale