E’ morto l’economista marxista Augusto Graziani
È morto domenica 5 gennaio 2014 a Napoli l’economista marxista Augusto Graziani. Nato il 4 maggio del 1933, si è spento dopo una lunga malattia nella sua casa, intorno alle 14. Graziani è stato ordinario di Economia politica nell’università «La Sapienza» di Roma ed era Accademico dei Lincei. Come Bruno Amoroso ha scritto recentemente su Inchiestaonline Augusto Graziani è stato “un economista di chiara impostazione marxista, che mai ha piegato l’analisi della questione meridionale alle mode sociologiche di sinistra degli anni Ottanta-Novanta orientate ad addomesticare il problema sociale e di classe del Mezzogiorno ai nuovi bisogni del potere che si è cercato di legittimare con la tesi della scomparsa della questione meridionale, dei distretti chiavi in mano importati dal nord, ecc.; tesi sostenute da chi è passato dalle posizioni di sinistra di riviste come i Quaderni Piacentini, Stato e Mercato a quelle di Meridiana e, poi, a posizioni accademiche e politiche di potere”
Seguiamo il suggerimento di www.contropiano.org di ripubblicare l’intervento di Emiliano Brancaccio scritto per il Manifesto del 4 maggio 2013 in occasione del suo ottantesimo compleanno:
Augusto Graziani: la scienza moderna delle classi sociali
di Emilano Brancaccio il manifesto, 4 maggio 2013
Augusto Graziani celebra oggi il suo ottantesimo compleanno. Nato a Napoli nel 1933, esponente di punta delle scuole italiane di pensiero economico critico, già senatore e accademico dei Lincei, nell’arco di quasi mezzo secolo di pubblicazioni Graziani si è cimentato con successo nella infaticabile opera di tessitura di una sottile trama logica, in grado di tenere coerentemente assieme ricerca teorica pura, didattica e divulgazione. Per questa sua missione gramsciana, riuscita a pochi altri ed oggi considerata impossibile dalla stragrande maggioranza degli economisti, Graziani ha saputo farsi apprezzare non solo da studenti e colleghi ma anche da un più ampio pubblico di estimatori, tra cui i lettori dei suoi editoriali pubblicati sul manifesto e su varie altre testate nazionali.
Come molti economisti della sua generazione, Graziani ha in più occasioni partecipato al dibattito sulla critica della teoria neoclassica dominante. La sua posizione sull’argomento è apparsa fin dall’inizio peculiare. A suo avviso, la sfida per la costruzione di un paradigma economico alternativo dovrebbe riguardare in primo luogo il metodo. La teoria neoclassica poggia sull’individualismo metodologico, un criterio di analisi della società che può essere rozzamente sintetizzato nella massima thatcheriana secondo cui la società non esiste, ed esistono solo uomini, donne e famiglie. Questa chiave di lettura della realtà asseconda il senso comune, ma proprio per questo pregiudica ogni possibilità di comprensione dei reali meccanismi di funzionamento del capitalismo, all’interno del quale i singoli individui contano solo in quanto componenti di gruppi, coalizioni, e classi sociali. Per Graziani, dunque, l’edificazione di una teoria del capitalismo scientificamente valida richiede in primo luogo il recupero e l’aggiornamento di un metodo di ricerca basato sullo studio degli antagonismi tra gruppi di interesse, e in ultima istanza tra le classi: vale a dire, quel metodo che era tipico degli economisti classici e di Marx, che lo stesso Keynes adoperò in molti suoi scritti, e che per lungo tempo è rimasto sommerso e dimenticato sotto il peso dell’approccio individualistico prevalente.
In epoche dominate dall’illusione del monadismo o da rigurgiti di ipocrisia interclassista, la scelta epistemologica di Graziani è stata senza dubbio scomoda, e ha rischiato più volte di condurlo all’emarginazione. Basti ricordare la critica che sull’Unità egli rivolse al modo in cui Achille Occhetto stava gestendo la nascita del PDS: un tentativo abborracciato di rappresentare indistintamente le classi e le culture politiche, evitando precisi riferimenti alla tutela degli interessi dei lavoratori subordinati (una critica lungimirante, che a fortiori potrebbe essere rivolta ai contenitori politici del tempo presente).
Da un punto di vista strettamente scientifico, tuttavia, è interessante notare che quella scelta di metodo è stata in un certo senso premonitrice. Negli ultimi anni, infatti, gli studi sui conflitti tra gruppi sociali hanno fatto breccia tra le mura della stessa teoria dominante. Basti pensare a Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, i cui modelli macroeconomici non si basano sul comportamento dei singoli individui ma partono direttamente dall’analisi di aggregati sociali come i sindacati dei lavoratori e le grandi imprese dotate di potere di mercato. Tra l’approccio critico di Graziani e l’approccio prevalente di Blanchard resta però una differenza sostanziale. Per Blanchard l’esistenza di tali aggregati sociali rappresenta una “imperfezione” del mercato che, se rimossa, consentirebbe di ottenere un migliore impiego delle risorse produttive: ridurre il potere del sindacato, ad esempio, consentirebbe di comprimere i salari monetari e i prezzi e di aumentare quindi la domanda di merci, la produzione e l’occupazione.
Per Graziani, invece, l’antagonismo tra gruppi sociali non costituisce una “imperfezione” ma rappresenta un fattore immanente al modo di produzione capitalistico. La lotta di classe c’è, insomma, anche qualora non ve ne sia più coscienza. Persino quando il sindacato viene ridotto a brandelli essa continua a produrre effetti, ad esempio cancellando gli ultimi scampoli di tutele legali dei singoli lavoratori. La conseguenza ultima è al limite un aumento dei profitti per occupato, non un aumento del numero complessivo di occupati. Del resto, ad avviso di Graziani non è certo liberando il capitale dai lacci e lacciuoli della legge che si può raggiungere l’agognato obiettivo di una piena e stabile occupazione dei lavoratori. Lo schiacciamento dei salari e dei diritti, infatti, non favorisce in quanto tale la domanda di merci e quindi non implica un aumento delle assunzioni. Per raggiungere il pieno impiego occorre in realtà una ben diversa azione collettiva, antagonistica rispetto alle logiche del capitale. A partire, afferma Graziani, da una estensione dell’intervento dello stato alla diretta gestione di alcuni processi produttivi, ben oltre la mera erogazione di spesa pubblica.
Una rinnovata analisi di classe non si presta tuttavia soltanto a esaminare il tipico conflitto tra capitale e lavoro. Essa consente anche di gettare uno sguardo smaliziato sugli antagonismi interni a ciascuna classe sociale, come quelli tra capitali grandi e capitali più piccoli, che possono poi sfociare in conflitti economici tra nazioni avanzate e nazioni meno sviluppate.
Seguendo questo metodo Graziani ha scritto pagine illuminanti sulla storia economica e politica dell’Italia, e sul tema controverso della integrazione europea. Un aspetto cruciale della questione verte sulle trasformazioni dell’industria italiana avvenute nell’ultimo ventennio del secolo scorso. Il declino della grande industria privata e pubblica, la privatizzazione e la vendita di interi settori produttivi a gruppi stranieri, e la proliferazione di imprese di piccole dimensioni assai più disinvolte nella gestione della forza-lavoro, anziché accrescere l’efficienza dell’economia nazionale hanno di fatto provocato un suo progressivo indebolimento rispetto ai principali competitori esteri, in primis la Germania. Graziani indaga a fondo su queste divergenze, anticipando per molti versi il concetto di “mezzogiornificazione” europea coniato da Krugman: vale a dire, un dualismo che da caso speciale confinato ai rapporti tra Nord e Sud dell’Italia, diventa sintomatico degli antagonismi tra paesi centrali e paesi periferici di tutta l’Unione europea. Oltretutto, contrariamente alle opinioni prevalenti, la nascita della moneta unica europea non ha contribuito a ridurre tali divergenze ma ha finito per accentuarle. Una prova è fornita dalla persistenza di un’inflazione più alta in Italia e negli altri paesi periferici rispetto alla Germania e ai suoi satelliti. La fragilità del tessuto produttivo italiano, unita a una aggressiva politica di contenimento dei salari tedeschi, allargano la forbice tra i prezzi dei due paesi. L’adozione di una moneta comune impedisce di attenuare il divario tramite la svalutazione del cambio.
L’implicazione è che l’Italia e gli altri paesi deboli sono destinati a importare troppo e ad accumulare disavanzi verso l’estero. Ci si trova così di fronte al dilemma dei nostri giorni. Nella totale evanescenza di iniziative per una riforma atta al ribilanciamento dei rapporti interni all’Unione, le opzioni sono soltanto due: o i paesi periferici frenano la tendenza a importare attraverso continue politiche di austerità, oppure la deflagrazione dell’euro diventa una possibilità concreta. L’eventualità di un tracollo dell’euro, evocata da Graziani nei mesi in cui l’entusiasmo verso la moneta comune era alle stelle, suscitava il bonario scetticismo di numerosi colleghi.
In un convegno tenutosi a Napoli nel 2003, Alberto Quadrio Curzio ed altri non nascosero una certa sorpresa di fronte all’insistenza con cui Graziani accennava al rischio di una disgregazione dell’Unione monetaria. Di fronte a tanto stupore Graziani replicò con un aneddoto malizioso. Egli invitò i colleghi a prelevare dai portafogli una banconota in euro, e li esortò a notare un dettaglio intrigante: il numero di serie di ogni biglietto reca chiaramente l’indicazione della singola nazione emittente (la lettera S vale per l’Italia, la X per la Germania, la U per la Spagna, la Y per la Grecia, e così via). Quindi fece notare che le ragioni di questa notazione non sono mai state chiarite dalla Banca centrale europea:
«Può trattarsi di una semplice procedura tecnica; oppure, come alcuni sospettano, potrebbe trattarsi di una misura precauzionale, nel senso che, se un giorno l’Unione monetaria europea dovesse sciogliersi, si potrebbe stabilire con precisione l’origine di ogni biglietto e quindi l’obbligo di riconversione gravante su ciascuno dei paesi». Capitò così di vedere studenti e professori trarre un po’ goffamente le banconote dalle tasche. In un misto di incredulità e preoccupazione, tutti esaminarono i numeri di serie.
Graziani aveva ragione: i biglietti sono formalmente attribuiti alla Bce, ma chiunque può agevolmente distinguere tra euro emessi dalla Banca d’Italia ed euro emessi dalla Bundesbank o dalla Banque de France. Fu una piccola rivelazione, la scoperta di un microscopico bug nell’algoritmo apparentemente irreversibile dell’Unione. Graziani osservò la platea con occhi più sottili del solito. Fu l’unico segnale lanciato dal suo corpo minuto, da sempre votato al più rigoroso understatement. Ricordando oggi quello sguardo, è inevitabile chiedersi se sia stato ancora una volta capace di intravedere il futuro.
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