Luciano Gallino: In questi anni un gioco al ribasso
Diffondiamo da WWW.famigliacristiana.it del 30 aprile 2015 questa intervista di Francesco Gaeta a Luciano Gallino
Non lo dice chiaramente, ma se dovesse scegliere una parola che riassuma la “temperatura” del lavoro in questo scorcio di Italia, Luciano Gallino, sociologo e decano degli studiosi del tema nel nostro Paese, sceglierebbe la parola dumping, ribasso. Perché, come dice lui, i Governi italiani degli ultimi 20 anni su questo terreno “hanno scelto la via bassa” per aggirare gli ostacoli senza affrontarli. “La via bassa delle relazioni industriali, dell’erosione dei diritti, degli scarsissimi investimenti su formazione professionale. Lo sa qual è percentuale di diplomati del nostro paese? E’ il 23%, la metà degli altri Paesi europei. Abbiamo tolto la spina alla scuola. E invece di costruire un patrimonio di competenze e capacità – e dunque di domanda e di potere di acquisto – si è scelto il contrario. E ora paghiamo”.
Da dove è iniziata questa “slavina del lavoro”.
Vedo una data chiave: il 1997. L’anno in cui si è introdotto il “lavoro in affitto” e si sono moltiplicate le forme contrattuali dei cosiddetti lavori atipici. E’ stato quello scorcio di fine anni ’90 a sfondare il muro delle garanzie. Ma eravamo vittima dell’Ocse (ndr. L’Oragnizzazione per la cooperazione e lo sviluppo), che nei suoi rapporti teorizzava un nesso preciso tra rigidità della protezione legale del lavoro (i vincoli al licenziamento) e disoccupazione. In sostanza, diceva, basta rendere più facile licenziare per aumentare i tassi di occupazione, per creare nuovi posti. Un errore madornale. Che 10 anni dopo è stato ammesso dagli stessi capieconomisti dell’Ocse. Ma noi invece …
D. Da noi cosa è accaduto?
Che si è andati avanti su quella strada. Il Jobs Act sembra una scopiazzatura di quell’era lì. Minori garanzie, dunque maggiore lavoro. Una cosa fuori dal tempo, ormai smentita da fior di studi che dicono l’opposto: è dagli alti salari e dagli elevati investimenti in formazione che si allarga la domanda di lavoro nei Paesi evoluti. Noi invece vogliamo competere con la Cina ma sui costi. Ridicolo, c’è una differenza che è ancora di 1 a 10 su una singola ora di lavoro. Appunto, abbiamo scelto la via bassa.
D. A parte la crisi del sindacato, di cui si parla da anni, sembra che anche in Parlamento il lavoro abbia poca rappresentanza politica.
E’ vero, e per due motivi. E’ finita l’era della sinistra di derivazione marxista, che su quello fondava gran parte della sua identità. Cosa ci sia stato e ci sia oggi di sinistra in quel partito che da Pds, poi Ds, oggi è diventato il Pd io francamente non so. Direi poco o nulla. Una forza politica che lascia tutto il campo al cosiddetto libero mercato e teorizza che i salari devono adeguarsi all’offerta per conto mio con quella cultura lì ha tagliato i ponti.
D. E il secondo motivo?
E’ venuta meno quella cultura cattolica attenta al lavoro che negli anni 60 e 70 ha costruito, dal centro, molta legislazione di garanzie lungimiranti, ha dato voce a diritti, ha rappresentato un blocco sociale, sindacale, politico di innovazione. Era un’area che aggregava associazionismo come le Acli, pezzi di poltica (la cosiddetta sinistra Dc) e di sindacato (la Cisl degli anni 70). E’ stato un patrimonio prezioso. Che oggi non esiste più. E si sente.
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