Paolo Rossi: Donne nella ricerca: a quando una vera parità?

| 10 Ottobre 2015 | Comments (0)

 

 

Diffondiamo quattro testi di Paolo Rossi  del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa facente parte del Consiglio Universitario Nazionale che hanno come tema comune  la discriminazione delle donne nel mondo universitario e della ricerca

 

1. Paolo Rossi: Donne nella ricerca: a quando una vera parità?

Testo pubblicato nell’e book Wister – SGI dal titolo  Anche i maschi nel loro piccolo.. a cura di Flavia Marzano e Emma Pietrafesa, 10 agosto 2015

 

Abstract: Le limitazioni alla presenza femminile nel mondo della ricerca scientifica ormai non sono più dovute se non in misura limitata a una carenza di motivazioni dovuta a un pregiudizio culturale. Dati statistici, indagini ed esperienze dirette dimostrano che il “soffitto di vetro” è oggi la causa più importante e più evidente della scarso accesso delle donne alle posizioni di maggior responsabilità nel mondo accademico e scientifico. La dinamica in corso, per quanto positiva, è ancora troppo lenta per poter produrre risultati realmente rilevanti entro i prossimi decenni. Questo fenomeno non è purtroppo una peculiarità nazionale: la situazione a livello europeo è quasi ovunque molto simile a quella italiana.

 

L’esperienza diretta, prima ancora di qualunque statistica, ci mostra la permanente esistenza di profonde barriere culturali che hanno indirizzato e continuano a indirizzare e condizionare le scelte di studio di molte donne, pur motivate all’acquisizione di competenze avanzate ed eventualmente interessate a un inserimento in professioni legate al mondo della ricerca teorica e applicata.

Esiste un’evidente attrazione verso determinati percorsi formativi, quelli che di questi tempi vengono comunemente identificati con le formule di “scienze umane” e di “scienze della vita”, mentre le donne appaiono tuttora in larga misura respinte da quegli ambiti di studio e di formazione che si caratterizzano per un più elevato contenuto tecnologico.

Non indagheremo in questa sede le origini storiche e sociali di questi orientamenti e non analizzeremo in dettaglio i limiti specifici della nostra formazione primaria e secondaria, che a loro volta condizionano le scelte successive, ma ci limiteremo a sottolineare che non si tratta comunque di un fenomeno universale, almeno nel mondo attuale, in quanto in molti Paesi sviluppati questa polarizzazione delle scelte è oggi assai meno marcata, se non addirittura quasi assente.

Per un’analisi più precisa di queste dinamiche ci vengono comunque in aiuto alcune statistiche.
Ci pare interessante confrontare la variazione della percentuale di ricercatrici universitarie nelle differenti aree disciplinari tra il 1980 e il 2015, tenendo conto del fatto che globalmente tale percentuale è passata dal 41% al 46%, per cui almeno a questo livello la presenza femminile, pur senza essere esattamente paritaria, non sembra soggetta a discriminazioni confrontabili con quelle presenti in altri contesti nazionali, come la politica e il management. Peraltro si deve notare che già a questo livello si assiste a una riduzione del reclutamento femminile rispetto agli esiti sostanzialmente paritari del dottorato di ricerca.

Ebbene, pur nel quadro di un complessivo miglioramento della presenza femminile, ci sono aree che, partendo da valori del tutto rispettabili nel 1980, hanno visto una vera e propria recessione, come l’area delle Scienze Matematiche e Informatiche, passata dal 56% del 1980 al 41% del 2015, e l’area delle Scienze della Terra, passata dal 39% al 32%. L’area delle Scienze Fisiche è ferma al 26-27%, mentre l’unico settore delle scienze “dure” in cui l’evoluzione ha un segno positivo è quello delle Scienze Chimiche, giunte da un già significativo 44% all’attuale 59%.

Nel mondo dell’Ingegneria il progresso è stato invece innegabile, ma non dimentichiamo che si è passati dal 12% al 22% per l’Ingegneria Industriale e dal 24% al 39% per l’Ingegneria Civile.
Assai diversa è la situazione nelle scienze della vita: la presenza delle ricercatrici nelle Scienze Biologiche è passata addirittura dal 60% al 65%, mentre nelle Scienze Agrarie e Veterinarie si sale dal 36% al 48%, e anche in Medicina dal limitato 26% del 1980 si è giunti all’attuale 42%.

Anche le Scienze Giuridiche sono progredite (dal 39% al 48%), mentre restano pressoché stabili le Scienze Economiche (dal 45% al 47%) e le Scienze storico-filosofiche (dal 51% al 52%), e si registra una (peraltro non preoccupante) discesa dal 67% al 62% nell’ambito linguistico e letterario. Questi dati sembrano indicare soprattutto, a nostro parere, un grave limite del nostro sistema scolastico pre-universitario e della sua capacità di orientamento. Che cosa tiene lontane da discipline come la Matematica, L’Informatica, la Fisica, la Geologia o l’Ingegneria le ragazze italiane, che pure non sembrano refrattarie nei confronti di studi altrettanto impegnativi anche sotto il profilo “tecnologico” come quelli di Chimica, di Biologia o di Medicina?

Tale fenomeno ha risvolti preoccupanti anche su un piano strategico, proprio in un Paese, come il nostro, che sta scontando una grave arretratezza rispetto agli altri Paesi avanzati e a quelli in via di sviluppo proprio nei processi di innovazione che coinvolgono in maniera sempre più importante lo sviluppo di competenze proprio in quei campi disciplinari che sembrano presentare minor interesse culturale (e in prospettiva professionale) per la maggioranza delle ragazze italiane.

Esiste sicuramente un’immagine pubblica di alcune scienze che, almeno in Italia, le rende meno attrattive di altre in una prospettiva (per così dire) di genere, ancorché tale mancanza di capacità di attrazione non appaia riconducibile ad alcuna identificabile differenza tra maschi e femmine.
Esiste tuttavia almeno un altro riconoscibile motivo che concorre ad allontanare le donne da determinate discipline: si tratta del feedback negativo derivante proprio dalla scarsa presenza femminile in quegli stessi ambiti. Se per alcune donne tale scarsa presenza può apparire come uno stimolo e una sfida, per la maggioranza è certamente un segnale di forte ostilità (e quindi di repulsione) da parte di contesti nei quali la preponderante presenza maschile lascia facilmente presagire anche livelli di competitività e di aggressività non facilmente accettabili proprio in un’ottica di genere.

Se andiamo a vedere nel dettaglio quali sono i sottosettori delle discipline sopra menzionate in cui la presenza femminile appare più specificamente ridotta, ci accorgiamo facilmente che si tratta proprio di quei settori in cui è prevalente il contributo (e quindi l’affermazione) individuale, mentre pur nell’ambito delle stesse scienze “dure” gli ambiti in cui sono più importanti i comportamenti collaborativi e il lavoro di gruppo è più facile che le donne riescano a trovare una collocazione, un ruolo e in ultima analisi un’identità scientifica.

Ovviamente questi stessi meccanismi agiscono non marginalmente nelle dinamiche di carriera. Diventa quindi cruciale comprendere (anche quantitativamente) come operano tali dinamiche, in quanto esse generano a loro volta quei meccanismi di inclusione ed esclusione che tendono a perpetuare il divario di genere e quindi a riprodurre nel tempo condizioni che, come abbiamo qui argomentato, possono contribuire pesantemente a tenere molte giovani donne lontane da un mondo della ricerca che, come del resto ogni altro contesto economicamente, socialmente e culturalmente rilevante, ha un bisogno assoluto di maggiore presenza femminile.

Questa lunga ma importante premessa ci porta a indagare in dettaglio quali siano le opportunità realmente offerte alle donne nel mondo della ricerca, e come tali opportunità siano andate evolvendo in Italia negli ultimi decenni.
La documentazione raccolta ci permette ormai di seguire con continuità l’evoluzione della presenza femminile, all’interno del quadro più generale della docenza universitaria italiana, a partire dalla riforma epocale del 1980 (quando furono istituiti i ruoli dei ricercatori e dei professori associati), con informazioni relative non soltanto al momento dell’entrata nei vari ruoli e al settore disciplinare di appartenenza, ma anche all’età d’ingresso e alla sede geografica. Non tutte queste informazioni mostrano correlazioni significative con il genere: ad esempio l’età media d’accesso ai singoli ruoli, mentre appare nel complesso in costante crescita nel tempo, non mostra tuttavia per i ricercatori una significativa differenza tra maschi e femmine. Come si può evincere anche dai grafici, per la fascia dei professori associati una piccola differenza in effetti esiste, ma soltanto durante gli anni Novanta il ritardo medio per l’accesso delle donne rispetto agli uomini ha visto valori prossimi all’anno; per l’accesso alla fascia degli ordinari invece la differenza di età è in media di circa un anno, e quindi non è del tutto trascurabile ma certamente non pare drammatica.

Sono certamente molto più significativi i dati riportati in Tabella, relativi alla presenza assoluta e percentuale delle donne nelle diverse fasce della docenza e soprattutto la loro evoluzione temporale. Se è indubitabilmente in atto un’evoluzione positiva, tanto più marcata quanto più si sale nella gerarchia accademica (la percentuale delle associate è passata dal 21% al 36%, e quella delle ordinarie dal 4% al 21%) almeno due osservazioni di fondamentale importanza emergono quasi naturalmente dall’analisi dei dati.

Si rinvia all’articolo originale disponibile nel sito del docente Paolo Rossi dell’Università di Pisa per i dati completi. In questa sede e si riportano solo i dati della Tavola base che indica la percentuale di donne tra chi ha il titolo di ricercatore,  professore associato e ordinario dal 1980 al 2015. Nel 1980 le donne ricercatrici erano 5.037 (il 41%), nel 2015 sono 9.750 (il 46%); nel 198o le donne associate erano 2.473 (il 21%), nel 2015 sono 2. 249 (il 36%); nel 198o le donne ordinarie erano 331 (il 6%), nel 2015 sono 2.834 (il 21%).

In primo luogo appare evidente che il fenomeno del “soffitto di vetro” è ben lontano dall’essere superato, se a fronte di una quasi parità nell’accesso iniziale corrisponde un rapporto di poco più di uno a due tra femmine e maschi nel passaggio alla seconda fascia, e si scende addirittura a un rapporto di uno a quattro nella fascia degli ordinari, che resta la sede del reale “potere” accademico. Ma se questi valori fossero semplicemente imputabili alla lentezza dei processi sociali e del ricambio generazionale si potrebbe anche assumere un atteggiamento relativamente ottimista e pensare che i livelli attuali siano soprattutto l’effetto del gravissimo divario di partenza, e che dopo un tempo abbastanza lungo la tendenza alla parità potrebbe comunque affermarsi.

La seconda, e più preoccupante, osservazione riguarda però proprio il comportamento tendenziale, quale emerge da un’analisi dettagliata delle serie temporali. Mentre è evidente che nei primi anni del nuovo secolo, e in particolare dal 2000 al 2005, vi è stata una fase di significativa accelerazione del bilanciamento di genere nei processi di reclutamento e di avanzamento di carriera, non si può non rilevare che la crisi generale del reclutamento, che ha prodotto una riduzione del 20% della docenza universitaria di ruolo tra il 2009 e il 2015, ha avuto come corollario anche un brusco rallentamento del processo di riequilibrio.

Per capire esattamente che cosa stia accadendo prendiamo in esame le percentuali di reclutamento in ciascuna fascia, concentrandoci sull’ultimo decennio. Scopriamo allora che in ciascuna delle tre fasce la percentuale di reclutamento delle donne è rimasta sostanzialmente stabile per l’intero decennio 2005-2015, con valori che vanno dal 44% medio per la fascia dei ricercatori al 36% per gli associati e al 27% per gli ordinari. Dal momento che per le due fasce inferiori questi numeri di fatto coincidono con le percentuali complessive attuali delle due fasce, ciò implica che non ci si può più aspettare alcuna progressione, e che il moderato effetto di crescita osservato è sostanzialmente da imputarsi a una dinamica demografica che vede un maggior pensionamento di maschi a causa della loro maggior presenza nelle classi di età più anziane. Anche le percentuali relative al reclutamento degli ordinari non sono particolarmente incoraggianti, visto che la percentuale delle docenti in servizio non potrà mai in alcun modo superare quella delle docenti mediamente reclutate.

La prospettiva per cui prevedibilmente e per molti anni le cattedre universitarie di prima fascia saranno occupate da donne al più tanto nella misura del 27% ci dà una misura concreta e frustrante di come il fenomeno del “soffitto di vetro” sia una realtà da riferirsi non soltanto al passato e al presente ma anche al futuro del nostro sistema universitario e del mondo della ricerca italiana, che si concentra in larga misura nelle università.

Un ulteriore elemento di riflessione viene dal risultato di recenti analisi sistematiche condotte a partire dai dati relativi alle procedure di Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) che si sono svolte nel biennio 2013-2014.

Emerge con una certa evidenza il fatto che nella maggior parte dei casi la presenza di donne nelle commissioni di valutazione, lungi dallo stimolare un maggior numero di giudizi positivi nei confronti delle candidate, ha costituito addirittura un handicap negativo, da attribuirsi forse in misura significativa a una interiorizzazione dei modelli maschili di competizione da parte di docenti spesso anziane e che certamente hanno dovuto confrontarsi duramente con tali modelli per potersi a loro volta affermare fino ad occupare le posizioni apicali che attualmente detengono. Si deve pertanto ritenere che la prospettiva di un bilanciamento di genere nelle commissioni di valutazione, che era stata spesso auspicata con la speranza di favorire in tal modo un giudizio più equilibrato e meno (anche inconsciamente) preconcetto nei confronti delle candidate, non rappresenti in alcun modo una soluzione ai problemi che stiamo qui discutendo.

Può essere infine interessante effettuare una comparazione di questi dati con la situazione presente nei principali Paesi europei.


Paesi

A

B

C

D

Totale

UE 27

20%

37%

44%

46%

40%

UE 15

18%

36%

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43%

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45%

39%

Germania

15%

21%

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27%

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41%

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36%

Regno Unito

17%

37%

47%

46%

42%

Francia

19%

40%

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30%

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42%

34%

Spagna

17%

38%

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49%

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52%

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45%

ITALIA

20%

34%

45%

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51%

39%

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La Tabella (tratta da She Figures e riferita all’anno 2010) va interpretata tenendo conto del fatto che nella classificazione ormai internazionalmente accettata il grade A corrisponde ai nostri professori ordinari, il grade B ai nostri associati, il grade C ai nostri ricercatori di ruolo, ma anche a tempo determinato, e il grade D corrisponde alle figure post-dottorali e precarie presenti in tutti i Paesi. Anche se non aggiornatissimi, i dati riportati in Tabella mostrano che, almeno in questo campo, la situazione italiana non è (verrebbe da dire purtroppo) significativamente diversa da quella degli altri principali Paesi ed è anzi decisamente migliore di quella di nazioni come la Germania e la Francia. Sembra quindi che il cammino verso un pieno riconoscimento del ruolo e dell’importanza delle donne nella ricerca sia ancora pieno di ostacoli, e non soltanto a livello nazionale, mentre si deve ancora una volta ribadire che la perdita, anche parziale, della componente femminile, in un ambito che può legittimamente considerarsi come il principale fattore trainante dell’innovazione, costituisce un danno di portata strategica per l’intera società.

 

Bibliografia

ISTAT, Donne all’Università, Il Mulino 2001
F.Marzano, P.Rossi, Le dinamiche di reclutamento e di carriera delle donne nel sistema universitario italiano, ASTRID Rassegna 12 settembre 2008 n.77
M.Bagues e N.Zinovyeva, Donne che giudicano le donne. In cattedra, ingenere 10/02/2011 R.Frattini, P.Rossi, Report sulle donne nell’Universita’ italiana, Menodizero, Anno III, N.8-9, Gennaio-Giugno 2012
European Commission, She Figures 2013. Gender in Reseasrch and Innovation
C.Bosquet, P.-Ph.Combes, C.Garcia-Peñalosa, Gender and Competition: Evidence from Academic Promotions in France, SciencesPo. Economics Discussion Paper 2013-17
ANVUR, Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2014
M.Bagues, M.Sylos-Labini, N.Zinovyeva, Do gender quotas pass the test? Evidence from academic evaluations in Italy, LEM Working Paper Series 2014/14
P. Rossi, Carriere femminili e sistemi di valutazione, 2014 (in corso di stampa)

BIO
Paolo Rossi è professore di Fisica Teorica all’Università di Pisa dal 1988 e membro del Consiglio Universitario Nazionale dal 2007. Da tempo si occupa delle dinamiche della docenza universitaria, con particolare attenzione ai condizionamenti di genere nelle carriere

 

 

2. Paolo Rossi con S. Croci: L’infrangibile soffitto di vetro

in www. primapagina.sif.it n.17 del 25 maggio 2015

I dati forniti dal CUN (Consiglio Nazionale Universitario), mostrati nella prima figura di questo articolo, indicano che il numero totale dei fisici tra professori ordinari (PO) professori associati (PA) e ricercatori (RU) è diminuto da 2598 unità nel 2008, anno di massimo numero di docenti, a 2077 unità nel 2014, con una previsone di arrivare a 1704 unità nel 2020.

 

Distribuzione dei docenti nei settori di fisica secondo genere.

Dal 2008 questo calo, pari al 34% del corpo docente, è del 37% per la componente maschile e del 21% per quella femminile. Se guardiamo in dettaglio, vediamo che i professori ordinari uomini che nel 2008 erano 791, nel 2014 sono passati a 449 e in previsione saranno 271 nel 2020, con un calo colplessivo del 66% mentre per le donne, da 62 unità nel 2008, si passerà a 41 unità nel 2020 con un calo del 34%. Va comunque considerato che le proiezioni al 2020 considerano solo i pensionamenti e non le nuove assunzioni o i passaggi di ruolo.

L’unico dato “positivo” è, in proiezione, un complessivo aumento fino al 2020 del numero di professori associati, reclutati dal 2014, frutto delle nuove abilitazioni. Come si vede si tratta di unità provenienti dalla posizione di ricercatore che non sarà ripopolata in ugual misura. Dati questi che dimostrano ciò che è ormai chiaro: una elevata contrazione del corpo docente. Il fatto che la diminuzione delle donne sia inferiore percentualmente a quella maschile è da imputarsi più a un effetto del pensionamento che non a nuove politiche di genere. La percentuale di PO donne nel 2008 era pari al 18%, per arrivare al 20% nel 2014 e al 21% nel 2020, dimostrando che si tratta di un aumento estremamente lento.

La percentuale di ricercatrici del settore della fisica nel 2014 è pari al 27%, molto al di sotto del 46%, media di tutti settori disciplinari.

È possibile calcolare dai dati del CUN il “glass ceiling index” nei settori della fisica, ossia un indice che quantifica le possibilità delle donne di raggiungere le più alte posizioni accademiche, rispetto agli uomini. L’indice è infatti un indicatore di “discriminazione verticale” e paragona la frazione di donne con posizione accademiche (PO+PA+RU), in questo caso nei settori della fisica, rispetto alla frazione di quelle con posizione apicale (PO). Ogni frazione è riferita al corrispondente totale di uomini più donne. Il valore 1 indicherebbe quindi la non differenza nell’avanzamento di carriera delle donne rispetto agli uomini. Definito in questo modo, l’indice quantifica in qualche modo lo spessore di un simbolico soffitto di vetro che limita la carriera femminile.

Con i dati CUN si ottiene un valore di 2.8 nel 2008, per arrivare a un valore presunto di 1.6 nel 2018, cioè se la situazione fosse fotografata con gli attuali ruoli.

 

Andamento del glass ceiling index per settori della fisica.

Il valore dell’indice così calcolato dimostra un netto miglioramento nel corso degli anni che può considerarsi in parte artificioso, dovuto all’effetto dei pensionamenti (e quindi a un aumento della percentuale relativa dei PO donne rispetto al totale) e non esclusivamente a nuovi ruoli che probabilmente ci saranno. Il dato dimostra inoltre che con una situazione che rimanesse invariata in termini di nuove posizioni da PO donna rispetto al 2014, il valore 1.6 è ancora lontano dall’auspicato valore 1.

Ancora una volta è chiara l’importanza dell’aumento delle figure di riferimento femminili che facciano da traino per un futuro cambiamento, ma anche di un’analisi più dettagliata delle motivazioni e delle dinamiche per riuscire a infrangere il soffitto di vetro.

 

3. Paolo Rossi:  Carriere femminili e sistemi di valutazione

Intervento al convegno Lavoro e carriere femminili negli anni della crisi, Conferenza Nazionale degli Organismi di Parità delle Università Italiane del 3 aprile 2014

 

Una premessa: partiamo dai dati

Le accurate analisi del Rapporto ANVUR1 sullo stato dell’Università e della ricerca in Italia confermano le indicazioni già emerse dagli studi precedenti sulla condizione femminile nel mondo accademico2.

In particolare appare evidente il fatto che dopo una fase di rilevante crescita percentuale e assoluta della presenza femminile nelle differenti fasce docenti, si è avuto un rallentamento e nell’ultimo quinquennio una vera e propria stagnazione, che vede la percentuale delle ricercatrici attestata intorno al 45%, quella delle associate prossima al 35% e quella delle ordinarie al 21%., mentre i valori assoluti sono addirittura in calo in quanto il reclutamento non riesce a far fronte al turnover neppure quando si restringe l’attenzione al reclutamento per genere. Le Tabelle qui presentate, tratte dal succitato Rapporto ANVUR, traducono in termini grafici e quantitativi queste considerazioni.

Non è particolarmente consolante osservare che percentuali analoghe si riscontrano in numerosi Paesi europei, anche perché, in quasi tutti gli altri Paesi, la presenza femminile nel mondo del lavoro è complessivamente assai più bilanciata rispetto all’Italia, e di conseguenza un fenomeno che sembra caratterizzare il mondo accademico non è comunque spia di una patologia che da noi è diffusa nel complesso della società. In questo contesto è significativo anche osservare che al livello più basso, quello del precariato non strutturato, le donne sono addirittura la maggioranza, a conferma del trend che le vede maggioritarie tra i laureati, e anche in molti dottorati, ma con percentuali progressivamente calanti man mano che si sale nella scala gerarchica (soffitto di vetro).

Un altro insieme di dati rilevanti, sia in quanto tali sia per i loro riflessi su quanto diremo in seguito, riguarda la distribuzione della presenza femminile a seconda dell’area disciplinare. Appare evidente che esistono fortissimi condizionamenti, di origine prevalentemente socio-culturale, nell’orientamento disciplinare delle donne al momento della scelta del percorso formativo, e questi condizionamenti si riflettono inesorabilmente anche sulle successive percentuali al momento del reclutamento, con effetti anche di feedback negativo che discuteremo in seguito.

Merita comunque fin da subito osservare che, purtroppo, i settori verso i quali si orienta prevalentemente la scelta delle donne sono (con la sola eccezione delle cosiddette scienze della vita) anche i settori che offrono il minor numero di sbocchi professionali realmente interessanti, e non soltanto nel mondo accademico. Riorientare le giovani verso le discipline scientifico-tecnologiche è fondamentale per loro e per il Paese, ma si scontra anche con i modelli che le stesse istituzioni formative tendono a riproporre e perpetuare (schematicamente: le maestre sono donne, le insegnanti dei licei sono per lo più donne, i professori universitari sono uomini)

 

Valutazione e genere: gli elementi oggettivi

Venendo a parlare degli effetti della valutazione accademica in un contesto di genere, occorre in primo luogo riconoscere l’esistenza di elementi oggettivamente discriminatori nella definizione dei criteri e dei parametri che dovrebbero garantire l’obiettività delle procedure di valutazione e selezione.

Senza alcuna pretesa di esaurire l’argomento preme qui sottolineare almeno alcune caratteristiche di criteri attualmente in uso a causa delle quali risulta abbastanza evidente il carattere pregiudiziale dei criteri stessi se letti in un’ottica di genere.

In primo luogo è chiaro che un criterio relativo di produttività, quale ad esempio il tristemente celebre criterio delle mediane, tra i suoi numerosi aspetti contestabili ha anche quello di non mettere in alcun modo in conto che la persistente differenza di genere nei ruoli sociali comporta tempi di vita e di lavoro che possono risultare significativamente differenti a seconda del genere.

Con ciò non si auspicano affatto, sia ben chiaro, mediane di genere, ma piuttosto appare essenziale spostare il focus della valutazione dagli aspetti quantitativi a quelli qualitativi, usando il parametro quantitativo soltanto nella definizione di una soglia minimale assoluta, al di sotto della quale non si può considerare che una persona abbia ancora svolto un’attività scientifica adeguata al ruolo per il quale si candida.

Per ragionare in termini concreti e quantitativi, possiamo partire dall’osservazione che alcune simulazioni hanno indicato che in molti casi una soglia del tutto ragionevole corrisponderebbe all’incirca alla metà dei valori proposti dalle mediane. Usato come condizione necessaria ma non sufficiente, il criterio di soglia da un lato garantirebbe un forte elemento di prevenzione degli abusi, ma dall’altro restituirebbe ai valutatori la necessaria libertà di applicare con discernimento la propria capacità di giudizio di merito.

In qualche modo legato al tema precedente è anche quello della definizione della cosiddetta età accademica cui fare riferimento, sempre ai fini di una valutazione quantitativa della produttività. Anche se sono stati introdotti alcuni correttivi, in particolare riferiti alla salute, alla maternità e ai compiti genitoriali, non sembra che tali correttivi siano adeguati a cogliere alcune specificità della condizione femminile in Italia, dove la mancanza o l’insufficienza dei servizi sociali comportano impegni di assistenza e di cura domestica che quasi sempre finiscono col ricadere sulle donne della famiglia (madri, mogli, figlie, sorelle).

Da ultimo, ma con un’influenza non trascurabile ad esempio nella formulazione dei giudizi di alcune commissioni ASN, l’enfasi sull’internazionalizzazione dell’attività di ricerca, sacrosanta sul piano delle istituzioni, quando viene a riferirsi ai comportamenti individuali rischia ancora una volta di introdurre elementi discriminatori, giacché, anche per i motivi sopra elencati, la capacità di affrontare lunghi trasferimenti, anche a prescindere dalla disponibilità soggettiva, può essere spesso condizionata da situazioni familiari, e la capacità di intrattenere rapporti scientifici internazionali passa ancora pesantemente attraverso l’incontro fisico che spesso avviene proprio quando si è in condizioni di elevata mobilità.

Vorremmo enfatizzare la considerazione che la ricerca della qualità di chi opera nel mondo dell’alta formazione e della ricerca non dovrebbe mai andare a scapito del mantenimento di livelli di umanità che non raramente sono sacrificati alla carriera, ancorché scientifica, in una competizione che spesso enfatizza, più dei risultati, proprio la disponibilità a sacrificare qualunque altro interesse.


Valutazione e genere: gli elementi soggettivi

A prescindere dalle possibili cause oggettive di discriminazione di genere nella valutazione, sembra difficile negare una certa evidenza del fatto che nelle procedure selettive entrano in gioco anche elementi di soggettività dei valutatori che in ultima analisi tendono spesso a sfavorire le candidate nei confronti dei candidati.

Non ci riferiamo qui a comportamenti dolosi o palesemente e consciamente discriminatori come avveniva in passato (valga per tutti l’aneddoto di Pia Nalli (1886-1964), prima donna in Italia a occupare una cattedra di matematica, che nel 1928 fu rifiutata dall’università di Palermo in quanto (come scrisse il fisico La Rosa) «la scolaresca di Palermo essendo numerosa, per tenere la disciplina occorrono delle solide qualità virili»3), quanto piuttosto a comportamenti dettati, quasi sempre in modo inconscio, da condizionamenti culturali (si consideri come esempio l’esperimento di selezione al buio di giovani musicisti, nel quale le candidate donne risultarono significativamente più favorite rispetto al caso in cui la selezione fosse stata effettuata essendo a conoscenza del sesso dei candidati).

Questi condizionamenti agiscono prevalentemente sui valutatori maschi (anche se non è da escludere che, per interiorizzazione dei modelli o per competizione, anche alcune giudicatrici ne risultino influenzate), e questo fatto si ripercuote fortemente sulla riproduzione degli assetti e dei ruoli dentro comunità specifiche.

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Ci ricolleghiamo qui al discorso che si riferisce alla differente percentuale di presenze femminili nelle diverse aree disciplinari: è abbastanza chiaro che, laddove nelle commissioni di valutazione la presenza di genere appare abbastanza bilanciata (cosa che ovviamente accade più facilmente nelle aree in cui la presenza di genere è nel complesso più bilanciata) l’effetto di atteggiamenti anche inconsciamente discriminatori appare fortemente attenuato, e viceversa commissioni totalmente o prevalentemente maschili saranno più facilmente influenzate da stereotipi culturali4. L’effetto netto, purtroppo, è quello di un potenziale aumento della divaricazione, poiché la presenza femminile tenderà a rafforzarsi dove è già forte, restando debole dove parte da condizioni di debolezza.

Un test importante di queste dinamiche potrà emergere da uno studio che si sta avviando, anche in collaborazione con la rete WISTER dell’associazione Stati Generali dell’Innovazione, volto a misurare gli esiti delle valutazioni di abilitazione scientifica nazionale (ASN) in rapporto al genere dei candidati, valutando e confrontando le percentuali di maschi e femmine dei partecipanti e quelle dei promossi per tutte le commissioni disponibili: alcuni dati relativi alle abilitazioni non sono più accessibili in rete e occorre quindi una ricerca e un’elaborazione che non è ancora stato possibile effettuare. In via preliminare, ma con una significatività statistica già non trascurabile, nel campione costituito dai candidati all’abilitazione alla seconda fascia che avevano una posizione di ruolo nell’Università di Pisa, su 219 ricercatori maschi ne sono stati abilitati 157, pari al 72%, mentre su 155 ricercatrici ne sono state abilitate 106, pari al 68%. Il dato appare relativamente equilibrato, anche se non possiamo trascurare un piccolo effetto dovuto all’autocensura nella partecipazione, tenendo conto del fatto che le ricercatrici rappresentano circa il 43% della popolazione totale della fascia, ma solo il 41% dei partecipanti alla valutazione. Ma più clamoroso è certamente il dato che si riferisce alle abilitazioni alla prima fascia, dove su 153 candidati maschi ne sono stati abilitati 109 (71%), mentre su 77 candidate ne sono state abilitate soltanto 45 (58%)

L’atteggiamento delle donne nei confronti della valutazione

Da ultimo, anche se questo comporta un ingresso in campi disciplinari non di nostra diretta competenza, ci sembra opportuno introdurre qualche considerazione in merito all’atteggiamento delle donne nei confronti della valutazione, atteggiamento anch’esso culturalmente condizionato, ma che rischia talvolta di influenzare, in senso negativo, gli esiti stessi della valutazione.

Il singolo elemento che, a mio parere, agisce più pesantemente come freno alle carriere femminili è costituito da un tratto comportamentale che, sul piano umano, sarebbe invece da apprezzare molto, ovvero la disponibilità. Cosa che, nel mondo accademico (e non solo in esso), si traduce poi spesso nei fatti nella disponibilità ad accettare ruoli subalterni, anche quando la subalternità non è fondata su un reale e motivato giudizio di valore, ma soltanto sul calcolo della probabilità che il ruolo sia o meno accettato.

Questo spiega ad esempio il fatto che ci sia una massiccia presenza femminile nei ruoli precari e che questa non si traduca in altrettante assunzioni in ruolo anche quando se ne presenti l’opportunità. Che piaccia o no, e che ciò avvenga in maniera conscia o inconscia poco importa, la valutazione è condizionata anche dal grado di assertività del candidato, e in qualche misura anche dalla percezione di quanto esso sia disposto ad accettare il risultato della valutazione stessa. Non vorrei peccare di psicologismo, ma non riesco a sfuggire alla sensazione che la maggiore o minor velocità di molte carriere, anche maschili, sia stata condizionata anche dalla capacità degli interessati di lanciare segnali forti della propria presenza e di far pesare il proprio contributo (talvolta anche ben oltre il reale merito).

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Ma oltre gli elementi di soggettività della valutazione, resta comunque il fatto che la scarsa assertività e l’accettazione di ruoli ancillari si ripercuotono anche oggettivamente nella valutazione, in quanto portano a sottostimare il ruolo e il contributo della persona, specie nell’a affidamento di incarichi qualificanti che poi si traducono in opportunità di risultati, e ancor peggio nelle collaborazioni, dove spesso la firma del collaboratore meno riconosciuto finisce in posizioni poco qualificanti e poco contribuisce alla sua immagine e quindi alla valutazione, che spesso fa riferimento a un profilo complessivo più che non a singoli risultati di rilievo, che raramente, anche se tali, riescono ad attirare l’attenzione di valutatori quasi sempre impegnati in una pratica di routine che lascia poco spazio a reali approfondimenti.

 

E’ anche un problema di orientamento

Non sembra dunque di poter dubitare che esista un gender gap specifico anche nel contesto dei processi di valutazione accademica, e che tale gap, per essere superato, richieda interventi che solo in piccola misura potranno essere di natura normativa, mentre non può essere sottovalutata, anche in questo caso come in tanti altri, l’importanza di un cambio d’atteggiamento e di forma mentis da parte di tutti i soggetti coinvolti, sia nella veste di valutatori sia in quella di valutati. Si tratta in primo luogo di riconoscere il valore strategico (sul piano culturale ma anche su quello economico), per gli individui e per la società tutta, di un più pieno sviluppo delle potenzialità intellettuali di quella metà del genere umano cui non è stato finora concesso sufficiente spazio per esprimere tutte le proprie capacità e tutta la propria creatività, ma si tratta anche di individuare e orientare questa potenzialità, secondo le vocazioni specifiche, che certamente non possono essere vincolate al genere ma non possono certo nemmeno considerarsi indipendenti dalle attitudini individuali. In tal senso un ruolo strategico compete alla scuola, il cui compito precipuo dovrebbe essere proprio quello di liberare la creatività mentre fornisce gli strumenti per indirizzarla verso obiettivi non sterili ma realmente originali.

Desideriamo concludere con parole antiche, che dimostrano come non da oggi, almeno per alcuni, fosse abbastanza chiaro che questa era una delle radici del problema, ma che esistevano anche strade per la sua soluzione. Scriveva Luigi Crespi (1708-1779), pittore e storico dell’arte, vissuto in un’epoca che fu poi, con buona ragione, detta dei Lumi, contemporaneo e concittadino di Laura Bassi (1711-1776), professoressa di fisica all’università di Bologna, la prima donna al mondo alla cui morte subentrò nella cattedra il marito:

«Se le donne fossero instradate da giovanette nelle arti liberali e negli studi scientifici, egli è certo che molte riuscirebbero eccellenti, e supererebbero tanti uomini professori, essendo elleno pazienti, diligenti, attente, né così svagate, come gli uomini per lo più sono.»5

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NOTE

1 Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2014, ANVUR 2014

2 ISTAT, Donne all’Università, Il Mulino 2001; F. Marzano e P. Rossi, Le dinamiche di reclutamento e di carriera delle donne nel sistema universitario italiano, ASTRID Rassegna 12 settembre 2008 n.77; R. Frattini e P. Rossi, Report sulle donne nell’Università Italiana, Menodizero, Anno III, N.8-9, Gennaio-Giugno 2012

3 Archivio Centrale dello Stato, fondo Pia Nalli, esposto al ministro del 12 maggio 1928

4 M. Bagues e N. Zinovyeva, Donne che giudicano le donne. In cattedra, Ingenere 10/02/2011

5 L. Crespi, Vite de’pittori bolognesi, 1769

4. Paolo Rossi: La carriera di una donna. Sotto la mediana

Blog  di Paolo Rossi del 14 ottobre 2012

 

Avrei voluto nascere maschio, per gli ovvi vantaggi sociali offerti dal ruolo, ma era tarda sera, e quel giorno, come al solito,  il numero dei nati maschi aveva già superato il 50 per cento, e non ci fu niente da fare.

A scuola avrei scelto di studiare inglese, ma mi fecero notare che l’inglese si insegnava soltanto in metà delle classi, e la mia iscrizione non era arrivata in tempo. Ora conosco bene il portoghese, ma non mi capita molto spesso di usarlo.

In classe sedevo nella fila di destra: era quella cui toccava sempre la versione di greco più difficile. Mi piaceva parecchio un ragazzo della terza C, ma nella graduatoria dei maschi finivo sempre nella metà delle bruttine, e mi sono ritrovata con un secchione di quarta che alla fine poi ho dovuto anche sposare

In vacanza andavo a Rimini, ma sempre nella seconda metà degli ombrelloni, quelli da cui si vede bene San Marino ma per il mare ci vuole il binocolo.

Per qualche tempo ho creduto nella politica, ma le coalizioni per cui votavo non arrivavano mai oltre il 49%.

Decisi di andare all’Università. A Medicina c’era il numero chiuso: sbagliai più di metà delle risposte perché non leggevo Novella 2000, e così dovetti iscrivermi a Biologia, però nel secondo gruppo, quello che faceva laboratorio a ora di pranzo e a ora di cena. Mi laureai con la gastrite, e concorsi al dottorato. Vinsi, ma metà dei posti era senza borsa, e per tre anni passai tutte le sere e i weekend a fare la babysitter.

Partecipai a molti concorsi: se c’era un posto arrivavo seconda, se i posti erano due arrivavo terza, e così via. Come premio di consolazione c’era sempre qualche breve contratto sottopagato, e così di mestiere faccio la precaria.

Per scrupolo ho tentato di entrare nel TFA, ma metà delle domande cui avevo dato la risposta corretta è stata annullata perché la risposta ufficiale era quella sbagliata.

Ora mi dicono che dovrei provare a chiedere l’abilitazione, ma le mediane del settore in cui il mio professore conta sono altissime, perché sono tutti tanto bravi (dice lui), mentre nel settore adiacente (dove non sono tanto bravi) le mediane sono bassissime, ma quelli del mio settore non passano mai, neanche se fanno le stesse cose.

Se avessi un po’ di fortuna potrei forse diventare ricercatrice a tempo determinato: ma poi soltanto uno su due ha il posto assicurato senza concorso, e  l’altro deve fare un concorso in cui soltanto uno su due può restare nella propria sede. E già mi immagino a chi toccherebbe andarsene. Mio marito ha già detto che se vinco un posto fuori sede lui ai bambini non bada. Di bambini per ora in verità non ne abbiamo (l’andrologo ha detto che abbiamo una probabilità su due), ma non si sa mai…


Category: Donne, lavoro, femminismi, Scuola e Università

About Paolo Rossi: Nato a Bologna nel 1952, il professor Paolo Rossi si è laureato in Fisica all'Università di Pisa nel 1975, discutendo la tesi di Fisica teorica "Solitoni dinamici in teoria dei campi quantistica relativistica", diplomandosi nel contempo presso la Scuola Normale Superiore quale allievo ordinario della Classe di Scienze. Ha vinto un posto per il corso di perfezionamento della Scuola Normale Superiore per gli anni accademici 1975/78. Nel 1978, risultato vincitore di una borsa della Fondazione "Della Riccia", ha trascorso un periodo di attività di ricerca al Center for Theoretical Physics del Massachusetts Institute of Technology. Nel 1981 ha preso servizio come ricercatore universitario presso la Scuola Normale Superiore e ha successivamente trascorso un biennio come research fellow presso la Theoretical Division del CERN di Ginevra. È diventato professore associato di Fisica teorica nel 1988 per la cattedra di Teoria dei campi della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell'Università di Pisa. Nel 2000 è diventato professore ordinario in Fisica teorica sempre presso la stessa facoltà. È stato membro del Senato accademico in qualità di rappresentante dei dipartimenti di Fisica, Informatica, Matematica e Scienze della terra, facendo inoltre parte della Commissione didattica e della Commissione personale d'Ateneo. Direttore del dipartimento di Fisica "Enrico Fermi" dal 2003, ha successivamente ricoperto la carica di preside della facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali fino al 18 settembre 2012, data di cessazione delle facoltà dell'Università di Pisa. Dal 2007 è membro del Consiglio Universitario Nazionale e dal 2012 è membro del Consiglio di amministrazione dell'Università di Pisa. L'attività di ricerca del professor Paolo Rossi si è concentrata inizialmente sui monopoli magnetici non-Abeliani e soluzioni esatte per sistemi di molti monopoli. Un successivo argomento di ricerca sono state le anomalie sia chirali e che nei modelli supersimmetrici. Sui modelli di spin è stato possibile applicare le più moderne tecniche della teoria dei campi, modelli che sono stati poi utilizzati in situazioni di interesse sia teorico che sperimentale. In modo innovativo il professor Rossi ha applicato gli strumenti della Fisica teorica a problemi biologici, biomedici e all'analisi dei testi letterari e storiografici, nonché alle dinamiche di popolazioni o anche alla distribuzione dei cognomi. L'interesse per il sistema universitario lo ha infine portato a modellare matematicamente le dinamiche di reclutamento e carriera nel sistema universitario, e svolgere studi statistici degli indici bibliometrici. Dal 2007 si occupa in modo sistematico anche di storia della scienza, e in particolare della fisica pisana e italiana. Parallelamente all'attività professionale, coltiva un interesse per la storia d'Europa nell'Alto Medioevo e ha curato la prima traduzione italiana dei testi di quattro storiografi franchi del X secolo, pubblicando inoltre due romanzi storici. Il professor Rossi è autore di più di 120 pubblicazioni su riviste internazionali e di due manuali didattici. È stato membro del Comitato Nazionale per le celebrazioni del IV centenario dell'invenzione del cannocchiale di Galileo Galilei. È attualmente condirettore della Collana "Fonti tradotte per la Storia dell'Alto Medioevo" della Pisa University Press e membro del relativo Comitato scientifico. Molti dei suoi contributi sono disponibili in rete nel suo sito.

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