Riccardo Terzi: La democrazia nel sindacato
Diffondiamo da “Inchiesta” di gennaio-marzo 2015 l’intervento di Riccardo Terzi che si misura in modo innovativo e non elusivo con il problema della democrazia nel sindacato. Ci auguriamo che apra sulle pagine della rivista un confronto con altri contributi. Un primo contributo è quello di Lia Cigarini pubblicato il 7 febbraio 2015 su www.inchiestaonline “lavoro e sindacato”
La democrazia ha subito uno strano destino: nata come l’irruzione delle energie vitali della società civile nello spazio della politica, sembra oggi capovolgersi nel suo opposto, in un rispetto solo formale e astratto delle regole e delle procedure. Da forza di cambiamento diviene forza di conservazione, e ciò è il segno evidente della sua decadenza e del suo svuotamento.
Tutta la storia della nostra modernità può essere letta come la dialettica mai del tutto ricomposta tra le due polarità della vita e della politica, della libertà e dell’ordine, del movimento dal basso e della regolazione dall’alto, e il tratto specificamente moderno di questa dialettica sta nel fatto che essa si svolge all’interno di un grande processo collettivo, nel quale è in gioco la dimensione di massa della società. La grandezza e la tragedia del Novecento è nell’estrema radicalità di tutto questo movimento, con tutte le ambiguità e le complicità tra spinte democratiche e spinte autoritarie. Massa e potere sono le due forze in campo, che si fronteggiano e si combinano nelle forme più svariate.
Oggi stiamo assistendo ad un processo di restaurazione dell’ordine politico, e non a caso è la governabilità, la manutenzione tecnica del sistema, l’unica bussola che viene tenuta. E la democrazia stessa viene piegata a questa logica stabilizzatrice.
I partiti politici, nati come i canali di scorrimento dal sociale al politico, sono oggi gli strumenti di un intrappolamento, che impediscono, alla radice, l’esercizio della democrazia come pratica sociale di massa. Vita e politica sono del tutto divaricate, incomunicanti.
Occorrerebbe un grande lavoro di mediazione, ricostruendo pazientemente i fili di una comunicazione tra la sfera sociale, con il suo insopprimibile pluralismo, e la sfera istituzionale, ma al contrario si lavora per una sistematica distruzione di questi fili, e tutto il disegno delle riforme istituzionali, questo grande mito retorico intorno al quale ruota il dibattito pubblico da oltre vent’anni, non è altro che il tentativo di una estrema concentrazione del potere, liberando finalmente il campo da tutta la rete dei poteri intermedi.
Non c’è dunque, come si vorrebbe far credere, nessun progetto di “liberazione” delle energie vitali della società, ma c’è solo un discorso retorico, con tutta la sua mitologia della velocità, del cambiamento e del coraggio, dietro il quale c’è solo la cruda logica della competizione per il potere. La retorica consiste appunto in questa tecnica di rovesciamento dei significati, e per questo occorre un’operazione di bonifica del linguaggio, ed è un buon criterio quello indicato da Papa Francesco, per cui “dietro ogni eufemismo c’è un delitto”, il che vuol dire che dobbiamo liberarci di tutta la zavorra della corrente ipocrisia.
In questo contesto, nel mezzo di uno sconvolgimento sociale a cui la politica non sa offrire nessuna risposta, dobbiamo domandarci se abbia un senso, e quale, tutto il discorso concentrato sulla contrapposizione di politica e antipolitica, tutta quella rappresentazione delle cose che spinge ad una difesa delle istituzioni, così come sono, contro le ondate irrazionali delle varie forme di populismo. A me sembra una chiave di lettura del tutto deviante.
Ciò che si dice antipolitica è quel groviglio vitale ed esistenziale che reclama di essere riconosciuto e rappresentato, e vedere in questo magma di sofferenza e di rifiuto solo il lato eversivo e distruttivo è l’errore tragico che stiamo compiendo, spingendo così ad una estrema contrapposizione le ragioni della politica e quelle della vita vissuta, con una spaccatura verticale che invade tutte le fibre più delicate del nostro organismo.
Mi sembra essenziale questo sguardo d’insieme sulla nostra condizione presente per chiarire qual’è la vocazione del sindacato e quale il suo approccio al tema della democrazia.
La mia tesi di fondo è che il sindacato non abita nelle sfere della politica, ma sta tutto immerso nella materialità delle condizioni sociali, e per questo il suo rapporto con la politica è sempre un rapporto di sfida e di conflitto, e oggi è più che mai evidente che parliamo di due diversi mondi, ciascuno con la sua logica, e che pertanto non ci possono essere commistioni o sovrapposizioni. La sfera d’azione del sindacato è quella dei mondi vitali nei quali prende forma il nostro essere come persone, dentro una determinata rete di relazioni sociali: il lavoro, la comunità, il territorio.
In questo, la rappresentanza sindacale si discosta radicalmente da quella politica, perché essa rappresenta non un punto di vista sulla realtà, ma la realtà stessa, non una opinione, o un’ideologia, ma una condizione, e per questo essa è per sua natura radicale, perché affonda nelle radici materiali della vita delle persone.
Tutto ciò richiede uno spostamento assai deciso del baricentro organizzativo dall’alto verso il basso, richiede cioè prossimità, vicinanza, continuo e reciproco interscambio tra il rappresentante e il rappresentato, in una logica che appare del tutto rovesciata rispetto alla verticalizzazione che è propria della politica.
Democrazia, per il sindacato, non è altro che questa aderenza alla realtà, questa capacità di rispecchiamento delle concrete condizioni di vita e di lavoro. Qui non c’è nessuna scissione di vita e politica, ma c’è la vita collettiva che si autorganizza.
Il modello democratico ottimale resta quello dei consigli, dove il delegato è l’espressione diretta del gruppo omogeneo, e non c’è propriamente “delega”, ma rapporto fiduciario, affidamento, all’interno di una comune condizione.
Questa è stata la grande forza di quella stagione, perché si stabiliva una totale osmosi tra movimento e organizzazione, e la decisione non veniva dall’alto, o dall’esterno, ma dentro una comune pratica collettiva. Penso che dobbiamo tendere ad avvicinarci il più possibile a questo modello, anche se le condizioni generali sono profondamente mutate, e soprattutto è cambiata la struttura produttiva, e vanno quindi necessariamente sperimentate nuove soluzioni.
Ma ciò che conta è la logica del sistema: se è un sistema incardinato sui lavoratori, o sull’organizzazione, se al centro sta la rappresentanza sociale o viceversa il pluralismo delle appartenenze politico-organizzative.
Le Rsu sono oggi a cavallo tra queste due diverse logiche, ma nulla impedisce che la Cgil, anche in modo unilaterale, scelga per una opzione di tipo “consiliare” ad esempio con primarie aperte a tutti i lavoratori per la scelta dei propri candidati, e con un investimento totale di fiducia nel ruolo contrattuale delle rappresentanze unitarie nei luoghi di lavoro.
I punti più controversi del Protocollo unitario possono così essere, almeno in parte, aggirati con una dichiarazione di intenti che ci impegna a garantire e rispettare il carattere democratico di tutto il sistema. Ma, al di là degli aspetti formali, ciò che conta è la chiara percezione della drammatica crisi sociale e democratica che si è aperta, nella quale tutte le domande di partecipazione non trovano sbocco e rischiano quindi di implodere, e di produrre solo un accumulo impotente di rabbia e di estraneazione.
Anche il sindacato è messo direttamente in gioco, e non può eludere il tema di una sua radicale riforma e democratizzazione.Come, con quale percorso, con quali innovazioni?
Nel sindacato convivono sempre due momenti, quello della rappresentanza democratica, e quello della stabilità organizzativa, il suo essere movimento e il suo essere istituzione. Ma ad un certo punto il peso della struttura burocratica rischia di essere il fattore dominante, dando vita ad una struttura verticalizzata e gerarchica che si frappone ad ogni serio tentativo di innovazione e di sperimentazione.
Accade così che la solidità della struttura organizzativa cessa di essere un punto di forza, di tenuta, e diviene un fattore di inerzia che deve essere superato. Io credo che ci troviamo esattamente in questo passaggio.
Possiamo allora lavorare sulla rete democratica esistente, sui delegati nelle Rsu, e farne il centro di un nuovo tipo di equilibrio, affidando a questa rete le scelte strategiche fondamentali e anche un ruolo primario nella selezione dei gruppi dirigenti, ai diversi livelli.
Le figure di vertice, di categoria o confederali, anziché essere il risultato delle mediazioni inter-burocratiche, potrebbero essere legittimate da una investitura democratica che viene direttamente dalla rete dei delegati. Naturalmente, occorre anche costruire nuove forme di rappresentanza nel territorio, per i pensionati, per l’area del lavoro precario, per le piccole imprese.
E occorre soprattutto un sistema di governo che sia il più possibile decentrato e articolato, senza inseguire il miraggio della leadership carismatica, la quale produce, come dice Max Weber, una sorta di “proletarizzazione spirituale”. In ogni caso, mi sembra indispensabile una nuova ventata democratica, alimentata non dallo spirito gregario, ma dalla partecipazione consapevole, per portare alla ribalta una nuova generazione di quadri dirigenti, se vogliamo scongiurare una possibile prospettiva di declino.
Non basta dire che le regole ci sono, che le procedure congressuali sono rispettate, che migliaia di iscritti sono coinvolti nel processo decisionale, perché è proprio questo attuale modello che lascia aperto un vuoto e lascia irrisolti i nodi di fondo della nostra legittimazione democratica. La prossima Conferenza di Organizzazione può essere una occasione per discuterne. Ma la discussione, per essere davvero efficace, deve andare alla radice del problema. In un mondo che cambia così velocemente e drammaticamente non possiamo fermarci a metà strada.
Intervento al seminario del 30 gennaio 2015 a Lecco promosso dalla Fondazione Pio Galli
Category: Economia, Lavoro e Sindacato