Paolo Pini: Europa ed Italia, cosa c’è da cambiare
La rotta dell’Italia, ma in una Europa da cambiare. Una Europa troppo economica e poco politica che ammazza la crescita e l’occupazione con il rigore di bilancio. Ma un’altra rotta è possibile, mantenendo la moneta unica ma cambiando regole e politica economica. Ed introducendo più democrazia, anche nell’economia.
1. La supremazia dell’Europa Economica sull’Europa Politica nell’Era Euro
È condivisa ormai l’opinione che la crisi economica ha colpito una Europa che si regge solo su un pilastro, e non su due pilastri. Il pilastro esistente è quello della Europa Economica, peraltro incompleta ed asimmetrica. Il pilastro mancante è l’Europa Politica, che avrebbe dovuto portare agli Stati Uniti d’Europa. Avere sostituito alla prospettiva dell’Europa degli Stati quella dell’Europa intergovernativa è la più evidente dimostrazione che il progetto europeo si è ripiegato su se stesso, ed a ciò ha contribuito la non approvazione della Costituzione Europea.
Ma le radici stanno a monte. A fronte delle difficoltà di procedere verso la strada della Europa Politica in una fase in cui l’Unione Europea procedeva a tappe forzate all’allargamento verso est, si è avviato un processo centrato sulla moneta unica come strumento di armonizzazione e convergenza delle economie dei singoli Paesi al fine di giungere (armonizzate le economie) alla unità politica. Impossibilitati a fare l’Europa Politica per via politica, si è percorsa la strada dell’Europa Economica per realizzare quella Politica, come second best.
La moneta unica richiede però due condizioni per poter funzionare: un tasso di inflazione analogo tra Paesi, e deficit fiscali e debiti pubblici contenuti. Soprattutto porta con sé la necessità di sistemi economici armonizzati e convergenti. Armonizzazione e convergenza implicano anche una gestione di equilibrio delle bilance commerciali dei vari Paesi e dei flussi di commercio intra-europeo. Questo era invece caratterizzato da un eccessivo surplus dell’area tedesca e nordica che avrebbe richiesto di essere ridotto con una maggiore domanda interna e/o maggiore inflazione nelle aree con avanzi strutturali. Invece di procedere in tal senso, sono stati posti vincoli alle politiche di bilancio degli Stati con deficit commerciali, e richieste via via più pressanti, sino a divenire vincolanti, di riforme strutturali, del mercato del lavoro e per la concorrenza dei mercati in generale.
Questo processo si è scontrato con una conseguenza, in parte endogena, e con un accadimento, in parte esogeno.
La conseguenza endogena è il fatto che con la moneta unica non si è avviata la armonizzazione delle economie dei vari Stati dell’Unione, anzi la moneta unica ha consentito di, od è stata utilizzata per, rafforzare le differenze e le distanze tra Paesi. Invece di convergere, vi è stato un processo di divergenza nei tassi di crescita dei Paesi e nei flussi commerciali e finanziari tra gli stessi.
Secondo alcuni la “responsabilità” sarebbe della politica di alcuni Paesi (i deboli) che invece di riformare strutturalmente i sistemi economici nazionali nei tempi richiesti, i mercati del lavoro, dei beni e delle attività finanziarie, ha rimandato le necessarie riforme, portando tali Paesi a “vivere al di sopra delle loro possibilità”. Secondo altri, sono stati invece i Paesi forti che hanno goduto di un vantaggio competitivo iniziale e in virtù di tale vantaggio hanno proceduto a passi forzati nelle riforme strutturali in un contesto nel quale la moneta unica li metteva al riparo dalle spinte di rivalutazione del cambio, mentre la stessa moneta unica metteva in difficoltà gli altri Paesi impossibilitati a svalutare. Indipendentemente da chi abbia ragione, è indubbio che negli anni della moneta unica l’armonizzazione dei sistemi economici non si è realizzata; anzi la distanza tra Paesi forti e “virtuosi” e Paesi deboli e “viziosi” è aumentata, e le economie si sono divaricate. I differenziali dei tassi di crescita del reddito tra Paesi sono aumentati, e sono cresciute le distanze tra i debiti pubblici e privati tra Paesi come conseguenza anche della crescita negli squilibri dei saldi commerciali sempre tra i medesimi Paesi (Krugman, 2009).
È poi sopraggiunta la crisi economica del 2008, in parte endogena, perché anche importata dagli Stati Uniti.
La prima risposta, di qua e di là dell’Atlantico, come sappiamo, è stata quella di arginare la crisi nei mercati finanziari, di evitare che questa si diffondesse sui mercati reali, cercando di evitare prima i fallimenti dei sistemi bancari, e poi il credit crunch nei mercati del credito per imprese e famiglie.
Negli Stati Uniti veniva realizzata una tiepida, ma comunque indispensabile e non irrilevante quantitativamente, politica fiscale espansiva che accompagnava una politica monetaria decisamente espansiva che portava i tassi di interesse a zero. In Europa il rigore fiscale è stato inizialmente alleggerito e la politica monetaria ha accompagnato la domanda di moneta sui mercati mantenendo sempre controllato però il tasso di inflazione, essendo la stabilità dei prezzi l’obiettivo cardine della BCE. Le manovre contro la crisi non hanno impedito però che i deficit di bilancio ed i debiti pubblici (ed anche privati) peggiorassero, in modo alquanto diseguale fra i Paesi dell’Unione Europea. Anzi la crisi ha peggiorato le situazioni debitorie.
Come è noto questo ha portato ad una situazione nella quale neppure usciti dalla crisi del 2008-2009, con i tiepidi segnali di ripresa nel 2010, si è ripiombati in una crisi dei mercati finanziari europei e quindi delle economie reali nel 2011. A fronte di questa seconda crisi, mentre negli Stati Uniti si realizzavano politiche monetarie più espansive e politiche fiscali non restrittive, in Europa si è risposto da subito con più rigore sui conti pubblici e sui sistemi di welfare, per realizzare il rientro dai deficit di bilancio e dai debiti pubblici, ovvero con politiche severe di austerità, e con un rafforzamento della domanda di riforme strutturali sui mercati del lavoro (soprattutto), e dei beni (anche, ma non troppo) e dei mercati finanziari (assai poco) (Krugman, 2009; 2012; Pianta, 2012; Bianchi, Pini, 2009).
2. Le risposte alla seconda crisi
Dopo una fase (breve) in cui sono state poste in discussione le politiche economiche liberiste e neo-liberiste ed i loro effetti negativi sul funzionamento dei mercati a scapito della crescita e della occupazione, soprattutto in Europa la pressione dei mercati ha convinto molti a ritornare alle vecchie ricette del rigore ad ogni costo e del non intervento dello Stato per sostenere la domanda.
La logica con la quale si è risposto alla crisi dei mercati finanziari si è tradotta in un mix di rigore e liberismo: le perdite sono collettive, i guadagni sono individuali, che applicato al sistema finanziario in crisi vuol significare socializzare le perdite dei mercati scaricandole sui conti pubblici e sulla collettività che paga con più oneri fiscali, per poi far pagare due volte alla collettività, anche per la crescita dei deficit e debiti pubblici, imponendo misure di austerità e di riduzione del welfare in nome del rigore, trasferendo eventualmente sui mercati anche quote di welfare pubblico (privatizzazione del welfare) (Bianchi, Pini, 2009; Brancaccio, Passarella, 2012; Pianta, 2012; Stiglitz, 2012).
Ovviamente questo sentiero sopra esposto non sta procedendo in modo lineare e neppure con quella rigidità e pervicacia che alcuni studiosi liberisti e neo-liberisti auspicherebbero.
Ciò per una serie di ragioni, esogene ed endogene allo scenario europeo.
Una esogena, prima per importanza, è che negli Stati Uniti la linea dell’austerità e del libero mercato che intendeva garantire ancor più ricchezza al 10%, se non all’1%, della popolazione non è premiata dall’elettorato, per cui si confermano politiche monetarie espansive mentre sulla politica fiscale prosegue la contrapposizione tra linea liberista e linea non-liberista (non può essere chiamata keynesiana, però), come è avvenuto sul fiscal cliff.
In secondo luogo, in Europa la linea dell’austerità produce danni gravi: gli effetti economici che essa provoca sono notevoli sia sulla crescita del reddito, sia sulla stabilità dei conti pubblici, ed anche perniciosi sul piano politico (elezioni incombenti in Paesi importanti). I Paesi deboli in ragione delle politiche di austerità a loro imposte stanno pagando sia sotto forma di perdite nei redditi e nell’occupazione, sia sotto forma di peggioramento dei deficit e debiti pubblici che si volevano migliorare. Il peggioramento è andato al di sopra delle pur cupe previsioni, in quanto, come osservato anche dal Fondo Monetario Internazionale (Blanchard, Leigh, 2013; Corsetti, Meier, Müller, 2012), sono stati sottostimati grandemente i moltiplicatori della politica fiscale, per cui misure fiscali restrittive hanno avuto impatti negativi sul reddito ben maggiori di quelli previsti, determinando tassi di crescita molto negativi del PIL dei Paesi più deboli, ad iniziare dalla Grecia, Portogallo, ed anche Spagna ed Italia, ed un rallentamento significativa della crescita in tutta l’area Euro che tocca anche la Germania per la quale si hanno previsioni economiche negative. Tutto ciò contribuisce a sollevare dubbi sulla scelta del rigore ad ogni costo.
In terso luogo, in Europa vi sono istituzioni, forze politiche e sociali, ed anche economisti avveduti, che in qualche modo hanno indotto un aggiustamento, anche se certamente inadeguato, nelle politiche di rigore. Sono stati introdotti strumenti che hanno conferito più potere alla Banca Centrale Europea di intervenire con operazioni monetarie tali da influenzare i mercati finanziari ed il comportamento delle istituzioni finanziarie e creditizie.
Sappiamo però che gran parte di questa liquidità immessa dalla BCE è servita alle banche (a) per finanziarsi a basso costo ed acquistare titoli pubblici con rendimenti superiori al tasso pagato alla BCE medesima, piuttosto che soddisfare la domanda di prestiti da parte di imprese e famiglie con effetti positivi sull’economia reale, ed al contempo (b) per procedere alla ricapitalizzazione richiesta dai vincoli più stringenti previsti dalla revisione degli accordi di Basilea (Ruffolo, Sylos Labini, 2012; Leon, 2012). Gli effetti negativi della politica di austerità non si riducono, benché vi sia una tregua nella tensione sui mercati finanziari e sugli spread tra titoli pubblici emessi nei diversi Paesi. Nel frattempo, però, gli squilibri nei saldi commerciali tra Paesi dell’area Euro non si riducono, anzi crescono, Questi squilibri sono parte del problema della crisi europea, con i Paesi forti che hanno costruito la loro crescita sulla componente della domanda estera, sulle quote di commercio intra-europeo piuttosto che extra-europeo, col rischio di politiche del tipo Beggar thy neighbours, in un gioco che è tendenzialmente a somma zero in quanto le esportazioni dell’uno sono le importazioni dell’altro e parallelamente i deficit ed i debiti (pubblici, ma anche privati) dell’uno sono gli avanzi ed i crediti dell’altro (Eichengreen, 2012; Protopapadakis, 2012; iAGS, 2012).
3. Due visioni dell’europeismo e su come affrontare la crisi
Non vi sono dubbi che tale evoluzione negativa basata sul primato delle ragioni dell’economia su quello della politica sia alla base di come la crisi è stata affrontata, privilegiando la ricetta dell’austerità su quella della crescita. Tale evoluzione è stata governata da una visione fondamentalmente liberista dell’europeismo, contrapposta ad una visione che interpreta l’europeismo in termini di economia sociale di mercato.
Il governo dell’Unione Europea, della sua politica economica in primo luogo, è stato appannaggio di una linea politica conservatrice. Anche indipendentemente dagli equilibri politici nei vari Paesi, che sono mutati e continuano a mutare nel tempo, la sintesi che è emersa in ambito europeo è stata più affine al liberismo che al riformismo. Il prevalere della visione liberista ha condotto alla affermazione del rigore nel campo economico, alla supremazia dei mercati rispetto al mantenimento del welfare state che invece viene ridimensionato ed in qualche misura anche privatizzato, alla introduzione di vincoli sempre più stringenti nel campo delle politiche fiscali, alla deregolamentazione soprattutto del mercato del lavoro. In questa visione la competitività è soprattutto una carta da giocare sui mercati esteri ridimensionando i mercati interni, e deve essere realizzata utilizzando tutti gli strumenti di flessibilità possibili per accrescere la capacità di esportazione.
Non potendo più utilizzare lo strumento della svalutazione, alcuni Paesi, Italia compresa, ne hanno sofferto più di altri, mentre la stabilità della moneta unica ha consentito di evitare ad altri ancora, Germania anzitutto, quella rivalutazione della moneta nazionale che certamente sarebbe avvenuta a seguito di avanzi sempre più cospicui dei loro scambi commerciali. Che ciò implichi una crescita contenuta, bassa e cattiva occupazione, crescita delle disuguaglianza, è in un certo senso un effetto collaterale, che può essere affrontato da un sistema di welfare minimale e da mercati che si preoccupano di sostituire al welfare pubblico quello privato dei sistemi assicurativi. Così avviene che la via suggerita dal liberismo moderno è quella che viene presentata come true progressivism, per distinguersi da quello errato a cui sarebbero ancora ancorati coloro che vogliono mantenere intatto, anche se riformato, il welfare state pubblico, tacciati quindi di conservatorismo.
È evidente che chi sostiene una visione europeista centrata sulla economia sociale di mercato, tra cui la socialdemocrazia europea, si muove oggi in un contesto angusto; e se rifugge da una facile quanto inefficace contrapposizione rispetto alla introduzione dell’Euro, non può che procedere su strade che sono delimitate da vincoli e paletti, oltre che dalla dimensione della globalizzazione. Infatti, la internazionalizzazione dei mercati finanziari e le resistenze alla regolamentazione su scala globale contribuiscono alla adozione delle politiche di rigore per gli stati nazionali in ambito europeo in presenza della moneta unica. È cambiato il contesto nel quale le politiche di crescita possono operare.
Tuttavia, proprio nel presente contesto europeo sono possibili altre opzioni di politica economica, alternative a quelle del binomio liberista che associa rigore economico e riduzione del welfare.
Il dibattito in Europa è aperto, ed in Italia non possiamo “consumarci” nella discussione sull’Agenda Monti, quando proprio in Europa i partiti e movimenti democratici e socialisti (iAGS, 2012, EuroMemoGroup, 2012) indicano che un’altra Rotta è possibile. Partendo dalla dimensione europea possono essere individuate almeno sette azioni cardine su cui come sostenitori della visione di una Europa economica e politica, sociale di mercato dobbiamo lavorare. Queste consentirebbero all’Europa, e quindi all’Italia, di riprendere quel sentiero di crescita che ha come obiettivo principe la piena occupazione ed il benessere collettivo. Solo nell’ambito di queste azioni cardine si aprono le possibilità di intraprendere specifiche politiche strumentali per conseguire crescita e occupazione.
1) Occorre estendere competenze, poteri e strumenti della BCE in modo che questa operi come effettiva Banca Centrale che ha il precipuo compito non solo di controllare la dinamica delle variabili monetarie che influenzano la dinamica dei tassi di interesse ma anche quella di garantire condizioni di robustezza e solidità della moneta unica sui mercati internazionali ponendo al riparo le politiche fiscali, garantendone l’efficacia, dalla speculazione sui mercati finanziari. In altri termini la BCE deve essere posta nelle condizioni di operare come “prestatore di ultima istanza”.
2) Occorre che a livello comunitario gli investimenti pubblici finanziati sui bilanci nazionali, anche in funzione anticiclica, siano consentiti e non vincolati dalle regole poste dal Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria del marzo 2012 (Patto di Bilancio Europeo/Fiscal Compact), al fine di poter utilizzare la politica fiscale per contrastare la crisi e favorire la crescita.
3) Occorre realizzare l’emissione di euro bonds, secondo le diverse tipologie. Alcune di queste sono dedicate a finanziare progetti europei di ampia dimensione che possano innescare crescita quantitativa e qualitativa delle economie europee, quali quelli per sostenere l’economia digitale, l’economia verde, l’economia della conoscenza. Altre tipologie di euro bonds devono essere utilizzate per stabilizzare la gestione dei debiti pubblici nazionali e creare un mercato ampio di titoli pubblici europei basati su garanzie reali, come monti economisti hanno da tempo suggerito.
4) Occorre ampliare la dimensione del bilancio pubblico europeo che ora pesa solo l’1% del prodotto interno lordo dell’insieme degli Stati membri, su cui la discussione è stata congelata sino al giugno 2013 (Budget 6). L’innalzamento del budget a disposizione della Commissione Europea, contrastando le politiche di quanti invece vogliono ridurlo, consentirebbe di supportare interventi più robusti sia per il riequilibrio strutturale tra i Paesi dell’Unione, sia per progetti infrastrutturali nel capitale fisico e nel capitale intangibile.
5) Occorre accelerare la realizzare dell’armonizzazione fiscale in ambito comunitario volta a rendere omogenei i regimi fiscali applicati in ciascun Paese membro dell’Unione. La presenza di sistemi fiscali molto differenti costituisce un evidente incentivo a praticare politiche nazionali competitive e non cooperative tra gli Stati membri dell’Unione, e riducono evidentemente l’efficacia delle politiche fiscali, di quelle industriali e delle politiche del lavoro.
6) Occorre finalizzare le iniziative di coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri non solo sugli obiettivi di consolidamento dei debiti nazionali, il cui timing deve essere rivisto, ma anche sulla riduzione degli squilibri dei flussi commerciali tra gli Stati membri. Gli squilibri dei flussi commerciali costituiscono una delle principali cause all’origine delle tensioni sulla moneta unica. Le politiche di coordinamento devono operare non solo sui Paesi con deficit strutturali, chiedendo a questi di realizzare riforme strutturali dei loro mercati interni, ma soprattutto sui Paesi con avanzi strutturali delle loro bilance commerciali, per indurli a sostenere la loro domanda interna e non affidare la crescita solo all’espansione dei mercati esteri.
7) Occorre intervenire sul sistema bancario, accrescendone il controllo, al fine di ridurre il rischio sistemico con strumenti sia di tipo fiscale (tassando specifici strumenti finanziari e transazioni) che di tipo regolativo (vietando specifiche attività e transazioni), facendo molto meno affidamento sugli strumenti della “ponderazione del rischio” e della “capitalizzazione” che si sono dimostrati in gran parte inefficace se non anche controproducenti (introdotti con Basilea 2 e Basilea 3). Il sistema bancario ha perso le sue funzioni complementari all’economia reale, per il sostegno delle imprese e delle famiglie, ed è diventato pressoché auto-referenziale essendo venuta meno da decenni la separazione tra attività bancaria di deposito e l’attività bancaria di rischio che era stata introdotta a seguito delle crisi bancarie di inizio secolo scorso. Perché il credito ritorni ad essere funzione dell’economia reale, occorre ripristinare, nelle nuove condizioni odierne, quella separazione.
Crediamo che ogni progetto di politica economica nazionale, per quanto ambizioso esso sia, debba misurarsi con le due visioni dell’Europa e con le sette azoni cardine di cui sopra, e misurarsi con la necessità di intervenire per cambiare l’Europa che abbiamo. Gli Stati Uniti d’Europa rimangono e devono rimanere la meta verso la quale indirizzare la politica e l’economia. L’Europa che abbiamo è però purtroppo quella nella quale la moneta unica, per gli errori intrinseci nella sua nascita, impone vincoli e regole che devono essere cambiati quanto prima.
L’Italia che esce dalle elezioni dovrà lavorare in Europa perché si realizzino tali cambiamenti. Poche opzioni politiche oggi presenti nella campagna elettorale offrono tale prospettiva. Il centro-destra, con quel poco di centro che è rimasto, offre solo una prospettiva confusa e di deriva populista, i cui rischi sono cresciuti con il “patto di convenienza” tra berlusconiani e leghisti, attestato dalla proposta, tanto vincolante per l’alleanza quanto strampalata per l’Italia, del 75% delle imposte che devono rimanere nelle regioni del nord. Il montismo ha dato prova nell’ultimo anno di offrire una ricetta neppure tanto liberista, essendo intervenuto molto sulle tasse (alzandole in modo diseguale), poco sulle spese (proseguendo spesso nella pratica dei tagli lineari), quasi per nulla sulla concorrenza dei mercati (dove in alcuni casi ha garantito il mantenimento di posizioni di rendita), per non menzionare i temi “crescita”, “disuguaglianza”, “diritti e tutele” che non sono mai stati all’ordine del giorno e sono relegati ai margini dell’Agenda Monti. Il centro-sinistra è l’unica offerta che potenzialmente lascia intravvedere prospettive nazionali di cambiamento in una Europa che deve essere riformata, e che potrebbe avere il peso e la forza per realizzarle, se premiata dagli elettori. Dobbiamo solo sperare che, in caso di successo, abbia anche la coerenza per farlo. Sappiamo bene, purtroppo, che non sempre ciò è avvenuto.
Riferimenti bibliografici
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Category: Economia, Osservatorio Europa