Gabriele Polo: Como, la riconversione dello spallone

| 19 Settembre 2012 | Comments (0)

 

 

 

 

14. Como, la riconversione dello spallone


A Come c’è una sola “industria” che non conosce crisi. Quella del trasporto illegale di denaro e oro. Un centinaio di professionisti che vengono contattati dalle banche italiane per soddisfare i clienti che vogliono portare in svizzera il frutto della economia sommersa.

 

«Passiamo di lì, si fa prima». Al volante di un’anonima Punto c’è A. V., «lì» è il valico di Pizzamiglio, comune di Maslianico, cinquecento metri in linea d’aria da Villa d’Este, Cernobbio, dove, nello stesso momento, il premier Monti sta discutendo su «strategie competitive, le priorità per l’Italia». Oltre il valico, la Svizzera: il doganiere è meno di una formalità, un cenno e siamo di là, tra gli italiani in fila al distributore oltreconfine con la benzina a 1,58. Nella vettura, stavolta, non c’è nulla, «ma far passare soldi e oro è la cosa più semplice del mondo». Per dimostralo, A. V. ripete l’operazione due, tre, quattro, cinque volte e sempre da un valico diverso: Como Brogeda, il passaggio autostradale, dove si paga il pegno della fila «ma con i controlli ancora più rarefatti», viste le 25.000 auto medie giornaliere; via Scaletto, sempre a Maslianico, riservato ai frontalieri e – quindi – «liberissimo»; Drezzo, dove i controlli non sono più «stanziali», ma affidati a una ronda mobile, «quella più pericolosa, perché arriva senza che te ne accorgi»; Como-Ponte Chiasso, il vecchio confine, con la strada su cui si affacciano decine di fiduciarie elvetiche che gesticono i soldi italiani nella Confederazione. L’esito è sempre lo stesso: passaggio tranquillo e senza controlli. Del resto come controllare un confine che non è tale, con decine di passaggi? Impossibile, nonostante gli sforzi della Guardia di Finanza, l’occhio dei finanzieri che sanno distinguere l’imbarazzo di chi ha qualcosa da nascondere. In un territorio dove il «contrabbando fa parte del panorama», come ammette il Pm del tribunale di Como, Mariano Fadda, autore di una delle più importanti inchieste su traffico di valuta con la Svizzera – con ipotesi di riciclaggio -, quella che ha coinvolto la banca Arner di Lugano – dove Silvio Berlusconi ha il conto corrente numero 1 – e che a novembre vedrà aprirsi il processo per 57 persone, tra «spalloni», banchieri, faccendieri, commercialisti, industriali italiani e svizzeri, per un giro di 31 milioni di euro portati nella Confederazione. Si stima che in Svizzera ci siano depositi «italiani» attorno ai 200 miliardi di euro, che i 92 milioni intercettati alle frontiere dalla Guardia di Finanza nei primi otto mesi di quest’anno siano solo la punta di un iceberg, che ogni giorno passano dall’Italia alla Svizzera anche un centinaio di chilogrammi d’oro. Il tutto illegalmente, perché ci sono – ovviamente – anche le transazioni dichiarate: con la Svizzera un via vai di 1 miliardo e 400 milioni nel 2010, quasi 900 milioni in uscita, un po’ meno di 500 in entrata. Un traffico che non conosce crisi, costante – come il panorama, appunto -, semmai un po’ in aumento negli ultimi due anni, con le paure per la tenuta dell’euro: meglio una cassetta di sicurezza a Lugano – quelle delle banche sono introvabili e si ripiega sulle camere di sicurezza dei grandi albeghi – con gli euro convertiti in franchi svizzeri. Non si sa mai. All’origine del traffico, i 540 miliardi che costituiscono secondo l’Eurispes la quota dell’economia sommersa italiana, tra il 30 e il 35% del Pil nazionale. Soldi che devono essere nascosti e che viaggiano in doppi fondi di valigette e automobili, confezionati sotto vuoto da trasportatori come il nostro A. V. per fuggire al fiuto di Cash (il suo nome, il suo programma), il Labrador della Guardia di Finanza di stanza a Brogeda, autore di numerose scoperte. Perché non è vero che il denaro non puzza, puzza eccome – «peggio della cocaina» -, non solo eticamente ma pure fisicamente come ben sa quella signora che ha nascosto quasi 50.000 euro in una pancera: beccata dal fiuto di Cash come spesso accade ai dilettanti, agli «spalloni fai da te».

Professione senza crisi
Non al nostro A.V., se non altro perché anche lui è parte del «panorama», perché ha respirato contrabbando fin dalla culla, col nonno che passava i confini, bricolla di paglia in spalla, piena di sigarette e accendini. Una tradizione di famiglia, il contrabbando, da queste parti, illegale ma popolare, un po’ tollerato per integrare i miseri bilanci contadini d’un tempo, persino mitizzato nel suo aspetto più epico, tra scalate e sudore, tra pioggia e ghiaccio, tra cadute e tragedie. Un mito che è arrivato fino ai giorni nostri, nutrendosi anche di paradossi, come quello rappresentato dall’ultima impresa di Marco Benzoni da Ronago, conosciuto come il «re del contrabbando». Un paio d’anni fa è stato beccato per l’ennesima volta dalla Guardia di Finanza nel suo traffico illegale di gasolio. Commercio «povero» ma molto particolare perché aveva come sede l’ex caserma della Gdf che, una volta dismessa, Benzoni aveva trasformato nella propria «casa-bottega» e visto che l’edificio coincide con la linea di confine, gli bastava aprire le piantane del lato svizzero per far entrare le autobotti facendole uscire sul lato italiano e poi andare a vendere il carburante a metà del prezzo corrente. Finché il gran traffico è stato notato, segnalato e bloccato. Una delle tante «storie» che alimentano l’aura popolare del contrabbando. Al punto che gli svizzeri, riconoscenti, allo «spallone» hanno persino dedicato un monumento, a Gondo, appena oltre il Sempione.
Quella tradizione il nostro A. V. l’aveva un po’ messa da parte, grazie a un lavoro normale, nel «ciclo del tessile» (l’altr ricchezza di queste parti), rispolverando doppi fondi e cellophane soltanto per qualche occasione speciale, per qualche spesa imprevista. Poi ci ha pensato la crisi a riportarlo indietro, sulla «cattiva strada». Quando «l’azienda ha chiuso, sono tornato al tempo pieno. Quando mi chiamano, sono pronto». E i rischi? «Pochi, il trasporto clandestino di valuta e valori è stato depenalizzato, diventando un reato amministrativo. Si rischia una multa e il sequestro dei valori e del mezzo», a meno che non si tratti di denaro sporco, che si passi – cioè – dall’evasione fiscale al riciclaggio. Perché il trattato europeo garantisce «la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi, dei capitali» e così si possono portare ovunque 10.000 euro senza nessun obbligo, sopra quella cifra basta segnalare lo spostamento.

Lavori da confine
Sono in tanti a non farlo, dall’Italia alla Svizzera. Como è il punto di passaggio e questa è l’unica impresa locale che non ha risentito della crisi economica. Questa provincia, insieme a Varese e Lecco costituisce l’asse della vecchia industrializzazione lombarda: tessile, metalmeccanica, legno. Zone a forte tradizione manifatturiera (ancor oggi il 30% del Pil, qualcosa di più in occupazione), ora alle prese con la caduta degli ordinativi, con una disoccupazione che è passata dal 3 al 6% in un paio d’anni, con migliaia di posti di lavoro a rischio. A Varese tengono bene il militare (Aermacchi e Augusta) e le materie plastiche, meno l’ex Ignis (ora Whirlpool) orfana di padron Borghi – con i piedi ben piantati nel territorio e la sponsorizzazione facile – e le tante altre piccole medie imprese; mentre la Svizzera seduce e a traslocare non sono solo più i soldi ma pure le industrie. Come accade a Stabio – appena oltre confine, cantone vallese di Sion – paesino di 5.000 anime e meta giornaliera di 4.500 frontalieri italiani (sui 51.000 totali) occupati in imprese che vanno dalla moda di Zegna alle materie plastiche di Cazzani. Tutti attirati dal fisco leggero (25%, in Italia si viaggia sul 50%), un po’ come sta accadendo nel Triveneto con Austria e Slovenia. A Lecco, l’altro capo dell’asse a nord di Milano, il peso della piccola-media industria metalmeccanica si traduce oggi in un handicap soprattutto per il sottodimensionamento delle aziende: produzione, ordini e fatturato mandano pessimi segnali con un meno 4% e continue invocazione d’aiuto di imprese che lamentano le difficoltà di accesso al credito. Nel mezzo c’è Como, con le sue antiche famiglie industriali – molte delle quali hanno già venduto o dismesso – soprattutto nel settore tessile (che affonda le proprie radici nei Renzo Tramaglino raccontati dal Manzoni), dove la crisi e le ristrutturazioni sono arrivate prima, ora alla ricerca delle nicchie «mondiali» per resistere alla concorrenza cinese con i sindacati che tentano una gestione morbida della crisi e qualche volta spuntano contratti di solidarietà. L’altra manifattura comasca, il metalmeccanico, è costituita soprattutto di tante piccole imprese che fanno fatica a sopravvivere, mentre nelle poche grandi i processi di ristrutturazione sono pesanti. Caso esemplare la Sisme, che delocalizza in Slovacchia al seguito della tedesca Bosch, taglia i dipendenti da 900 a 500 e poi, per evitare altre delocalizzazioni, chiede un contibuto economico ai lavoratori comaschi. 700.000 euro in cambio di una nuova linea produttiva. Infine, tra declini e speculazioni, c’è tutto il distretto del mobile di Cantù, che registra un vero e proprio crollo di fatturato e occupati, perché i vecchi mobilieri brianzoli sanno lavorare bene il legno, ma sono rimasti un po’ fermi nel marketing, agganciati a un mercato italiano dai consumi collassati. E’ in questo panorama di declino industriale che a Como la piccola finanza aumenta il suo peso percentuale, pur senza riuscire a coprire i vuoti del manifatturiero.

Finanza creativa
Il capoluogo Lariano è al quarto posto in Italia per numero di società di capitale. Si tratta di finanziarie coinvolte nel flusso di denaro che dall’Italia va in Svizzera e che rappresentano materia di ricerca per il locale tribunale. Como è anche la città che ritira dalla banche la quantità più alta in Italia di banconote da 500 euro, quelle più comode da trasportare. «Perché qui siamo in mezzo tra le banche italiane e quelle svizzere, il luogo di passaggio», dice il pm Mariano Fadda che nelle sue inchieste si è spesso imbattuto negli uomini di importanti istituti di credito, dal Credito emiliano alla Banca popolare di Bergamo. «Il passaggio» coinvolge un centinaio di trasportatori come il nostro A. V. attraverso una meccanica abbastanza semplice. Le banche italiane offrono i loro servigi ai clienti che vogliono portare il denaro in Svizzera. Se lo vogliono fare clandestinamente perché è in nero o perché si vuole costituire una «riserva nascosta» per incognite future, in quasi tutte le banche del Belpaese c’è chi ha un contatto con un corrispettivo svizzero dove andare a depositare il malloppo. Avviata la «pratica» entra in gioco il territorio di Como e i suoi «spalloni». O «trasportatori» come preferisce essere chiamato A. V.: «Ognuno lavora in proprio, ha un contatto che gli dice dove ritirare il denaro o l’oro. In genere in un albergo o direttamente in qualche azienda. Non si lavora mai per meno di 50.000 euro, la commissione è del 2%, qualcuno fa il 3. Il cliente paga alla partenza, anche se c’è chi arriva ad anticipare da un proprio fondo – creato presso una fiduciaria svizzera – evitando il trasporto affrettato e poi, con calma, ripiana il suo conto con il contante dell’ultima “commessa”. La consegna in Svizzera è la cosa più semplice, c’è sempre un addetto pronto a piazzare i valori dove devono essere messi». Non sempre i soldi rimangono lì, qualche volta volano nei paradisi fiscali veri e propri, ma questa è un’altra storia e riguarda soprattutto altri soggetti, grandi esportatori, quelli dell’evasione vera, che non hanno bisogno degli «spalloni» e muovono tutto con le triangolazioni, spostando le ricchezze via internet. Loro non hanno bisogno di gente come A. V., quel centinaio di professionisti – qualcuno risiede in Svizzera e fa il taxista o l’artigiano – che sono invece essenziali per un altro commercio, l’oro: «Ultimamente – racconta il nostro trasportatore – c’è un bel po’ di traffico d’oro. Per farlo servono mezzi adeguati, macchine grosse o camper. Servono doppifondi e nascondigli… E tanti bulloni, anche inutili, ma messi per complicare la vita ai finanzieri e magari scoraggiarli dallo smontare un’automobile. A predisporre il tutto ci sono due carrozzerie, una a Como e un’altra a Lugano». Officine esperte, capaci di creare doppifondi o scomparti dietro il cruscotto, aggiungendo pezzi e togliendo altri, per non alterare di troppo il peso del veicolo e «non insospettire le bilance dei doganieri». Dove siano questi maghi del bullone, naturalmente, è top secret. Meno segreta è la provenienza del metallo prezioso, il cui traffico è cresciuto con la crisi economica e il proliferare dei negozi «compro oro», dove non sempre si fattura la catenina di famiglia venduta per disperazione. L’oro – che arriva anche dai furti – viene fuso, trasportato in Svizzera dove viene rilavorato e ritrasportato in Italia per costituire un’altra fonte di economia in nero. E il «giro» continua: «Almeno in questo mio nuovo lavoro – conclude A. V. – non c’è rischio di crisi. Quella la lascio a Monti». A due passi da lui, lì a Cernobbio.

Il Manifesto 19 settembre 2012

(14, continua)

 

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Category: Viaggio nella crisi italiana

About Gabriele Polo: Gabriele Polo (San Canzian d'Isonzo, 1957) è un giornalista italiano, è stato direttore del quotidiano il manifesto dal 2003 al giugno 2009, diventandone poi direttore editoriale, oltre che commentatore e inviato. In gioventù è militante di Lotta Continua e poi tra i promotori nei primi anni '80 del gruppo Lotta Continua per il Comunismo. Inizia la sua collaborazione al manifesto nel 1988 di cui è stato direttore dal 2003 al giugno 2009- Attualmente dirige il giornale on line I mec. Tra i suoi ultimi libri: , Il mestiere di sopravvivere, Editori Riuniti, 2000 , Diciottesimo parallelo, la ripresa del conflitto sociale in Italia, Manifestolibri, 2002; Ritorno di Fiom. Gli operai, la democrazia e un sindacato particolare, Manifestolibri, 2011.

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