Matilde Callari Galli: Appunti sul rapporto comunità e genere
Pubblichiamo gli appunti della antropologa culturale Matilde Callari Galli per l’incontro del 5 aprile 2013 in Via Barozzi 7 presso la Casa Don Paolino a Bologna organizzato dalla Istituzione per l’inclusione sociale di Bologna
Leggere il tema di comunità in rapporto al genere si inserisce nel filone di analisi che partendo dalla constatazione della diseguaglianza tra i generi in condizioni di fatto, di opportunità e di autodeterminazione intende individuare le specifiche dinamiche che strutturano da un lato la concettualizzazione, dall’altro la pratica della differenza.
Se inseriamo in questa lettura la definizione di identità presentata nell’incontro introduttivo di questi seminari ed elaborata da Manuel Castells possiamo cercare di provare la funzionalità dei due modelli più rilevanti, quello di resistenza e quello di progettualità. Possiamo inoltre cercare di illustrare come essi siano dinamici, come l’aderenza ad uno dei due determina esiti diversi e come i confini tra essi siano labili se non ambigui.
Sulla differenza di genere sin dal lontano passato e nella maggioranza delle società di cui abbiamo notizie in qualche modo circostanziate si è innestato un differenziale di potere che ha visto riconoscere, sia pure in una molteplicità di modi, la superiorità alle qualità e alle capacità proprie del sesso maschile, con il corollario inevitabile dello svilimento delle qualità e delle capacità attribuite al sesso femminile.
In opposizione a questo modello negli ultimi decenni nella società occidentale si sono sviluppati modelli identitari che hanno raccolto intorno a sé comunità composte da persone che esplicitamente affermano di condividere interessi ed esperienze in virtù di una comune identità sessuale o di genere. Per orientarmi in questo vastissimo panorama ho scelto di suddividere il materiale raccolto secondo due direttrici.
Per la prima esaminerò sia pure nelle loro grandi linee le comunità legate al nascere del movimento femminista e limiterò la sua analisi al panorama italiano mentre in un secondo momento rivolgerò l’attenzione alle comunità che organizzano la loro appartenenza per una scelta di comportamenti sessuali considerati per secoli dalla maggioranza dei loro concittadini come devianti o anormali. Voglio in conclusione aggiungere un terzo punto legato, in modo diverso, all’appartenenza di genere: rapidamente presenterò la capacità di creare comunità e di mettere in primo piano alcune capacità proprie di gruppi di donne che pur vivendo in paesi diversi erano – e in alcuni casi sono ancora oggi – accomunate dalla lotta quotidiana che svolgono contro la precarietà e la povertà della loro situazione sociale.
1. Breve storia delle rivendicazione dei diritti delle donne
La storia della rivendicazione dei diritti delle donne inizia in Italia verso la fine dell’’800 anche se ancora non si parlava di femminismo in quanto la lotta delle donne si mescolava con quella dei lavoratori maschi: in realtà era già differenziata in quanto c’era lo sciopero delle mondine, delle lavoratrice del tabacco, delle operaie delle filande; tuttavia il loro sciopero analogamente a quanto avveniva nei lavori maschili, mirava a migliorare le condizioni del loro lavoro, ad aumentare i salari, a ridurre le ore di lavoro: da 12 a 10. E’ solo dopo la fine della prima guerra mondiale che si comincia a richiedere con voce sempre più forte quei diritti civili e sociali che erano oggetto di lotta da decenni in altre nazioni europee. Si parla in quegli anni di “emancipazione” e si chiede per le donne il diritto di voto, l’accesso a tutte le facoltà universitarie e a tutte le professioni: va ricordato che il diritto di voto fu esteso alle donne nel 1946 e che solo negli anni ’60 esse furono ammesse alla carriera diplomatica e alla magistratura.
Durante questi anni la comunità cui appartengono le donne leader nella battaglia emancipatoria è una comunità soprattutto progettuale, una comunità non tanto fondata su una condivisione di vita quotidiana quanto sulla lotta per estendere a tutte le donne i diritti negati, per rivendicare, in altre parole, la capacità del genere femminile di svolgere i compiti, sociali ed economici, sinora riservati solo al sesso maschile.
E’ nel ’68 che nel nostro paese nasce il femminismo vero proprio che si differenzia nettamente dal movimento emancipatorio ponendo alla sua base la liberazione dal giogo di una società maschilista delle capacità e delle qualità proprie del genere femminile, rivendicando il loro valore per la qualità della vita dell’intera società. Non più solo il diritto allo studio, al lavoro, alla parità dei salari ma piuttosto una nuova concezione di ruoli sociali ma anche familiari che, accettati e consolidati da secoli di oppressione, vengono messi totalmente in discussione. I primi collettivi femminili nascono nel 1970 e subito si moltiplicano e ogni gruppo non condivide solo obiettivi e metodi di lotta, non elabora solo nuovi schemi di riferimento e riflessioni filosofiche ma spesso ha in comune anche esperienze di vita, comunanza di quotidianità, affermazione di sorellanza. Essi agivano in perfetta autonomia ma gli obiettivi che perseguivano e la lotta che sostenevano per attuarli erano analoghi in tutti i gruppi. E spesso partecipano sia dell’identità che Castells definisce di resistenza che dell’identità di progetto: la loro chiusura nei confronti dei partiti, la loro provocazione nei confronti dei comportamenti ritenuti adatti “alle donne” li fa appartenere al modello di resistenza mentre i loro obiettivi, il loro proposito di cambiare la qualità della vita dell’intera società ponendo in un modo completamente nuovo la relazione tra i sessi li fa appartenere all’identità di progetto. Una nota a margine: questa dinamica ha andamenti diversi negli altri paesi occidentali: ricordo solo come esempio la pubblicazione, nel 1968 a New York di “S.C.U.M. Manifesto per l’eliminazione dei maschi” di Valerie Solonas (in Italia, ed. delle donne, 1976).
Molti i successi del femminismo italiano che voglio ricordare perché credo che spesso si dimentichi la nostra storia più recente:
Diritto di famiglia: la lotta per mutare le sue regole inizia nel ’70 e il nuovo diritto difamiglia è approvato nel 1975 (separazione, nel matrimonio del rito religioso dal rito civile; riconoscimento dei figli nati al di fuori del matrimonio; depenalizzazione dell’adulterio femminile; patria potestà riconosciuta anche alla madre; comproprietà dei beni acquisiti durante il matrimonio).
Divorzio: nel ’70 fu approvata la legge che introduceva anche in Italia, al pari di quanto avveniva nella maggioranza dei paesi europei,la possibilità di divorziare. I gruppi cattolici promossero un referendum per abrogare la legge che fu battuto conuna maggioranza del 60%.
Interruzione di gravidanza: il percorso di questa legge fu molto travagliato. La sua prima stesura presentata dai partiti della sinistra fu nel 1970 ma solo nel 1981 dopo aver vinto un referendum passò la depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza, insieme ad una sua nuova regolamentazione. Eppure le contraddizioni presenti nella società erano ormai sotto gli occhi di tutti: soprattutto faceva scandalo il numero delle donne vittime degli aborti clandestini quando per le loro condizioni economiche (e culturali) non potevano permettersi di praticarla nelle cliniche private o in altri paesi europei.
Violenza sessuale: nel 1980 il Movimento cominciò ad organizzare la lotta per una revisione del codice Rocco che qualificava lo stupro come “offesa al pudore” e quindi non perseguibile in sede penale. Ma lo stupro è reato contro la persona e come tale va riconosciuto. La raccolta delle firme fu più difficile del previsto ed essa fu completata solo dopo un anno. Tuttavia dopo tanti anni di resistenza e di lotta il Movimento mostrava debolezze e divisioni interne e senza la sua presenza e le sue pressioni la legge fu accantonata per 15 anni. E’ stata infatti approvata nel 1996.
2. L’emergere della sottocultura queer
La seconda direttrice porta in primo piano quei gruppi che si uniscono per sottolineare con un notevole grado di visibilità la loro scelta di porsi in modo se non antagonista almeno differenziale rispetto alla cultura da cui intendono distaccarsi e che ritengono eserciti livelli di oppressione e di emarginazione nei loro confronti. E’ definita nelle scienze sociale come una sottocultura cui è attribuito il nome di sottocultura queer. Essa comprende gay, lesbiche, bisessuali, trans gender. A volte ci si riferisce ad essa usando il termini di “cultura gay” ma questa definizione può generare ambiguità dal momento che spesso è usato specificamente per indicare la cultura gay maschile. Viene indicata con una sigla, LGBT e i suoi caratteri variano ampiamente in base alla geografia e all’appartenenza sociale dei suoi membri.
Per certi aspetti in molti dei loro gruppi è evidente l’identità di comunità di resistenza: molte sono le azioni compiute per sottolineare i loro caratteri di distinzione e di opposizione alla generica cultura eterosessuale: in alcuni paesi europei c’è una notevole tendenza a vivere negli stessi quartieri, in molti paesi organizzano particolari eventi per celebrare la loro specificità. La celebrazione dell’orgoglio della diversità è una reazione che si oppone alla discriminazione, all’odio, ai pregiudizi, all’omofobia che i membri della cultura LGTB incontrano nei contesti sociali in cui vivono. Essa rappresenta una componente sociale della comunità globale che dal punto dei visti dei diritti civili è fortemente discriminata: i suoi membri alimentano molte iniziative tese a rivendicarli per tutti, ponendosi dunque nelle linee di una identità che intende divenire progettuale. Così la loro lotta coinvolge molti aspetti della vita sociale, si riversa nei mondi dello spettacolo, nei mass media, nella produzione e nella fruizione artistica.
3. Donne e gestione delle comunità
Per l’ultimo punto di questo intervento intendo evidenziare come le donne abbiano da tempo –da sempre? – dimostrato di saper occupare ruoli preponderanti nell’organizzazione e nella gestione delle comunità. E questo è soprattutto vero nelle situazione di povertà: tanto più le organizzazioni pubbliche si dimostrano incapaci di fornire servizi che siano in grado di far fronte ai diversi bisogni degli abitanti delle città e tanto più sono le donne a trovare le forme e le relazioni che siano in grado di disegnare risposte e soluzioni. E ciò assai spesso avviene a livello spontaneo con interventi basati su reti di sostegno familiari e/o di vicinato. Infatti tanto a livello sociale quanto a livello economico, gli interventi delle donne si svolgono senza visibilità, in modo quasi sotterraneo nonostante che in ambedue gli ambiti – in quello sociale e in quello economico – esse svolgano frequentemente funzioni e compiti fondamentali per la vita delle loro famiglie e là dove ancora sussiste della loro comunità.
E’ nella relazione tra povertà e vita urbana che le donne si trovano a confrontarsi quotidianamente con la sottoccupazione e la disoccupazione maschile che le costringe ad accettare lavori precari e poco remunerati, con l’inadeguatezza dei servizi sanitari, con la bassa qualità delle strutture educative e formative dei loro figli, con la mancanza di assistenza per anziani e disabili, con le difficoltà di accesso ad abitazioni adeguate, con l’inquinamento atmosferico, con il dilagare dell’uso di stupefacenti e di forme sempre più endemiche di devianza e di violenza. E se alcune comunità di donne incontrano difficoltà a circolare nei luoghi pubblici anche per tradizioni culturali e religiosi dei gruppi di appartenenza, molte vivono l’insicurezza e la violenza all’interno delle abitazioni. A questo aumento della partecipazione delle donne alla vita attiva non ha corrisposto una valorizzazione del loro status; al contrario spesso le donne si sobbarcano rapporti assai conflittuali con padri, fratelli, mariti, figli che vedono diminuire la loro autorità all’interno della comunità e dello stesso nucleo familiare.
Forse nelle nostre riflessioni sulle potenzialità di un lavoro di comunità, sulle forme di attivazioni che sarebbe opportuno mettere in atto per svilupparlo e per orientarlo, sarebbe opportuno prendere in considerazione queste capacità femminili, individuare dove sono attive, quali aspetti frammentari è possibile rinvenire in quei contesti in cui i tessuti sociali sono stati spezzati e dispersi a causa dell’emigrazione, dell’urbanizzazione, del nomadismo quotidiano: favorirne l’emersione dall’anonimato, dall’invisibilità sociale potrebbe essere importante per far nascere dalla realtà sociale il desiderio di comunità.
Category: Donne, lavoro, femminismi