Ivan Cavicchi: Il conflitto tra salute ed economia

| 9 Febbraio 2014 | Comments (0)

 

 

 

Diffondiamo da “Inchiesta” ottobre-dicembre 2013 l’intervista fatta a Ivan Cavicchi da Gino Rubini e Luciano Berselli dopo l’uscita del suo libro Il riformista che non c’è, le politiche sanitarie tra invarianza e mutamento (ed. Dedalo, Bari 2013). Ivan Cavicchi insegna  sociologia dell’organizzazione sanitaria  presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Tor Vergata di Roma. Il suo sito è www. ivancavicchi.it. I disegni provengono dalla rivista Napoli Monitor.

D. Comincerei con il fare il punto sulla situazione. Tu parli di nuovi contesti e di contesti finiti, di capitoli che si chiudono e di capitoli da aprire, di politiche che si stanno esaurendo e di politiche nuove da mettere in campo. Ci aiuti ad inquadrare gli scenari. Cosa vogliono  dire tutte queste cose?

R. Vogliono dire che è cambiata la fase. Si è chiuso il welfarismo durato tutto il 900, si è aperto il  post welfarismo con le crisi economiche, la recessione, le  culture neoliberali e contro riformatrici, ecc. In ragione di ciò  sono cambiati i rapporti tra diritti e risorse(etica e economia), in pratica da una relazione complementare, (vale a dire i diritti sono compossibili con  lo sviluppo della ricchezza)siamo passati ad una relazione  conflittuale(i diritti sono un costo per lo sviluppo economico cioè improduttivi quindi incompatibili). Oggi  il problema  per tutti noi è come i diritti nella post modernità tornino ad essere ricchezza e nello stesso tempo economia cioè come in questo contesto si ricostruiscono  rapporti di compossibilità tra welfare ed economia .

 

D. Parli di ricchezza come se fosse un’altra cosa rispetto allo sviluppo economico, perché questa distinzione? Eppoi questa nuova parola “compossibilità” che vuol dire? E’ un altro modo per dire “compatibilità”

R. Chiarisco subito. Compossibilità e compatibilità sono due idee diverse con la prima intendo un rapporto tra diritti e economia, tra domanda e offerta, tra bisogni e servizi, tra professioni e malati ecc, senza contraddizioni. Con la seconda intendo un rapporto per esempio tra diritti e economia nel quale i diritti si adattano all’economia. Nella compatibilità c’è sempre qualcosa o qualcuno che si adatta a qualcosa di altro o a qualcun’altro, nella compossibilità ci sono contraddizioni che una volta rimosse permettono la coesistenza delle cose diverse. Io sono convinto che oggi le politiche di compatibilità altrimenti definiti di sostenibilità debbano lasciare il campo a politiche per la compossibilità. Oggi le politiche di compatibilità sono diventate paradossalmente incompatibili con i diritti, cioè hanno superato la soglia di tolleranza. Son tutti capaci a risparmiare tagliando sui diritti il difficile è farlo rispettando i diritti, cioè costruendo condizioni di compossibilità. Oggi doppiamo voltare pagina e mettere in campo politiche di compossibilità cioè politiche che rimuovano le contraddizioni, quindi inevitabilmente di cambiamento, perché rimuovendo le contraddizioni che esistono nel sistema sanitario si spende meno e si da di più.

 

D. Bene torniamo alle differenze che ci sono tra ricchezza e pil

R. Quando si parla di salute è bene distinguere l’idea di ricchezza da quella di pil. La salute contribuisce  prima di ogni cosa alla ricchezza di un paese, esattamente come l’ambiente ,la cultura ,la formazione scolastica, la qualità della giustizia ,ecc. Il pil è solo una misura di crescita o decrescita economica. Cioè il pil sta nella ricchezza non il contrario. In genere un paese povero è un paese malato. Oggi la compossibilità  tra welfare e economia  per  me significa un nuovo rapporto tra ricchezza e pil, vale a dire che se produco salute produco ricchezza e se produco ricchezza riduco l’incidenza della spesa sanitaria sul pil. Insomma si tratta di diminuire le malattie e quindi i malati. Se le malattie non calano o in qualche caso crescono e si taglia come si continua a fare sul sistema di tutela sono dolori. Se i pronti soccorsi sono sempre pieni di gente sopra le barelle non è un caso. Cioè oggi la sfida del post welfarismo passa  per una ridefinizione della salute tanto come valore d’uso quanto come valore di scambio. Sul piano pratico questo significa ridefinire tutto l’ambaradam sulla prevenzione, sui dipartimenti di prevenzione, sulle titolarità istituzionali, sugli strumenti di programma. La salute in parte si tutela cioè si difende e per gran parte si costruisce. Questo cambia radicalmente il senso dell’art 32.

 

D. A proposito…prima della manifestazione del 12 ottobre, hai ricordato il valore dell’articolo 32 della Costituzione, che tuttavia, nel tuo libro, sottoponi ad una approfondita riflessione. Mentre ti chiedo di riprendere concettualmente i punti del tuo ragionamento, pensi che sia possibile affermare, non solo in termini di principio, il riconoscimento costituzionale del diritto alla salute

R. L’art. 32 oggi è come un faro spento che bisogna riaccendere. Esso è diventato una specie di soprammobile con il quale si abbelliscono i discorsi retorici. Ma  è anche l’articolo più violato che abbiamo basti pensare all’Ilva, alla terra dei fuochi e a tante altre situazioni non ultima i disastri ambientali. Oggi l’art 32 è sotto i piedi di qualsiasi amministrazione pubblica. Oggi la salute non vale più niente. Per questa ragione  è necessario  riaccendere il faro spento. La mia idea è di riprendere l’art 32 e intanto di svecchiarlo cioè ripulirlo dalle vecchie visioni giusnaturalistiche. La salute non è solo un bene naturale da difendere  la famosa “integrità psico fisica”  ma è un bene complesso condizionato da tanti determinanti e contro determinanti  che si costruisce. Non si tratta solo di fare prevenzione (anche se nel nostro paese se ne fa pochissima) ma di coordinare tutte quelle metodologie, che non cito per brevità, che costruiscono salute. I piani nazionali per la prevenzione lasciano il tempo che trovano ,la salute  si costruisce con la programmazione socio-economica a livello regionale, restituendo ai comuni  quindi alle comunità, la piena titolarità della funzione e facendo della comunità  sociale il primo soggetto di salute, agendo fino in fondo  la sussidiarietà.  Oggi la salute non è più semplicemente un “interesse collettivo”,  come dice l’art. 32, ma è diventata  un  “interesse generale” perché come dicevo prima essa vuol dire ricchezza . La ricchezza è un interesse generale. La sostenibilità economica del sistema sanitario è funzione della salute che si costruisce. L’espressione che ho usato nel mio libro, è quella di “ricontestualizzare” l’art 32,cioè di reinterpretarlo nel nostro tempo perché così facendo non solo lo faccio rivivere ma soprattutto ne sviluppo le sue possibilità operative.

 

D. Vorrei che a questo punto tu ci parlassi del definanziamento strutturale, che  se ho capito bene leggendo le tue cose e riflettendo sulle cose che ci hai appena detto, esso  sarebbe un effetto del rapporto conflittuale tra welfare ed economia? Tra ricchezza e economia? Ma soprattutto l’esito della svalutazione tanto dell’art 32 quanto della salute come bene comune.

R. Purtroppo è così. Il problema più grande che abbiamo oggi è che le politiche sanitarie  soprattutto regionali continuano quasi per inerzia a riferirsi ad un welfarismo che non c’è più cioè ad una fase che ormai si è chiusa. Oggi soprattutto le politiche finanziarie non si accontentano più di raggranellare un po’ di risparmio in costanza di  sistema pubblico, oggi si vuole controriformare il sistema pubblico per riallocare risorse strutturali altrove. Cioè si vuole definanziare il sistema quindi svalutare radicalmente il valore della salute. Oggi non solo il cittadino è esposto “gratuitamente” alle malattie ma è la vittima di tagli lineari che riducono le sue protezioni sociali. La legge di stabilità  oggi in discussione, ha programmato in rapporto al pil  una riduzione di spesa sanitaria  fino al 2017,eppoi non dimentichiamo il tentativo  di  cambiare sistema ridiscutendo l’universalismo, il diritto individuale, la smania di ripensare i Lea (livelli essenziali di assistenza),la crescita costante della spesa privata..….quindi  la crescita delle diseguaglianze e delle ingiustizie. Ma soprattutto l’assenza di una vera politica per la salute.

 

D. Quali  le risposte delle Regioni  a queste politiche?

R. Si continua ad andare avanti  nei casi migliori con politiche deboli quali la razionalizzazione ,l’appropriatezza, il risparmio per compatibilità, le riorganizzazioni infinite, i patti per la salute…che sono tutte cose bene inteso utili ed importanti ma del tutto inadeguate a rispondere alle sfide del post welfarismo. Al definanziamento strutturale bisogna rispondere con una proposta di sanità pubblica altra ,quindi con una riforma del sistema salute, che risponda  soprattutto a due problemi strutturali: la regressività culturale del sistema  e la diffusa antieconomicità causata da tale  regressività .

 

D. Spiegaci meglio cosa vuol dire  regressività culturale e anti economicità.. e  soprattutto spiegaci in parole povere in cosa consiste la tua idea di riforma. Mi sembra che questo sia il cuore del discorso, no?

R. Infatti lo è. Definiamo intanto le parole. Per “regressività” intendo un cambiamento non fatto, cioè il mancato ripensamento dei modelli di tutela ,il mancato adeguamento culturale dei servizi, il mancato ripensamento del lavoro e delle professioni, il mancato ripensamento delle facoltà di medicina ecc, un mancato progetto di produzione della salute .La regressività vuol dire che se tutto intorno cambia e tu stai fermo è come se tornassi indietro. Intorno alla sanità è cambiato il mondo ma la sanità è rimasta culturalmente ferma nonostante nel 78 avessimo  fatto una riforma per ripensare addirittura la tutela a partire dal valore primario della salute . Quella riforma è rimasta per gran parte sulla carta, è stata attuata soprattutto nelle sue componenti ordinamentali  e organizzative ,ma non tanto rispetto ai modelli di tutela e all’obiettivo primario della salute. Allora si preferì, sbagliando,  prendere la strada amministrativa della gestione. Si pensò che sarebbe bastato gestire meglio una vecchia tutela per risolvere i problemi della crescita della spesa. Invece avremmo dovuto ripensare culturalmente le forme della tutela semplicemente perché il mondo era cambiato. Non è un caso se nel mio libro dico che  abbiamo accumulato un grosso debito con il cambiamento e che è arrivato il momento di pagarlo.

 

D. Mi puoi fare qualche esempio

R. Due  soli  esempi pratici: l’ospedale è un contenitore che abbiamo riorganizzato tante volte , tagliato, chiuso, ridotto in tutti i modi ma senza mai ridiscutere il suo modello culturale di fondo, cioè abbiamo riorganizzato il contenitore a contenuti culturali sostanzialmente invarianti. Il medico continua ad essere formato in modo vecchio e continua ad essere un modello di medico che si riferisce ad altri tempi, ad altri contesti, ad un’altra società. Non è un caso se negli anni ha preso forma quella che io chiamo “questione medica” che altro non è che la crisi di un ruolo, cioè l’espressione di uno spaesamento e di un disadattamento grave. Contenzioso legale e medicina difensiva  sono gli effetti gravi di questo spaesamento.

 

D. E per quanto riguarda l’antieconomicità?

R. In un certo senso è l’effetto collaterale più importante della regressività. L’antieconomicità è quando spendo soldi senza avere in cambio sufficienti benefici o peggio quando spendo soldi e in cambio ho dei contro benefici. Il contenzioso legale e la medicina difensiva sono contro benefici dovuti soprattutto a problemi di regressività. Le cattive  transazioni tra domanda e offerta sono esempi di anti economicità. Professioni inadeguate nel senso che le loro pratiche non sono adeguate ai contesti che cambiano sono esempi di anti economicità. Una governance sbagliata, cioè una fraintesa concezione aziendale, crea soprattutto problemi di anti economicità. Non fare salute è l’anti economicità per eccellenza. Cosa diversa sono le diseconomie, cioè gli sprechi, gli abusi ,i cattivi usi, l’inefficienza, ecc. Le anti economicità si risolvono riformando i modelli quindi le politiche  le diseconomie si risolvono razionalizzando  i modelli che si hanno. Oggi nel post welfarismo non basta più razionalizzare vecchi modelli di tutela…quello che serve è riformare tali modelli in modo che siano progressivi e economici. E’ così che si batte il contro riformismo.

 

D. Scusa usi continuamente la parola “tutela” ma in realtà cosa vuol dire? E che vuol dire come scrivi nel tuo libro “riformare la tutela”?

R. “Tutela” vuol dire per me l’uso e il consumo di medicina  per fini di salute. Riformare la tutela non è una riforma ordinamentale, cioè la “riforma della riforma della riforma…” ma una riforma culturale dei modelli, delle pratiche  e delle professioni, dai quali dipende l’uso e il consumo di sanità e la produzione di salute. Se vogliamo respingere  in senso riformatore l’offensiva controriformatrice, dobbiamo ripensare l’uso e il consumo di sanità, quindi dobbiamo riformare soprattutto il rapporto tra domanda/offerta ripensando la governance e le organizzazioni ma soprattutto il lavoro che in queste organizzazioni si svolge .In questo modo avremmo pagato il nostro debito con il cambiamento. Letteralmente “tutela” vuol dire “difesa”…oggi il diritto alla salute si difende e, ripeto, si costruisce. Per difendere il diritto alla salute si deve costruire il diritto stesso.

 

D. Bene, parliamo di “costi standard”… tu sei stato sino ad ora l’unico che ha avversato apertamente questa idea peraltro condivisa da tutti regioni e governo

R. Io non credo che i costi standard si faranno mai. In sanità è praticamente impossibile calcolarli secondo la metodologia della contabilità analitica. Lo ha detto recentemente anche Kaplan,  colui che ha inventato la contabilità analitica e Quattrone  che è il suo allievo in Italia. Non si faranno mai perché la sanità è una realtà super complessa, perché nessuno in sanità ha un know how sufficiente per farli, e perché essi  convengono solo a chi vuole definanziare strutturalmente la sanità pubblica.

 

D. Ma in cosa consistono in pratica?

R. Nella contabilità industriale essi sono uno strumento di controllo dell’efficienza aziendale, in sanità dove il controllo delle performance dipende da una moltitudine complessa di variabili essi rischiano di essere  impiegati come strumento di pianificazione al ribasso del finanziamento.
In sanità essi non sono costi effettivi calcolati in sede consuntiva cioè dei costi analitici esatti ma semplicemente “approssimativi tetti di spesa” più tollerati da certe regioni meno tollerati da altre che recepiscono non il costo atteso nel futuro per produrre salute, ma la minore spesa attesa indipendentemente dalla salute prodotta.

 

D. Ma rispetto alle cure materiali  delle malattie cosa vogliono dire i costi standard ?

R. I problemi più seri sono collegati  proprio  alla complessità delle cure dei malati: i costi standard non tengono conto della percentuale di scarti, legata alla variabilità naturale del processo di cura e questo in sanità è un limite gravissimo. I  costi delle cure per ragioni intuibili non possono essere standardizzati più di tanto e comunque devono prevedere dei margini di interpretazione perché soprattutto la variabilità dei malati costituisce un grosso fattore di complessità. E poi i costi standard decontestualizzano i costi dai bisogni e dall’organizzazione adatta a soddisfarli per cui salta tutto il discorso della territorialità, dell’umanizzazione, della personalizzazione delle cure, del prendersi cura, ecc. Infine il grande problema che i costi standard pongono sono gli scostamenti fra valori standard e valori effettivi.

 

D. Ma allora perché le regioni ne hanno fatto addirittura un cavallo di battaglia?

R. Le regioni hanno cavalcato i costi standard per difendersi dai tagli  ma ora scoprono  che sono una lama a doppio taglio perché  per buona parte delle Regioni essi sono una fregatura. I costi standard inoltre sono ingoiati dalle Regioni perché essi  le  mettono  al riparo nei confronti  del rischio di  riscrivere il titolo V. Con i costi standard è come se si  ricentralizzasse la governance della  sanità  in costanza del Titolo V, quindi lasciando  alle Regioni le loro  titolarità formali ma, di fatto,  trasformandole in lavatrici più o meno obbedienti . Se la sanità è standardizzata  le Regioni perdono di fatto una bella fetta di autonomia. Per venirne fuori  le regioni stanno   tentando  di aggiustare   gli attuali criteri di distribuzione ponderata . I costi standard  sarebbero  definiti  non per singole prestazioni ma per macro livelli prestazionali ma che è quello che in qualche modo già si sta facendo . Quindi stiamo ragionando più  nella logica   dei tetti di spesa articolati per livelli assistenziali, ma  non in quella corretta del costing product  dei costi standard. La Toscana ha proposto di seguire un’altra  linea che  è quella di definire una correlazione tra  “attribuzione di risorse” a “standard di qualità” per ciascun livello assistenziale. Ma  anche questo è al di la del costing product. Penso  che la direzione di marcia sia quella giusta ma anche che bisogna  fare il passo successivo cioè parlare chiaramente di “esiti”. Se gli input sono le risorse  e gli output sono le definizioni intermedie  di qualità, l’outcome deve essere l’esito. Quindi non  costi standard ma costi misurati sulla base dei risultati ottenuti.

 

D. Spiegacelo meglio: in pratica vuol dire un diverso rapporto costi/benefici?

R. In un certo senso si. Da tempo propongo di passare dalla mera redistribuzione  capitaria del fondo  alle Regioni ,ad una vera e propria politica di allocazione delle risorse  orientata agli esiti e ai risultati. La quota capitaria ponderata rientra nella logica dei volumi,(per altro criticata in modo inappellabile proprio da Kaplan) come  i costi standard e i drg, ma non in quella degli esiti . Riprendendo il discorso sulla mia proposta di  riforma della tutela, se la tutela è  “l’uso e il consumo” di prestazioni mediche, allora si tratta di allocare risorse in relazione ai risultati che un certo uso e un certo consumo producono. Ogni problema di allocazione prevede un elenco di risorse produttive disponibili in date quantità  e un criterio di scelta  fra vari “modi di uso” delle risorse stesse. La scelta allocativa di risorse deve essere orientata al miglior risultato del miglior uso perché dal miglior uso dipende il miglior risultato. In pratica bisogna commisurare le risorse in ragione del loro uso efficace.

 

D. Per davvero un bel salto  di impostazione

R. E’ un salto logico : non si tratta più di definire il minimo costo  a prescindere dai risultati di salute come si vuole fare con i costi standard, ma di fare salute  con un “uso” diverso delle risorse e quindi combattere quella che prima definivamo  come   la cronica anti economicità del sistema. La vera sfida   è  riformare l’idea di tutela  e attraverso  politiche allocative impegnare gli operatori nel miglior uso possibile delle loro competenze e delle loro abilità.



D. Quale rapporto vedi con i processi di privatizzazione che si sono determinati nel corso degli anni? Perché questa svolta è ricoperta da tanto silenzio – non solo dell’ambito politico, ma parlo soprattutto del sindacato e della CGIL ?

R.  Dopo  12 anni  di titolo V le regioni  incalzate negli anni dalle misure restrittive  hanno contenuto  la spesa sanitaria o comunque ne hanno  rallentato la crescita,   non facendo più efficienza ma tagliando prevalentemente  sui diritti dei cittadini. I dati di questi giorni pubblicati dall’Ocse ci dicono  di un calo negli anni recenti  di meno  2.4% Inizio moduloFine modulo

La responsabilità delle regioni  è  quindi quella di essersi rivelate incapaci di rispondere  ai mutamenti economico-sociali e quindi di aver spinto   il sistema  verso la regressività   rendendolo sempre più antieconomico. In pratica sono state prevalentemente  le regioni che insieme ad altre forme di privatizzazione( intra moenia, mutue integrative, fondi integrativi ecc.. )  hanno svenduto un bel pezzo di  sanità pubblica al privato. 1/4 della spesa sanitaria è a carico delle famiglie. Siamo oltre i 30 mld  di spesa privata innescando la rincorsa all’intermediazione finanziaria.

 

D. Parliamo ora di mutue o di fondi integrativi….una questione piuttosto controversa  in casa Cgil…

R. Con i fondi integrativi che in realtà sono fondi  parzialmente sostitutivi e paralleli,  l’operazione che i controriformatori  intendono fare, quelli della sanità selettiva e dei cittadini  maggiormente bisognosi, è sancire di fatto una diseguaglianza tra cittadini forti e cittadini deboli, assistere al massimo i primi e assistere al minimo i secondi, e sostituire il terzo pagante pubblico con un terzo pagante privato. Il fondo integrativo non è altro che un terzo pagante con una natura privatistica. Oggi più dell’80% della spesa privata non ha intermediazione finanziaria cioè è pagata direttamente dal cittadino al fornitore privato di prestazioni sanitarie. Quindi si tratta di un bel business che fa gola a tanti. Quanto alla Cgil devo dire  che essa resta nel panorama desolante in cui ci troviamo la voce più critica contro qualsiasi forma di privatizzazione, e nonostante le difficoltà in cui si trova il sindacato, un convinto e sincero  sostenitore dell’art 32 e del servizio pubblico. Essa tuttavia tradisce un disagio e che è riconducibile al fatto che il sindacato per mestiere fa contratti  e che in molti di questi contratti sono previste  forme di sanità integrativa quali forme di retribuzione.

 

D. Ma che dimensione ha questo problema? E soprattutto quali rischi comporta per i valori che ruotano intorno all’universalismo?

R. Le dimensioni del fenomeno sono ancora piuttosto contenute  sia sotto forma di prestazioni sostitutive sia come peso economico(se non sbaglio su 30 mld di spesa privata solo 3 mld sono mutualità integrativa mentre sul piano delle prestazioni prevale ovviamente il servizio pubblico). Se non cambiano le cose, cioè se non si mette mano ad una riforma della tutela, secondo me l’area della sanità integrativa è destinata a crescere in senso sostitutivo  e non solo quella. Chi ha reddito i diritti se li paga chi non ha reddito i diritti li perde. Se la tutela pubblica si restringe come si fa  in sede contrattuale a dire ai lavoratori di essere solidali e universalisti? Dobbiamo quindi rilanciare un’idea di tutela universalistica , perché è difficile dire a chi se lo può permettere di non aderire a soluzioni sostitutive. Oggi   i legami sociali di solidarietà  sono sbrindellati. Post welfarismo ,post modernità e  individualismo tendono a sovrapporsi.

 

D. Ma quali sono per te le condizioni di ammissibilità per l’assistenza integrativa?

R. Quelle descritte dai confini descritti dalla riforma Bindi . In questo ambito  si possono fare dei ragionamenti sull’uso davvero complementare dei fondi integrativi, cioè evitare che essi danneggino la solidarietà e l’universalismo e soprattutto danneggino il finanziamento del sistema  pubblico. La defiscalizzazione delle spese  per i fondi integrativi vale come se lo Stato per alcuni cittadini pagasse due volte  cioè per favorirlo con  l’assistenza integrativa assicurandogli nello stesso tempo, l’assistenza pubblica. Non credo che questo sia giusto in particolare nei confronti dei  pensionati, dei redditi bassi ,dei precari, dei disoccupati ecc. Per cui vedrei con favore il ricorso  alla  assistenza integrativa  per alcune aree deboli dell’assistenza socio sanitaria pubblica, che addirittura funzioni come accrescimento dei Lea, nel senso che attraverso di essa si possa completare un allargamento delle coperture. Penso alla non autosufficienza, alla medicina predittiva, oltre alle solite coperture odontoiatriche e oculistiche .

 

D. Quindi alla fine sei favorevole  a queste soluzioni?

R. Non sono pregiudizialmente contro. A  me interessa fare salute per tutti attraverso i diritti. La cosa che mi rende perplesso è la malafede di chi si batte, anche a sinistra, per abbassare le coperture pubbliche (Lea) per far più spazio ad un mutualismo sostitutivo e concorrenziale. In questi casi penso sempre a Rawls e alla sua idea di “giustizia come equità” basata su due presupposti : il più grande beneficio ai meno avvantaggiati e eguaglianza di opportunità per tutti. Ora supponiamo di ridurre i  Lea per fare spazio alle mutue integrative. Questo significa  togliere  prestazioni ai più deboli mentre chi lo potrà avrà con i fondi integrativi  più prestazioni. I più deboli senza le garanzie di Rawls avrebbero un  minor beneficio e quindi  diseguali opportunità di cura. Per  assicurare loro il maggior  beneficio bisognerebbe dare tutto quello di cui hanno bisogno,  ma ciò di cui hanno bisogno è garantito dalla somma tra tutela pubblica e tutela integrata. Pari opportunità di salute quindi significa che al più debole bisognerebbe dare le stesse opportunità di cura del più forte. Ma se egli  accede a dei Lea minimali come fa ad avere gratuitamente pari opportunità di cura? In sintesi l’assistenza integrativa  per quello che mi riguarda non dovrebbe essere  in contraddizione con i presupposti di una giustizia quale equità. Questo vuol dire che il “maggior beneficio al più debole” di Rawls, diventa un paradosso perché l’unico modo per rispettare questo vincolo etico-sociale è sviluppare una tutela pubblica che valga tanto per i deboli che per i ricchi.

 

D. Svalutazione del lavoro nel sistema sanitario. Tu dici, in un’altra intervista, che non ci sono più nei cassetti i progetti che caratterizzavano il decennio che ha preceduto la riforma del 1978. Non so se tu lo condividi, io di quella fase ricordo l’avvio della costruzione di un rapporto tra la critica dell’organizzazione del lavoro in fabbrica (e la conquista di un potere contrattuale per controllarla/cambiarla…) e l’intervento sull’organizzazione sociale-territoriale. Ritieni che allora la critica della condizione di lavoro abbia avuto un significato anche nel sistema sanitario?

R. La cosa che abbiamo dimenticato è che tutta la riforma del 78 poggiava su un binomio che nel tempo abbiamo perduto: emancipazione/salute. Negli anni 70 la salute non poteva che essere conseguente a dei processi di emancipazione…intendendo l’emancipazione come la liberazione del soggetto dagli asservimenti, dalle condizioni sociali negative, dallo sfruttamento, dalle discriminazioni. Quindi salute nei luoghi di lavoro, ma anche salute della donna quale emancipazione della donna, salute mentale ,dei diversamente abili, dell’anziano, del bambino ecc Questa lezione noi l’abbiamo insegnata a tutto il mondo…poi piano piano…abbiamo perso terreno …io ricordo quando da ragazzo  andavo come militante della Cgil in fabbrica a fare le mappe di rischio,i gruppi omogenei…era il tempo in cui la salute non era negoziabile e  men che mai monetizzabile…poi è diventata negoziabile…e monetizzabile …ora non è più neanche  un valore d’uso …cioè come dicevo prima  non è più un valore…o per lo meno è un valore subordinato a qualsiasi cosa.. ai limiti economici, allo sviluppo produttivo, alla  competitività, alla speculazione, alla corruzione, al malaffare. Ricordo ancora  l’Ilva, la terra dei fuochi, Casale Monferrato, i disastri ambientali. Sono molto colpito che oggi dopo i disastri metereologici si dica che manca la “cura del territorio”. Certo che manca ma mi chiedo se c’è la cura della persona, se c’è la cura dei suoi diritti. Se non c’è la cura della persona come può esistere la cura del territorio?

 

D. Vuoi dire che  dobbiamo ripartire da una idea di emancipazione? Ripartire dal valore dei diritti? Cioè dal valore irriducibile della persona?

R. Su questo non ho alcun dubbio e la difficoltà a farlo spiega buona parte della crisi della sinistra e di quel grande problema che io definisco “il riformista che non c’è”, cioè la mancanza di un vero pensiero riformatore. Oggi a me pare che sinistra (per quello che significa ) e “riformista che non c’è” finiscano per sovrapporsi. Oggi  una sinistra per essere tale deve ripartire da ideali di emancipazione anche perché oggettivamente  nei problemi concreti delle persone si ripropone  la questione   di come liberare l’uomo dai nuovi assoggettamenti, e dalle nuove schiavitù. La questione costituzionale  del diritto al lavoro non può essere affrontata a parte. Tra le tante schiavitù, quella più odiosa di tutte è la malattia cioè essere vittime innocenti di una mortalità  che potrebbe essere evitabile ma non lo è in ragione degli interessi  dell’economia, della crisi finanziaria, della recessione, delle larghe intese, della crisi della politica. Diversamente dai filosofi post moderni  quando penso al diritto alla salute non ritengo che esso  come ideale di emancipazione sia fallito e neanche  che sia incompiuto come pensano i filosofi neomoderni, penso che il diritto come dicevo prima  a proposito dell’art 32,debba essere continuamente ricontestualizzato, quindi quasi reinventato, perché se non lo facessimo quell’ideale di emancipazione sarebbe tanto fallito che incompiuto. La mia idea di riformismo è tutta qua. Tra i contro riformatori che in sanità  vogliono far saltare tutto e gli antiriformatori che non vogliono cambiare niente, io scelgo  il cambiamento   ricontestualizzando tutto….cioè  i miei ideali regolativi, i miei valori, le mie convinzioni ,la mia cultura….non è facile ma non vedo altre strade.

 

D. Trovo interessante l’accenno che hai fatto al diritto alla salute e al lavoro quale questione primaria da affrontare dentro un’ideale di emancipazione. Nel tuo libro tu affronti  la questione del lavoro nella sanità quale questione centrale. Ti chiedo: come si mette insieme emancipazione e lavoro nel sistema sanitario? Come favorire l’espressione di una consapevole soggettività delle lavoratrici e dei lavoratori, con un proprio autonomo punto di vista che possa aprire una strada di cambiamento del sistema?

R. Il lavoro  in sanità è stato completamente dimenticato come fattore di cambiamento e oggi è diventato il vero nemico da abbattere da parte della controriforma. Lo si vede dai tagli lineari, dal blocco della contrattazione e del turn over, dall’espulsione dei sindacati dalla  concertazione, dall’espropriazione dei più elementari diritti dei lavoratori. Oggi in sanità ciò che non regge più sono le definizioni burocratiche di lavoro e di professioni, la confusione e l’ambiguità degli  statuti giuridici le forme contrattuali appiattenti, i modi retributivi che pagano il lavoro formale ma non quello effettivo, le  organizzazioni del lavoro  parcellizzate, il controllo burocratico sull’operatore. Cioè oggi non regge più che il lavoro sia una variabile indipendente dai suoi risultati. Per cui oggettivamente si pone un problema di emancipazione  da vecchie concezioni.

 

D. E allora quale  emancipazione per quale lavoro?

R. Dobbiamo de burocratizzare il  lavoro  cioè ridefinirlo ma non partendo  dai compiti, dalle mansioni, dai profili, dagli atti, che per l’appunto sono definizioni burocratiche, ma  dall’agente, cioè da colui che lavora e che è definito attraverso i contesti culturali, sociali, economici, scientifici, deontologici nei quali dovrà operare e che garantirà  che tutto quello che lo ha definito, sarà in ogni atto che compirà. Nuove definizioni di professione  sono possibili  integrando in un reticolo  le  principali  componenti che decidono  il lavoro professionale. Una professione reale  non è mai indipendente da contesti reali in cui opera e meno che mai dalle capacità cognitive dell’operatore. Una professione non è fatta solo da competenze. Essa dipende soprattutto da chi la esercita…l’agente per l’appunto e dove si esercita il contesto di lavoro.

 

D. Come dovremmo retribuire questo che tu chiami agente ma che altrove hai anche chiamato “autore”?

R. Nel mio libro avanzo la proposta di pagare l’agente con  una  “retribuzione” e con una “attribuzione”, quindi con un doppio salario. Il primo è mensile in forma fissa il secondo è periodico in forma variabile. Il salario variabile  sostanzialmente  è un salario di esito e può aumentare senza limiti  a condizione però di finanziarsi con i risultati. I risultati dovranno essere al contempo di salute , clinici ed economici. Questo comporta un ripensamento dei contratti. Oggi i contratti sono  come dei condomini di professioni stivati in  tante stanze  su livelli a volte confusi  con degli effetti di appiattimento e di indistinzione molto preoccupanti. L’idea del  silos cioè   contratto unico di comparto, ha fatto oggettivamente  il suo tempo, ciò che serve è conciliare il comune contesto di lavoro con le specificità delle professioni. Una idea potrebbe essere quella di un contratto come un frame work, cioè quale cornice  contrattuale comune, ma in grado di accogliere  le diverse specificità professionali .Fatto questo si tratta di ridefinire un altro genere di operatore  cambiando la transazione contrattuale: in cambio di autonomia garantire responsabilità accettando di essere verificato e misurato con gli esiti. “Auto-re” non è altro che un operatore pagato in questo modo. ma l’autore è anche un operatore che si emancipa  dall’essere semplicemente un  esecutori di compiti. Questo è un esempio di emancipazione concreta che produce più salute con minori costi. In sanità l’emancipazione del lavoro dalla burocrazia  è un affare per tutti.

 

Category: Economia, Welfare e Salute

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