Paolo Pini: Produttività e regimi di protezione all’impiego

| 23 Marzo 2013 | Comments (0)

 

 

 

Testo di Paolo Pini dell’Università di  Ferrara che si pone questo interrogativo:

È vero che maggiori rigidità nel mercato del lavoro si accompagnano a minore produttività ? I dati non lo confermano, semmai sembra essere una falsa credenza. I due fenomeni “più flessibilità” e “minor crescita della produttività” sono tra loro statisticamente associati.

 

Alcuni giorni fa (14 e 15 marzo 2013), parlando di fronte ai Capi di Stato e di Governo dei 27 Paesi dell’Unione Europea, il Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha riproposto la convinzione che vi debba essere uno stretto legame expost tra dinamica delle retribuzioni reali e produttività del lavoro, e che esso debba essere realizzato mediante una riforma della contrattazione collettiva che conferisca al contratto aziendale il compito di stabilire questa relazione, ovvero dalla produttività alle retribuzioni reali.

L’esito è di per sé auspicabile, e fa pensare alla “regola aurea” del periodo keynesiano e fordista del secondo dopoguerra, secondo la quale appunto le retribuzioni reali devono crescere al pari della produttività del lavoro, se le quote distributive hanno da rimanere invariate. Peccato che anche analisi economiche delle istituzioni internazionali (ILO, 2012 ad esempio), e gli stessi dati grezzi di fonte Oecd od Eurostat evidenzino come negli ultimi venti anni e più le dinamiche tra le due variabili siano state divergenti, con la produttività che si è allontanata, verso l’alto, sempre più dai salari reali che invece si sono mossi verso il basso. Una ripresa della regola aurea è quindi più che auspicabile, diremo quasi dovuta.

Ma il senso del ragionamento del Governatore è ovviamente un altro, non certo quello di riproporre la “regola aurea”. Il Governatore intende dire che mentre i paesi virtuosi, quelli con gli avanzi della bilancia commerciale ed anche con i conti pubblici “in ordine”, hanno fatto crescere i salari reali poco meno, e comunque meno, della produttività del lavoro, quindi riducendo il costo del lavoro per unità di prodotto, quelli con deficit della bilancia commerciale ed anche con i conti pubblici “in disordine”, evidenziano una dinamica della produttività così debole che anche una modesta crescita dei salari reali ha fatto crescere il costo del lavoro per unità di prodotto. La soluzione del problema viene trovata nella flessibilità del mercato del lavoro, in particolare nella flessibilità contrattuale sui salari che se legati expost alla produttività del lavoro dovrebbero indurre una crescita della produttività, od almeno una dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto tale da non ridurre la competitività di un paese industriale. Ovvio, non solo questo è il fattore risolutivo chiamato in gioco; anche altri fattori sono rilevanti quali il credito che rischia il crunch e lo scarso grado di concorrenza dei mercati che sempre è la chiave risolutiva di ogni problema di competitività. Ma la flessibilità contrattuale nel mercato del lavoro rimane fattore cruciale e per accrescere questa flessibilità occorre lavorare: da un lato una crescita dei salari in linea con la produttività (qualunque essa sia, anche scarsa) consente di non far crescere il costo del lavoro per unità di prodotto, e quindi non perdere competitività, dall’altro se si legano i salari alla produttività ciò spingerebbe i lavoratori a lavorare più e meglio, accrescendo i ritmi di lavoro, riducendo l’assenteismo, e spingendoli verso un maggiore impegno, così come viene suggerito dai modelli principale-agente del tipo pay-for-performance od altri che fanno riferimento allo schema risksharing. Che questi modelli, e soprattutto le loro implicazioni se non le ipotesi di partenza, spesso cozzino contro le evidenze empiriche più e meno recenti, anche delle stesse istituzioni internazionali, poco importa. Importante è che “passi” il messaggio politico-economico se non ideologico; è questo che fa la differenza, nonostante l’ampia letteratura scientifica suggerisca che l’innovazione nei luoghi di lavoro è il fattore microeconomico cruciale alla base della produttività, assieme al fattore altrettanto cruciale, di tipo macroeconomico. che è la crescita della domanda aggregata (vedere riferimenti bibliografici alla fine del testo).

Circa i regimi contrattuali, contratto nazionale vs. contratto decentrato, retribuzioni reali vs. produttività, ci siamo già occupati in altre e numerosissime sedi, e qui non intendiamo ritornare, invitando il lettore interessato a dare uno sguardo alla letteratura internazionale e nazionale sul tema, ed anche alle nostre recenti note in cui si afferma che se relazione esiste passa non via maggiore flessibilità, semmai via maggiore innovazione (tecnologica, ma soprattutto organizzativa, dei luoghi di lavoro) (Antonioli, Pini, 2012, 2013) (http://docente.unife.it/paolo.pini/contrattazione-produttivita-crescita-ripensare-gli-obiettivi-ed-i-metodi/contrattazione-dinamica-salariale-e-produttivita-ripensare-gli-obiettivi-ed-i-metodi-di-davide-antonioli-e-paolo-pini-gennaio-2013/view).

Vorremmo invece qui riprendere una questione che è strettamente connessa alla precedente e che sempre pone al centro la flessibilità del mercato del lavoro, da un lato, e la dinamica della produttività, dall’altro. La flessibilità di cui parliamo è quella del mercato del lavoro plasmata dai regimi di protezione all’impiego, a cui spesso si fa riferimento per affermare che la scarsa produttività del lavoro è strettamente associata appunto a norme che assicurano una eccessiva protezione all’impiego, associazione che si sostanzia in una relazione inversa, ovvero maggiori protezioni all’impiego, minore dinamica della produttività. Non di relazione causale stiamo qui discutendo, quanto di semplice associazione, in quanto questa è ciò che spesso viene richiamata per lasciare intendere che Paesi con minori protezioni all’impiego, o con protezioni all’impiego in diminuzione, farebbero registrare dinamiche della produttività del lavoro più sostenute. Da ciò si derivano poi implicazioni di politica economica del tipo “ridurre le protezioni all’impiego, accrescere la flessibilità del lavoro, anche e soprattutto la flessibilità delle retribuzioni, per realizzare maggiore produttività del lavoro e quindi più elevata competitività delle imprese sui mercati”.

Abbiamo condotto un semplice esercizio, perché crediamo che spesso anche i semplici fatti stilizzati, cosi amati dagli economisti classici e così vituperati dagli economisti post-moderni, siano così informativi da far vacillare anche le più indiscusse credenze, od anche le più sofisticate tecniche statistiche. A volte meglio partire dai fatti stilizzati prima di avventurarsi nelle tecniche più sofisticate che dietro mal-celano facili credenze. Quanto alle evidenze empiriche sofisticate o meno, rinviamo alla letteratura citata in Damiani, Pompei, Ricci (2011), oltre che ai risultati presentati da questi autori.

Utilizzando le fonti statistiche messe a disposizione dall’OECD con il suo OECD, Statistical database on-line (http://stats.oecd.org/Index.aspx?DatasetCode=EPL_OV#), abbiamo “relazionato” due variabili cruciali: 1) l’indice di “Strictness of employment protection” nelle due versioni disponibili dell’indice (EPL) complessivo: version 1 (1990-2008) e version 2 (1998-2008), 2) l’indice di “Labour productivity”, per il totale dell’economia (“GDP per hours worked”), in livelli e in tassi di crescita annuali (1990-2008). Ciò al fine di rispondere alla domanda: “È vero che maggiori rigidità nel mercato del lavoro si accompagnano a minore crescita della produttività del lavoro?”.

Le tabelle ed i grafici riportati nel seguito documentano le variazioni dell’indice di protezione all’impiego (sull’asse verticale) e le variazioni nei livelli (od i tassi di variazione annuale) della produttività per ora lavorata (sull’asse orizzontale). I paesi sono distinti in quattro gruppi, dal più esteso al più ristretto: tutti i paesi OECD, i paesi europei, i paesi appartenenti all’Unione Europea, i paesi membri dell’Eurozona. In base alla disponibilità dei dati della versione 1 e della versione 2 dell’indice di protezione all’impiego, l’analisi è condotta per due periodi temporali, 1990-2008 per la versione 1, e 1998-2008 per la versione 2, per tutti e 4 i gruppi di paesi. Ogni tabella ed ogni grafico riporta dati e scatter per le due variabili, per un totale di 16 casi, 8 dei quali relativi alle variazioni nel livello della produttività del lavoro tra anno iniziale ed anno finale, ed 8 casi per i tassi di variazione annuali medi della produttività del lavoro, evidenziando anche una possibile linea di tendenza tra le due variabili (regressione semplice).

Infine è stato condotto uno specifico esercizio per l’Italia. In questo caso abbiamo rappresentato nei grafici gli andamenti dell’indice di protezione all’impiego e della produttività (GDP pro-capite e GDP per ora lavorata, sia nei livelli che nei tassi di crescita, oltre che il semplice GDP).

Con riferimento all’insieme dei paesi considerati, indipendentemente che si distingua l’insieme più ampio (OECD), oppure quello più ristretto (Eurozona), non vi è traccia di una relazione significativa e negativa tra variazione dell’indice di protezione all’impiego e dinamica (favorevole) della produttività. Nei casi nei quali una relazione emerge, essa è positiva piuttosto che negativa, ovvero a minori (maggiori) riduzioni dell’indice di protezione all’impiego corrispondono dinamiche più (meno) favorevoli della produttività del lavoro. In particolare tale relazione positiva e significativa si presenta robusta nei casi dei paesi dell’Unione Europea e dell’Eurozona nel periodo 1990-2008, con riferimento alle differenze nei livelli di produttività, mentre non sussiste alcuna relazione nel periodo 1998-2008. Ancora più significativa appare la relazione se si considerano i tassi di crescita della produttività piuttosto che le differenze nei livelli, e come in precedenza si ha perdita di significatività se il periodo considerato è più ristretto. Mentre sull’intero periodo in particolare in Europa, ove si sono concentrate le politiche di riduzione della protezione all’impiego, vi è evidenza di una significativa relazione positiva (variazioni positive dell’indice EPL sono associate a dinamiche di produttività favorevoli), negli anni dell’Euro tale relazione ha perso di significato, ma mai è divenuta negativa e significativa. Semmai non esiste toutcourt.

Per il nostro Paese, vi è evidenza che, nonostante la nota scarsa dinamica della produttività del lavoro, da fine anni novanta, ovvero dall’introduzione di normative che hanno progressivamente ridotto le protezioni all’impiego, ad iniziare dalla Legge Treu per passare a quella Biagi e successive, la riduzione dell’indice di protezione all’impiego si accompagna ad una riduzione della produttività del lavoro (nei tassi di crescita), oppure ad una scarsa varianza, e comunque verso il basso, del GDP pro-capite o della crescita del livello del GDP.

In conclusione che cosa ci raccontano i fatti stilizzati rispetto al quesito che ci siamo posti? Non emerge una conferma della relazione negativa tra andamento dell’indice di protezione all’impiego e dinamica della produttività del lavoro, per cui ad una riduzione delle protezioni all’impiego non corrisponde una crescita della produttività. Semmai l’evidenza sembra opposta: i Paesi che hanno maggiormente ridotto le protezioni all’impiego, sono quelli che mostrano dinamiche della produttività meno favorevoli, ed in ciò soprattutto sono coinvolti i Paesi europei, dove nell’ultimo decennio, ed ancor prima, sono state realizzate politiche di flessibilità del mercato del lavoro, in entrata favorendo forme contrattuali meno stabili, ed in uscita, rendendo meno costosi e più fattibili i licenziamenti, oppure in senso generale le riduzioni di personale accompagnate da ammortizzatori sociali di durata più o meno breve.

L’Italia non fa eccezione a questa regola; anzi è uno di quei paesi dove maggiore è stata la riduzione delle protezioni all’impiego, misurate dall’indice dell’Oecd (-1,68 nel periodo 1990-2008, versione 1, in valore assoluto non-inferiore a nessun altro Paese OECD, ed idem nel periodo 1998-2009, con -0,68, versione 2), e dove meno favorevole è stata la dinamica della produttività del lavoro. Non è quindi nella eccessiva rigidità del mercato del lavoro che risiede probabilmente l’origine della stagnazione, se non del declino relativo, della produttività del lavoro italiana. Anzi, si potrebbe argomentare che quelle riduzioni di protezioni all’impiego, abbiano potuto disincentivare le imprese a realizzare i guadagni di produttività che nel frattempo molti altri Paesi competitors dell’Italia andavano realizzando, risultando che i due fenomeni “più flessibilità” e “meno crescita della produttività” sono tra loro statisticamente associati. Lasciamo agli amanti di sofisticate elaborazioni statistiche ulteriori conferme di tale fatto stilizzato, e le relative spiegazioni. Noi ci limitiamo a segnalare che i fatti stilizzati puntano a demistificare una falsa credenza.

 

Per le Note metodologiche, la Bibliografia ed i grafici si rinvia all’allegato qui sotto

 

PDF Pini

Category: Economia, Lavoro e Sindacato

About Paolo Pini: Nato a Rimini nel 1956, laurea in scienze politiche indirizzo economico Università di Bologna e Master of Science in Economics alla London Shool of Economics and Political Science. Presidente del Centro di Ricerca sulla economia dell'Innovazione e della Conoscenza (CREIC) dell'Univresità di Ferrara, professore ordinario di Economia politica Università di Ferrara. Collabora a Sbilanciamoci e a Inchiesta

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