Matteo Gaddi e Nadia Garbellini: Contrattazione e costo del lavoro: i conti di Confindustria

| 22 Ottobre 2015 | Comments (0)

 

 

 

Il presidente di Confindustria ha recentemente motivato la rottura delle trattative con i sindacati affermando che le richieste di questi ultimi “sono ormai irrealistiche […] per il futuro del Paese”.

La base di tali affermazioni è una nota di CSC (Centro Studi Confindustria) le cui argomentazioni fondamentali si possono così riassumere: le retribuzioni dei lavoratori sono cresciute, nell’ultimo triennio, più della produttività. È quindi cresciuta la quota del reddito nazionale che va ai salari a scapito di quella che va ai profitti, riducendo la competitività delle imprese da un lato, e la loro capacità di effettuare investimenti dall’altro. Si deteriorano quindi le possibilità di crescita non solo presenti, ma anche future del Paese.

A questo punto è d’obbligo chiedersi: le argomentazioni del CSC sono fondate da un punto di vista empirico?

Partiamo dal dato sulle retribuzioni reali nel periodo 2013-2015. Stando al rapporto CSC, queste sarebbero cresciute del 4.6%. Consultando i dati Istat, tale cifra risulta essere il tasso di crescita dell’indice trimestrale delle retribuzioni lorde per Ula (unità di lavoro equivalenti al tempo pieno) dal primo trimestre del 2013 a quello del 2015. Intanto, si tratta di dati provvisori (quelli definitivi escono dopo 12 mesi, quindi nel nostro caso a marzo del prossimo anno).

In secondo luogo, i dati trimestrali sono molto volatili: già utilizzando il secondo trimestre la crescita è del 3.7%. Incidentalmente, non si tratta di un triennio, come riportato dalla nota CSC, ma di un biennio. Infine, stiamo parlando di retribuzioni lorde, che come noto sono cosa ben diversa da quelle effettivamente percepite.

In base a queste considerazioni CSC sostiene che è molto cresciuta la quota di valore aggiunto che va al lavoro “tanto che essa è tornata ai picchi storici di metà anni Settanta. Nel manifatturiero è arrivata al 74,3% nel 2014”. Per cominciare, la quota salari calcolata da CSC include tutti i costi del lavoro che fanno parte della retribuzione lorda. In secondo luogo, reddito nazionale e valore aggiunto sono identici solo in aggregato, non in ogni singola branca (o gruppo di branche). Considerazioni settoriali, ad esempio relative al manifatturiero, sono dunque contabilmente discutibili.

In terzo luogo, vengono applicate due correzioni. La prima: viene inclusa una stima del reddito da lavoro autonomo (attribuendo un costo del lavoro pari a quello medio dei lavoratori dipendenti): questa prassi, ancorché consolidata e ampiamente utilizzata, si presta a produrre una notevole differenza rispetto a quello che sarebbe il mero costo del lavoro dipendente (cioè quello coperto da contrattazione collettiva). La seconda: ai calcoli sul costo complessivo del lavoro si aggiunge – dal 1998 – l’IRAP. Per calcolare l’IRAP si sottraggono dai ricavi i costi dell’esercizio, ma non i costi del personale.  Per questo motivo il CSC la associa al costo del lavoro, pur non essendo questa cifra imputabile al lavoro in quanto tale. L’IRAP risulta nel 2014 pari a 30.468 milioni di euro (–4.299 milioni di euro, pari a –12,4%: rispetto a al 2014). Dai soggetti privati affluiscono 20.921 milioni di euro (–3.892 milioni di euro, pari a –15,7%) e dalle amministrazioni pubbliche 9.547 milioni di euro (–407 milioni di euro, pari a –4,1%). (Dati MEF, Bollettino entrate tributarie). Lo studio CSC effettua quindi un confronto con il resto d’Europa, dove non necessariamente viene compreso nel costo del lavoro qualcosa di simile all’IRAP.

Come indicatore aggiuntivo, si utilizza il rapporto MOL/valore aggiunto. Il MOL (Margine Operativo Lordo) viene ottenuto sottraendo al valore aggiunto gli altri costi di produzione interni, principalmente il costo del lavoro (i costi esterni sono già stati detratti calcolando il valore aggiunto).

Il MOL è molto diffuso nell’analisi di bilancio in quanto consente di valutare (essendo al loro di ammortamenti, svalutazioni e accostamenti, cioè grandezze che esprimono costi non monetari) il valore delle risorse finanziarie (cioè il capitale circolante netto) create dall’attività operativa dell’azienda. E’ quindi un indicatore di redditività di una azienda, utile per comparare i risultati di diverse aziende che operano in uno stesso settore; esso viene quindi utilizzato per  valutare il prezzo di una azienda e quindi il prezzo di un’offerta pubblica iniziale. Ha senso utilizzarlo per una valutazione macroeconomica?

Sempre secondo il CSC, la crescita della produttività del lavoro italiana (10,9% tra nel 2000-2014) è bassa rispetto agli altri Paesi europei: 31,5% in Germania, 41,3% in Francia, 40% in Spagna. Tuttavia, dato il modo in cui la produttività viene calcolata, tale dinamica potrebbe essere dovuta a fattori di costo non imputabili al rendimento del lavoro. Tale ipotesi è avvalorata da quanto scritto più sotto: la dinamica dei salari in Italia è stata molto simile a quelle di Spagna e Germania.

Si fa poi riferimento al CLUP (costo del lavoro per unità prodotto), che non è a sua volta un indicatore della produttività, ma dei costi unitari, del lavoro. Secondo il CSC il disallineamento tra la dinamica retributiva e quella della produttività ha comportato un aumento del CLUP  che si trasferisce in una dinamica dei prezzi più alta che danneggia competitività e margini di profitto.

Per fortuna il rapporto CSC precisa i dati di una busta paga.

Su una retribuzione media di 40150 euro, al lavoratore ne restano 20.328: 10822 se ne vanno in contributi INPS e INAIL a carico dell’azienda, altri 6.487 sono imposte sul reddito (Irpef) e 2.783 sono i contributi a carico del lavoratore per l’INPS. Il costo della retribuzione complessiva, tra il 2000 e il 2014, è aumentato del 6,5%, ma la busta paga netta solo del 2,6%.

Quindi non sono aumentati i salari percepiti realmente dai lavoratori, ma è aumentata l’imposizione fiscale e contributiva sul lavoro. infatti l’aliquota media IRPEF è passata dal 19,9% al 22,1% (Fonte: OCSE, Taxing Wages), e la contribuzione INPS a carico sempre dei lavoratori dal 9,19 al 9,49%.

Si potrebbero fare molte altre considerazioni, sia teoriche che empiriche; quanto qui esposto è tuttavia sufficiente a far emergere come i dati siano utilizzati in maniera strumentale alla tesi sostenuta, che il lavoro si sia accaparrato una quota eccessiva del reddito nazionale, minando le possibilità di crescita del Paese.

 

 

Category: Economia, Lavoro e Sindacato, Politica

About Matteo Gaddi: Matteo Gaddi è nato a Mantova, città nella quale vive e lavora. È stato consigliere comunale dal 1996 al 2010 per il Prc, nel quale ha rivestito il ruolo di responsabile del nord. Attualmente è delegato sindacale nel suo posto di lavoro e tra i coordinatori nazionali delle esperienze di autoconvocazione delle Rsu. Membro del direttivo regionale lombardo della CGIL e del coordinamento nazionale della sinistra sindacale Democrazia e lavoro. Si occupa di politiche industriali e inchiesta operaia. Per le Edizioni Punto Rosso ha pubblicato: “Lotte operaie nella crisi” (2010) e "Crisi industriale e classe operaia" (2015). Ha curato nel 2015 il volume, “Vittorio Rieser. Intellettuale militante di classe”, sempre per le Edizioni Punto Rosso.

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