Luisa Cavaliere e Lia Cigarini: C’è una bella differenza
Per diffondere il libro di Luisa Cavaliere e Lia Cigarini, C’è una bella differenza, Hoepli, Torino 2013 diffondiamo il dibattito trascritto da Pinuccia Barbieri alla libreria delle donne il 15 giugno 2013
Lilli Rampello: Ringrazio Giordana Masotto che è qui a fare da “apripista” del libro. Con noi ci sono le due autrici, Lia Cigarini e Luisa Cavaliere, e credo che sarà una bella discussione. Abbiamo anche presente, e lo ringrazio, l’editore di questo libro, Sandro D’Alessandro. E voglio anche dire a tutte, in modo assolutamente impudente, che come noi abbiamo un piccolo scaffale dedicato agli amici delle donne, dove esponiamo libri di uomini che si occupano della differenza sessuale, così abbiamo in Sandro D’Alessandro un vero amico politico delle donne. Sta facendo delle scelte politiche molto importanti sui testi che propone – a partire da Carla Lonzi, a Cigarini e Cavaliere – quindi cercate di seguirlo, cercatelo nelle librerie, ordinatelo, perché essendo un piccolo editore non vive se non ha il pubblico di lettrici forti quali possiamo essere noi.
Giordana Masotto: Sono molto grata per questo libro a Luisa Cavaliere. Perché il modo in cui io leggo – attraverso il libro – il criterio in cui lei si è posta, mi piace molto; perché è riuscita a dare corpo con questo gesto, di volere questo libro, (perché è chiaro che è lei che ha voluto fare questo libro con Lia), al desiderio con cui l’ha voluto, con cui ha voluto dare corpo ed esprimere l’autorità che lei riconosce a Lia. Però contemporaneamente – lo dice, lo ha detto anche nel blog in questi giorni – dice: «Ho scelto di fare spazio a quel pensiero recingendolo con la mia presenza e in un certo senso consentendogli di coagularsi in parole». Questo è un gesto di presa di autonomia,un gesto che dà valore a quello che si vive attraverso una relazione. E poi mi piace molto – ed è una delle cose da cui voglio partire – il fatto che lei riconosce questa autorità a Lia e quindi dà corpo nel libro a questa relazione, però partendo da un’urgenza personale che non ha tenuto per sé ma ha proprio voluto concretizzare creando questo libro. Questa urgenza io amo sottolinearla dicendo che lei usa una parola che non è molto amata credo, non è molto praticata, e che è la parola egemonia. Lei dice: «Una parte del femminismo sembra avere poca ambizione egemonica e invece io vorrei che con questo libro si potesse rendere leggibile il pensiero che impregna le diverse pratiche del femminismo italiano». Quindi dargli proprio la possibilità di dirsi e di essere leggibile, cioè di poter entrare in relazione con quello che sta intorno. Questo concetto di egemonia l’ho ritrovato appunto in un suo post sul blog di Paestum, di pochi giorni fa, magari l’avete già letto però a me preme sottolineare questo: si riferisce ancora al concetto di egemonia e dice: «Niente a che vedere con il potere nelle sue misere forme. Molto attinente invece al desiderio di cambiare il mondo, e alla consapevolezza che si può realizzare solo se circolano e si affermano parole forti, chiare e capaci di convincere e di sedurre perché indicano dei percorsi, e pratiche per realizzare profondi cambiamenti». Quindi attiene al desiderio di far circolare parole, e di far circolare pratiche che possano realizzare quelle parole. Quali cambiamenti? «Quei cambiamenti che mutano le rappresentazioni del mondo. Quindi la storia di tutte e di tutti. Il femminismo a cui faccio riferimento ha il pensiero adatto per dire e rendere attiva nella storia di tutte quell’egemonia ma qualcosa lo impedisce, e neanche lo straordinario espediente della lingua comune è riuscito a rimuovere quell’impedimento. Ed è su quel qualcosa che dovrebbe continuare Paestum.» (e questo è un tema di grande attualità.) Allora, il tema dell’egemonia mi interessa, in qualche caso anch’io uso la parola egemonia, e di recente m’è venuta questa immagine: noi parliamo molto dell’agire, cioè dell’esercitare delle pratiche, e che la politica è là dove ci sei in presenza; esserci politicamente là dove sei è quello che abbiamo sempre affermato. Io vorrei dire che vorrei ci fosse qualcosa che rimane anche se io non sono – o non sono più – presente. Vorrei che il nostro agire politico lasciasse dei segni che non si misurano solo sul fatto che siamo presenti.
E questo è il problema, è uno dei problemi che abbiamo di fronte. Le parole, – che sono già state riprese nel Via Dogana da Vita Cosentino ma che anch’io avevo sottolineato come parole per me d’attacco di tutto il dialogo, a quello che dice Lia, – secondo me fanno da specchio a questo. Questo specchio è quando Lia dice: «C’è una parte delle femministe che esita, che sembra isolarsi per godere dell’agio di stare tra donne e, in caso, incoraggiare blandamente quelle che vogliono entrare nelle istituzioni. Si tratta di finirla con quel femminismo, compreso quello radicale, che si lascia poco coinvolgere da quanto accade in Italia e nel mondo». E in un altro punto Lia dice: «Ritrarci nei nostri confortevoli luoghi fuori dalla mischia». Ecco, penso che lo specchio tra quello che dice Luisa Cavaliere e quello che dice Lia Cigarini con queste parole sia il cuore, per me il senso, di questo libro. Muraro per esempio, nella presentazione di Via Dogana, aveva parlato di auto-clausura (se ricordo bene) e mi sembra che enunci lo stesso concetto. Di fronte a questa cosa l’invito che era stato fatto per Paestum diceva “desiderio di esserci e di contare nei luoghi dove in cui si decide”: stava proprio in capo all’invito di Paestum. E quindi questo è il problema. Nel libro sono dette montagne di cose. Di certo qui non si percorrono tutte le cose che vengono dette. Io scelgo due questioni, sono quelle su cui mi piacerebbe oggi avviare un dibattito. Una è il giudizio politico che si dà sull’incontro di Paestum, e l’altra la dirò poi. Allora, che Paestum sia stato un successo, una cosa bella che ha dato forza, e su tutte le cose positive credo siamo d’accordo. Dare un giudizio politico però secondo me va un pochino oltre. Allora, Lia nel dialogo con Luisa dice due cose: mi preme sottolinearle e parlare in particolare di Paestum perché, ricordo, sta nascendo l’idea di fare un altro incontro, e sabato prossimo a Bologna ci sarà un incontro di chi vuole pensare a quest’altro incontro di Paestum. Quindi, che cosa vogliamo rilanciare a partire dal Paestum che abbiamo vissuto, che cosa ci interessa rilanciare, credo sia un problema attuale che ci riguarda. Vengono dette due cose secondo me significative sul giudizio politico su Paestum. Una è il ribadire che l’incontro di Paestum ha avuto la funzione molto positiva di far circolare la pratica politica delle donne generata dal femminismo. Una pratica, come dice Lia, che certamente dà forza, che è intergenerazionale e che è uno strumento forte, adeguato per dare voce alla presenza delle donne. Quale presenza delle donne? Una presenza che però nel corso del tempo, negli ultimi anni, è cambiata – sottolinea Lia – perché c’è una presenza apicale delle donne e – lei dice – quindi c’è bisogno di parole che leggano la realtà, quella che c’è ora, quella che è già in atto, con uno sguardo nuovo. E, dice, domandi un senso come di grandezza. Naturalmente contro con il vittimismo, la tristezza delle pari opportunità eccetera, eccetera, da cui il concetto di generatività, e di autorità femminile.
Io credo che quando Lia dice «domandi un senso come di grandezza» vuol dire che non è più solo contro il vittimismo e la tristezza delle pari opportunità, ma pone anche dei problemi e delle analisi, cioè un andare oltre con le analisi per tenere conto proprio della posizione nuova che hanno le donne. A fronte di questo, l’altro punto che mi preme sottolineare è un contenuto che a me sembra politico, squisitamente di pratica politica, e su cui mi piacerebbe che Lia ritornasse, magari, e ce lo spiegasse anche dal vivo meglio, che è la sottolineatura del percorso fatto per arrivare a Paestum. Prima di andare a Paestum, lei dice, c’è stata una contrattazione tra diversi femminismi.
Questa contrattazione per esempio è passata attraverso il processo che ha portato all’Agorà, che certamente è una pratica politica che vive in quanto è nata da diversi femminismi, e l’incontro di cura e lavoro che è stato organizzato dalla Libera Università delle Donne, dalla Libreria delle Donne, dal Gruppo Lavoro, il Gruppo del Mercoledì di Roma eccetera: sono due situazioni, e Paestum in maniera eclatante, in cui si è arrivate a decidere di fare qualcosa insieme rimettendo insieme diverse pratiche del femminismo che erano andate anche, come dire, procedendo su binari paralleli. E però lei dice: «Quando diversi femminismi si mettono a contrattare, questo può diventare un modello». Cioè, il concetto di contrattazione, o di conflitto – su cui certamente molto lavoriamo pure nell’Agorà ma la rilanciamo sempre, questa necessità di aprire i conflitti – è una modalità che ci trova desiderose ma con strumenti spesso deboli. Allora, a me sembra che questa sia un’indicazione interessante. Lia dice: nel momento in cui diversi femminismi riescono a contrattare e a creare qualcosa insieme, questo può diventare un modello, cioè si crea un precedente di conflitto e di contrattazione che ti mette in grado di contrattare e dunque di confliggere anche nel mondo, nei contesti di lavoro, nei contesti istituzionali, laddove sei. Questo mi sembra un altro punto importante su cui pregherei Lia di intervenire, perché a volte è come se il conflitto fosse un difetto tra femminismi, perché ci sono le differenze e poi si confligge e quindi si litiga eccetera. Invece dire che è importante esercitare conflitto e contrattazione tra diversi femminismi per costruire delle cose insieme, a me sembra un passo avanti. Ed è determinato dal fatto che si legge qualcosa che è già avvenuto; il fatto di leggerlo come valore positivo e come modello che può essere usato e replicato perché dà forza in tanti contesti e perché ci fa più chiarezza sull’esserci, secondo me è importante. E questo è il primo punto.
Sulla questione di Paestum e sul fatto di rifarlo, ci sono stati già diversi interventi e interviste sul blog di Paestum. Ieri o l’altro ieri anche Gabriella Paolucci, che è proprio di Paestum, ha fatto un intervento in cui per esempio ha parlato di coraggio. Io non sono tanto d’accordo che sia un problema di avere coraggio. Lei dice: «Abbiamo osato fare Paestum, e quindi osiamo ancora, non spegniamo questo entusiasmo». Mi va bene non spegnere l’entusiasmo, ma credo che il problema non sia il coraggio o meno ma di vedere che cosa vogliamo rilanciare e quindi di focalizzare di più; ma credo che proprio per questo ci sia la riunione di sabato prossimo. Il secondo punto che metto lì ma penso ci sarà tempo e modo di discuterne, ha questo titolo: Lia – dopo avere ragionato con Luisa sul problema dell’esserci, dell’esserci nei luoghi in cui si decide, delle donne che entrano nelle istituzioni, della scomparsa, della neutralizzazione delle donne lì, e insomma tutto questo corpo di discorso che conosciamo abbastanza – dice: «Credo che bisogna continuare a occuparsi della nascita e crescita delle soggettività, questo è il nostro compito principale». È una frase in cui mi ritrovo molto e che per esempio vale anche per l’Agorà. Iio faccio riferimento spesso all’Agorà perché è una pratica in corso, che cerca di mettere in atto alcuni di questi temi, con alcuni successi e con alcune difficoltà, però che cerca di andare avanti proprio sul senso della pratica politica oggi, perché “continuare ad occuparsi della nascita e crescita delle soggettività” vuol dire aumentare la consapevolezza, continuare nelle analisi e soprattutto fare in modo che queste analisi diventino corpi e soggetti viventi, che riescono quindi ad agire come soggetti consapevoli in tutti i loro momenti di vita e nei luoghi in cui vivono.
Però si pone il problema, che viene detto anche nel libro, di come si fa a confliggere se i soggetti rimangono separati. Cioè, il tema è: noi sappiamo bene, credo siamo tutte d’accordo, che il cuore della pratica politica è occuparsi della nascita e crescita delle soggettività, però il passaggio da realizzare è quello del riuscire a confliggere (e infatti è uno dei temi ricorrenti, e dei problemi ricorrenti: come si fa se i soggetti rimangono separati?); perché è ovvio che potremmo dire che ci sono queste ricche soggettività che però vengono coltivate un po’ come fiori di serra, intorno al tema dello stare nei luoghi chiusi. Su questo tema anch’io continuo a inciampare, perché andando avanti su questa linea di focalizzazione della nostra pratica politica, per esempio, arrivo poi sempre alla conclusione che è come se arrivassimo a dire che la politica maschile è prendere il potere e la nostra politica è mettere al mondo i soggetti. Qui c’è il problema di un salto, che è poi quello che dice Luisa. Lia dice: l’impegno costituente che io riconosco nel fatto che le donne si mettono insieme e riescono a fare questi momenti comuni vuol dire tradurre, spostare. «Spostare le questioni che ingombrano il presente nel linguaggio nei saperi e nelle potenzialità che le donne stanno esprimendo, e portare noi stesse oltre sui temi che più ci premono». Però questo portare oltre credo sia il tema su cui possiamo andare avanti.
Loretta Borrelli: Cercherò di essere abbastanza chiara. Il libro è molto breve e scritto in un linguaggio molto diciamo semplice, però è pieno di contenuti e anche di sensazioni che mi ha rimandato, e per questo per me è un po’ difficile riuscire a riportare tutto quello che mi ha dato la lettura del libro. Parto da una frase che mi ha colpito, forse per alcune sembrerà ingenuo perché siete abituate a fare di questo un elemento fondamentale della vostra pratica politica, ma per me non è così. La frase dice: «Per me libertà è l’unico nome che mi dà l’emozione dell’infinito» (nell’articolo Libertà relazionale). Sinceramente è una di quelle cose che sembra scontata, è così semplice questa frase; però apre anche qualcosa che per me non era così scontato, nella pratica politica che ho vissuto per parecchi anni, quella pratica che è stata sempre un po’ più “di movimento”, legata a una politica molto più maschile. E proprio la spinta verso la ricerca della libertà come elemento fondamentale è stata per me quello che m’ha portata a venire a conoscere la Libreria, e poi anche una pratica politica particolare, che poi ho conosciuto in parte all’Agorà. Nel libro si parla di Paestum, e rispetto alla mia esperienza di Paestum ci sono diversi aspetti che corrispondono al racconto che fa Lia, però anche degli elementi che mi pongono diversi dubbi. Quando sono arrivata a Paestum avevo quasi come la curiosità, di vedere come funzionava una pratica politica; è vero che nel libro si parla di una contrattazione tra diversi femminismi, però diciamo io mi sento ancora novizia – per usare questo termine banale – in questa pratica. Per me è stata anche un po’ una situazione che non mi aspettavo, perché avevo esperienza di grandi assemblee, di grandi dibattiti, di grandi situazioni politiche, e avevo la curiosità di conoscere questa pratica che sì mi convinceva, nei libri sì mi convinceva, mi dicevo tutte quelle parole mi convincono però si sa benissimo che è una pratica che va definita, è un’esperienza. Se no rimane una parola e basta. Quindi sono arrivata a Paestum pensando: «Va be’, in un’assemblea di mille persone questa pratica politica non funzionerà mai». E invece no, invece per me è stato quella sensazione che sentivo, che poi Lia descrive come la forza generativa del femminile. Era una sensazione molto forte. Non mi sentivo di intervenire però ascoltavo tutta quell’assemblea anche con stupore, per il fatto che ci fossero tante donne che adottassero lo stesso metodo di parola fra di loro, e che si ascoltassero e si rispondessero, cosa che per me non era assolutamente scontata. Si vedeva che c’era una pratica politica vissuta da anni e che in quel momento si voleva rivivere insieme alle donne che c’erano in quel momento. C’è da dire che però siccome c’erano tanti femminismi, uno degli aspetti che poi mi ha anche un po’ perplessa, e molto, è che c’era sì questa grande sensazione di libertà, ma allo stesso tempo notavo una sorta di danza: di danza tra questa pratica politica di tensione verso una pratica relazionale, e invece la tensione di alcune verso quella che poi anche Lia nel libro definisce come una “spinta di concretezza”. Una spinta che ti fa dire: «Va bene, noi siamo qui a parlare però poi bisogna fare il documento, poi bisogna stabilire le parole, poi bisogna capire qual è la lotta comune che vogliamo fare insieme», e in quei momenti per me era strano quello che accadeva; quando una donna proponeva questo aspetto mi dicevo: «Assisto a qualcosa di diverso», ma poi invece questa tensione alla concretezza in realtà spezza quel movimento verso la libertà femminile.
Questo aspetto mi ha molto colpito di Paestum; soprattutto perché anch’io mi sono approcciata a questa pratica più tardi rispetto ad altre, per ovvie ragioni cronologiche, ma penso che una volta scoperta questa pratica politica, non si può più tornare indietro. Non si può. Niente può darti qualcosa per cui vale la pena cedere ad altri tipi di pratiche politiche. E quindi avevo una sensazione così forte e però allo stesso tempo quell’utilizzare o comunque riportare tutto alla concretezza del fare, dell’avere le parole chiave, del dobbiamo fare questo e quell’altro, era una posizione al ribasso per me. Almeno adesso che sono andata avanti, nella pratica. Leggendo il libro ho cercato di riflettere su che cosa significasse l’attività costituente, perché era una cosa riportata in questa mia esperienza, una cosa che mi fa temere di dover cedere troppo rispetto a quello che ho trovato. Cioè di dover concedere una parte della mia libertà in un rapporto relazionale, per stare in quella pratica di concretezza. Che è una cosa che non voglio assolutamente. Però, dall’altra parte, nel libro Lia parla anche dell’apertura al rapporto con uomini che si avvicinano al pensiero della differenza femminile, e questi elementi messi insieme in realtà sono ancora in elaborazione nella mia testa; non riesco a trovar ancora un filo però posso capire che a Paestum la presenza maschile avrebbe fatto emergere un maggiore conflitto nei confronti di uomini, ma poi nello stesso tempo avrebbe portato a svelare come questa pratica crei libertà per tutti: non è soltanto una pratica che è un portato del femminile ma che è possibile attuare in qualsiasi luogo. E allo stesso tempo mi chiedevo: perché queste donne continuano a volere questi documenti programmatici, queste parole chiave? Magari perché c’è la voglia di contare in alcuni luoghi e magari un documento, un testo, è qualcosa di forte, perché abbiamo questo portato di conoscenza, di sapere. Però in realtà non è così che funziona, cioè almeno io l’ho sempre fatto nei movimenti e non ha mai funzionato: pensi che di aver creato un documento e quel documento è la forza del tuo gruppo politico, del gruppo con cui hai lavorato. No, non è così: lì non c’è libertà. Rispetto a questa cosa ho molti dubbi, e naturalmente ho molti dubbi anche sulla parola egemonia, che vedo ancora troppo carica di un significato con cui non riesco a relazionarmi immediatamente. Insomma, il libro di Lia è bellissimo leggerlo perché ci sono stati tanti punti di contatto su delle tematiche che sento molto, e vibrano anche per bellezza, ma anche mi ha posto parecchi punti interrogativi rispetto al come. A un certo punto ho pensato: magari è perché proporre un atteggiamento di questo tipo deve partire da una forza, cioè da un punto molto forte, però un punto molto forte è già dentro, che già si relaziona, e secondo me si rischia di renderlo scivoloso, anche con questa cosa di riproporre Paestum. Bisognerebbe capire tutto quel percorso di relazioni che ha portato al primo Paestum, che carico di esperienza è stato per le donne che adesso vogliono farne un secondo, e quale portato di pratica possono portare anche in questo secondo. Cioè se continua quella tensione verso la libertà femminile o se è soltanto una cosa così, quasi come se alcune donne avessero in mente – e mi dispiace anche tanto – che la pratica femminista è un’opzione di minoranza. Il che non è vero. E non può cedere perché è un infinito, e non c’è altra pratica all’infuori di quella; solo che ci sono certi momenti in cui c’è la sensazione – o la necessità – di chiedere una forza dal di fuori. Il di fuori secondo me non può darla, quella forza. È una cosa che accade, penso stia accadendo in alcune cose che si muovono; però non con qualcosa di ripetuto: con qualcosa che è il portato della pratica generativa femminile.
Lia Cigarini: Giordana mi chiedeva di spiegare di più questa contrattazione, “tra femminismi diversi”, di cui parlo nell’intervista, che ha prodotto tra le altre cose l’Agorà e Paestum. Ecco, io non direi “tra femminismi diversi”. Io penso che questa contrattazione non è stata tra femminismi diversi: è stato come un rivolgersi al femminismo delle origini. Cioè ci son stati percorsi diversi, e anche conflitti. So che Lea non è d’accordo, per esempio, col sottolineare la differenza femminile e altre hanno altre obiezioni. Ma nel momento in cui si è percepito che le donne erano in movimento c’era come un bivio di fronte a noi: tutto questo movimento, autonomia, libertà delle donne, poteva essere ridotto alle pari opportunità, invece quelle che avevano fatto la pratica dell’autocoscienza sono riuscite, nonostante trent’anni di divisioni, a capire che la fonte di una strada diversa da quella delle pari opportunità non può che essere il femminismo delle origini, vale a dire la pratica dell’autocoscienza, del partire da sé, della relazione. Tant’è che questa contrattazione è stata velocissima, anche perché la pratica di relazione aveva fatto sì che c’erano sicuramente delle divisioni, ma il fatto che la pratica del partire da sé fosse comune a tutte ha fatto sì che alcune avessero tenuto delle relazioni nonostante lo scontro. Vale a dire il riferimento ad alcune donne a cui si riconosceva di essere state insieme nell’origine, nell’inizio del femminismo, ha prevalso sulle divisioni. L’essere state insieme nella pratica dell’autocoscienza – che guardate è una forma politica nuova, diversa da tutte le forme politiche – ha fatto sì per me che chi ha fatto la pratica dell’autocoscienza, chi ha fatto la pratica dell’inconscio, è qualcuna con cui io ho tanto in comune. Allora, nel momento in cui abbiamo capito che le donne erano in movimento e che era necessaria una parola forte del femminismo delle origini (come lo chiamo io, altre lo chiamano il femminismo autonomo, eccetera), in quel momento io mi sono rivolta immediatamente a quelle che sapevo la pensavano diversamente da me ma avevano la mia stessa forma politica, cioè dell’autocoscienza, cioè del partire da sé e della pratica della relazione. Sicuramente è un dato di fatto indiscutibile che questa contrattazione è stata velocissima, durata pochi mesi. Se fossimo state delle organizzazioni come le intendono gli uomini sarebbe stato impossibile, avrebbe prevalso… come dire… la fedeltà all’organizzazione, alle prese di posizione. Io uso questo termine, “contrattazione”, perché considero che nel momento in cui le donne si muovono in modo autonomo, la mediazione femminile nel mondo, nella società sia il punto fondamentale: cioè, in un momento di disgregazione di un intero sistema politico secondo me, io punto sulla mediazione femminile. Che vuol dire una pratica politica che mette al centro la soggettività di donne e uomini nell’agire politico. E di questo vorrei discutere, perché se noi pensiamo appunto al mondo, a quello che succede al presente, si deve pensare a quale può essere la mediazione femminile che permette un cambio di civiltà. Io credo che se noi riusciamo a dare il senso di questa contrattazione che vari gruppi, non femminismi, che tengono ferma la pratica del partire da sé e della relazione, sono riusciti a fare, questo è il valore più forte che io sento, e che ho acquisito nel prima di Paestum e durante Paestum. Penso che quando parliamo di libertà femminile e di autorità femminile, questo dobbiamo valorizzare, farci forza del fatto che in questo caso la mediazione femminile ha funzionato. Mentre se fosse stato uno scenario di tipo maschile non avrebbe potuto funzionare: si frazionano, pensano all’identità di gruppo e via dicendo. Una contrattazione veloce, tra donne che non si parlavano da trent’anni, vuol dire che la mediazione femminile riesce a agire, a operare, e a rilanciare.
Ah, Loretta, io apprezzo molto questo tuo riferimento alla libertà, perché per me la libertà delle donne è venuta al mondo nel momento in cui, invece di essere definite dal pensiero maschile e patriarcale, abbiamo preso la parola in autonomia e abbiamo detto noi che senso avevano il mondo, la società, e dove noi ci volevamo collocare, e ci siamo autorappresentate. Mentre si sa che prima le donne erano state definite dal patriarcato. Questo per me, e ha ragione Loretta, non è un ragionamento: è un’emozione forte. Perché penso che la libertà sia un’esperienza soggettiva, e non sia soltanto dei diritti da mettere in capo a una persona. Essendo una esperienza personale non è mai un’acquisizione definitiva, non è mai un punto d’arrivo; ha degli alti e bassi, ci sono momenti di passività. Ecco, mi è piaciuto che a Loretta la questione della libertà sia quella che l’ha colpita di più.
Lea Melandri: Lia ha fatto delle osservazioni che volevo fare anch’io. Non so se è soltanto una questione di termini però non userei mai la parola contrattazione. Non è stata la contrattazione quella che ci ha avvicinato dopo anni in cui ci sono state delle divergenze anche profonde. Io sono andata all’Agorà primo di tutto perché era un luogo pubblico, era la prima volta che si apriva un luogo dove si poteva incontrare, scontrare, confrontare con opinioni diverse, ma anche perché quella relazione tra noi c’è sempre stata. Per me, c’è sempre stata: vent’anni in cui mi sono letta credo tutto quello che è uscito della Libreria, di Diotima, posizioni che non condividevo ma le ho lette attentamente, le ho discusse, ne ho scritto. Questa per me è la relazione: certo non era una relazione in presenza, so riconoscere la diversità, ovviamente: e mi ha fatto molto piacere potersi ritrovare in presenza e confrontarsi con opinioni divergenti. Poi quando mi sono accorta che le opinioni non erano affatto divergenti – perché, come diceva Lia, ci siamo ritrovate su un’esperienza che avevamo fatto insieme almeno per dieci anni, che è stata la pratica dell’autocoscienza, la pratica dell’inconscio il partire da sé, quella grande rivoluzione che è stata la messa a tema della soggettività, della vita personale come luogo di iscrizione della politica, della storia, della cultura – mi ha fatto un immenso piacere. Quindi Paestum è nato da questo ritrovarsi. Intanto con la convinzione della centralità di questa pratica: l’abbiamo osata. E con ottocento donne non era così scontata, la proposta di non fare relazioni, di fare come avevamo fatto negli ultimi convegni del femminismo degli anni Settanta! Non era scontata. Infatti la sera prima di cominciare Paestum abbiamo avuto non poche discussioni, anche con le stesse persone che a Bologna avevano accettato questa modalità. Quindi come diceva Loretta, Paestum ha avuto sicuramente quello che si è condiviso, e che ha dato una spinta. Si sente ancora e si legge, lo sentiamo quando incontriamo donne di altre città: da Paestum sono nati incontri anche nelle città di gruppi di donne che prima non si incontravano, e questo per me è un fatto importantissimo. Sono percorsi diversi, io non so neanche se chiamarli femminismi diversi, sono percorsi diversi: è la messa a tema di problematiche diverse.
Non c’è dubbio che il femminismo oggi sia molto frammentato, se guardiamo i temi su cui le donne sono – anche collettivamente, in associazioni, in gruppi, e singole – impegnate. Molte donne si occupano del problema della violenza domestica, altre della violenza maschile in generale, altre che si occupano dei problemi delle obiezioni di coscienza, altre sulla 194, altre sulla rappresentanza, altre sul lavoro. La frammentazione risponde al fatto che la nostra è una pratica che guarda alla vita nella sua interezza, che non divide più la vita dalla politica, quindi era inevitabile a mio avviso che questo movimento assumesse anche delle forme specifiche. Il problema è come si riesce ad andare avanti, da lì. Ci son due problemi centrali, secondo me. Condivido molte delle osservazioni di Lia: per esempio sul rapporto tra questa pratica che mette al centro la soggettività, la presa di coscienza, una libertà che nasce come autonomia d’una visione del mondo non conforme a quella che abbiamo ereditato. E condivido quello che Lia dice sulla difficoltà di portare questa modificazione di sé – questi barlumi di sapere diverso – che viene dal cambiamento della presa di coscienza, come portarla combattivamente contestualmente dentro tutti i luoghi della vita sociale, perché purtroppo il dominio maschile è iscritto in tutte le cose sociali politiche economiche, ma è iscritto anche nei nostri corpi, nel profondo delle nostre vite. Quello è il problema, a mio avviso: perché oggi le donne nella vita pubblica sono presentissime, c’è una femminilizzazione che è quantitativa ma anche qualitativa. Di quale qualità si tratti, questo è l’interrogativo. Io credo che la valorizzazione e l’uso del proprio corpo che si fa nell’industria dello spettacolo, nel mercato, l’uso che se ne fa per il successo, il denaro, la carriera, ecco è una valorizzazione del femminile su cui metto un grande punto interrogativo. Ma anche la valorizzazione che fa oggi la nuova economia dei talenti femminili, del valore D, anche quella è una femminilizzazione che mi pone degli interrogativi. Il modo con cui le donne sono oggi presenti nella vita pubblica ci deve interrogare su quanto cammino ci sia ancora da fare per questa famosa libertà, come autonomia da modelli interiorizzati. Io credo che su quello ci sia ancora un enorme lavoro da fare. Sono d’accordo quando Lia dice che la libertà di cui noi parliamo non è quella iscritta nelle leggi e nei diritti, nei paradigmi delle logiche della cultura e della politica maschile, ma invece nasce dall’interno di una condizione materiale delle donne, ed è da lì che noi misuriamo le tante mancanze di libertà che abbiamo. Io penso che tante di queste illibertà, non libertà, passino ancora attraverso i corpi, attraverso vicende che hanno il corpo come parte in causa: la sessualità, la maternità, tutte le relazioni familiari, gli interni delle case. La violenza domestica ci dice in sostanza che lì c’è ancora una paurosa, una drammatica complicità delle donne con la violenza che hanno subìto. Amore e violenza: io credo che ci sia ancora un intreccio da sbrogliare. Non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, tant’è vero che queste donne – basta leggere le testimonianze – stanno a lungo con uomini violenti, li denunciano e poi se li riprendono a casa. Io penso che sulla maternità, sulla sessualità, si sia detto ancora poco. Un’altra cosa che anch’io condivido – e la vedo anche all’Università delle Donne, l’ho vista in tanti luoghi di donne – è che un po’ ci si appaga: questa modificazione di sé ha reso le nostre vite un po’ più vivibili, la socialità fra donne ha creato momenti belli, noi stiamo bene, potremmo andare avanti così, no? Però io più si sta bene più mi inquieto, perché penso che ci sia qualcosa che non va, perché non siamo delle isole. Ecco, la tensione a modificare l’ordine sociale, questo c’è ed è molto forte, per me è molto forte. Allora il problema (che c’era già negli anni Settanta) è dei nessi: cioè dei legami fra il sé, le modificazioni profonde del sé, la presa di coscienza – e la modificazione allora dicevamo “sé e mondo”, usavamo parole abbastanza semplificate. Però dire “il personale è politico”, dire “la modificazione di sé e del mondo”, voleva dire che avevamo già colto che non bastava dire “è già politica”. Certo, quello è stato straordinario, però dire “il personale è politico” voleva dire anche che ci sono dei nessi, dei legami sempre ci sono stati tra la vita personale e la vita pubblica, quei nessi e quei legami vanno analizzati a fondo, e modificati. E modificati. E sicuramente un modo per tenerli insieme non è quello di andare a portare nella vita pubblica le famose doti femminili. Che poi siano doti femminili la capacità di ascolto, di mediazione, eccetera, io ne dubito.
Che le donne abbiano tutta questa capacità, ne dubito; io l’ho vista crescere, la capacità di ascolto, nascere nei luoghi delle donne, con la presa di coscienza. Tante famose doti femminili le abbiamo viste nascere, sono nate nei luoghi delle donne, non prima. Non penso che tenere insieme vita e politica voglia dire semplicemente portare nella vita pubblica queste famose risorse, questo “valore aggiunto” che sono le donne, perché lì andiamo di nuovo a una complementarità che non sposta radicalmente le strutture. E questo lo vediamo quando le donne entrano nei parlamenti, nei luoghi dove si decide, e lì però parlano il linguaggio che è stato di sempre degli uomini; oppure pensano di portar lì appunto queste qualità femminili e si mettono di nuovo in una condizione di subalternità. Allora. E chiudo su questo. Un altro Paestum? L’anno scorso abbiamo avuto il piacere di condividere una pratica, di fare anche incontrare tematiche diverse. Il passo successivo per me è trovare questi famosi nessi tra vita e lavoro, vita e politica; cioè è andare avanti nell’approfondimento, per capire come i gruppi di molte giovani che lavorano ancora giustamente in autocoscienza sulla sessualità, possano interagire con chi come me ha un interesse per esempio per il problema del lavoro, per il problema dell’organizzazione del lavoro, per la politica più in generale. Vedere come stanno insieme quelle che si occupano della violenza e quelle che invece pensano più a come entrare in un modo diverso nella vita pubblica. Insomma, sono questi i nessi che secondo me potrebbero venir fuori da un lavoro di approfondimento di un secondo incontro nazionale.
Luisa Cavaliere: Un momento solo, perché sarò eccentrica rispetto a tutto quello che mi ha preceduto, per qualità che non ho e perché… perché… Perché vi devo raccontare perché sono eccentrica, non in assoluto, rispetto a quelle che mi hanno preceduto. Allora: questo libro, l’impegno direi – non tanto per i contenuti e le cose che dice Lia ma proprio per le dimensioni – nasce anche perché Lilli Rampello lo ha molto voluto, lo ha sostenuto e ha consentito che fosse poi trovato un editore bravo, che ha avuto tanta pazienza anche con me. E questa è la premessa alla formazione del libro. Però il libro nasce anche da un desiderio che io avevo, che era quello di far parlare Lia Cigarini perché come ho scritto nell’introduzione io ritenevo che il pensiero di Lia – io la conosco da trent’anni, lo dico ovviamente a terrificante discapito anagrafico – fosse l’unico tra tanto pensiero femminile che avesse attraversato le due politiche, politica prima e politica seconda, e avesse dato ad entrambe un sistema interpretativo. Cioè un ordine. Io sentivo il bisogno dell’ordine, perché il disordine dei linguaggi e delle parole era tale che perfino io – che sono vecchia, che ho delle certezze oramai ossificate – avevo delle inquietudini. E allora pensavo che solo Lia potesse. Non c’è nessuna mitizzazione, c’è proprio la valutazione dell’interlocuzione: questa interlocuzione che durava da molti anni, e che è una interlocuzione ovviamente dispari. Io so benissimo di non essere stupida. Una delle prime obiezioni intelligenti che è stata fatta a questo libro, da una lettrice attentissima alla quale io ovviamente tengo molto, è stata: «Sei scomparsa e sei stata troppo acquiescente, in questo hai indebolito perfino il pensiero di Lia, cioè non hai consentito al pensiero di Lia di sprigionarsi in tutte le sue sfumature». Ovviamente, e Giordana lo ricordava, io ho tentato di rispondere a questa obiezione – che sento, e che attraversa anche dati psicologici che vi risparmio – ma sicuramente invece c’è una scelta politica che a me continua a sembrare forte, che la parola nostra è autorevole se dà parola a chi deve parlare, a chi è necessario che parli. Non tutte possiamo parlare di tutto, e non tutte sempre. Fare spazio a parole autorevoli secondo me è un compito politico che mette ordine, e io ho voluto fare questo. Il libro nasce da questo desiderio. L’altra obiezione che mi è stata fatta – o meglio, che più che un’obiezione è una domanda, che s’intreccia con quello che diceva Giordana nell’introduzione, sull’egemonia – è il doppio impedimento. Io ci sto molto pensando perché mi è stato detto che è un’intuizione intelligente. Io è da quando sono nata, dalle elementari, che mi sento dire: «Peccato, è tanto intelligente però…» Quel però è una montagna invalicabile, sono ottant’anni che cerco di attraversarla: niente da fare, ancora oggi trovo quel però che proprio mi distrugge. Comunque… però. Io cerco di attraversare quel doppio impedimento. E stasera mentre sentivo soprattutto la nostra amica più giovane mi riveniva in mente questa cosa. C’è un doppio impedimento perché secondo me da una parte il linguaggio è terra d’esilio, no? Che non abbiamo fondato; che spesso ci fonda e ci determina. E anche quando stiamo nei luoghi nei quali stiamo bene, o tentiamo di stare bene o sentiamo di stare bene – anche lì il linguaggio è terra d’esilio e resta complicato. Allora io avverto che c’è un doppio impedimento in questa fase, e trovo che Paestum l’abbia messo in scena in una maniera straordinaria, è uno dei meriti di Paestum; ed è una delle caratteristiche di Paestum che mi fanno dubitare, Lea, o avere dei sospetti – non dei sospetti, dei dubbi – sulla possibilità di una seconda Paestum. Paestum ha segnato la messa in mostra di tutte le cose che abbiamo detto, però contemporaneamente il silenzio intorno a Paestum è un silenzio che noi non abbiamo intertogato, perché ci sono state parole solo di chi a Paestum c’era. Quello è un silenzio che va interrogato: io non so come, perché non ho né forme di paura o di subalternità – se non parla Repubblica di me io non esisto, no, questa cosa proprio non ce l’ho magari preferirei che il manifesto parlasse di me – però è anche vero che quel silenzio attraversa delle nostre contraddizioni, ed è uno degli impedimenti che io avverto. E lo avverto. Lia ha detto che si compiaceva di quanto aveva detto Loretta. Io a Loretta faccio una domanda perché forse non ho capito. Sull’efficacia: tu dici “Perché fare un documento? La libertà allude ad altro, non c’è bisogno di una piattaforma che la codifichi”, se ho capito bene. È un’obiezione. Io sono quarant’anni che continuamente, siccome vivo in una realtà piena di svantaggi, mi si dice: “Va buo’ tu… energia… libertà, ma poi ricordati che ci sono la subalternità, ci sono le periferie, c’è la povertà, c’è la discriminazione eccetera. Concretamente che cosa fate?” A questa obiezione ovviamente c’è la risposta liturgica che io conosco che potrei ripeterti, e ti risparmio; però la questione dell’efficacia non è questione sulla quale si può sorvolare, perché allude anche all’egemonia, allude anche all’autorevolezza della nostra parola, del nostro stare in alcuni luoghi. Noi non segniamo spesso con autorevolezza i luoghi dove siamo. Quando si fa la domanda del documento è perché c’è uno scarto di autorevolezza, e allora si tenta di trasferire sul documento una insicurezza che è politica e che c’è. Sull’egemonia, infine. Io so benissimo che è un vocabolo che ha attraversato il Novecento qualche volta con fortuna qualche volta no, però quando dico egemonia dico che in alcuni casi c’è uno spettacolo di debolezza femminile molto pericolosa, alla quale si deve rispondere con un’ambizione egemonica, con una forza anche. Io mi domando per esempio – è una domanda che faccio alle mie amiche autorevoli – perché rispetto al movimento Se non ora quando, che è l’ultimo episodio che abbiamo di piazze riempite, non si sia aperto un conflitto forte. In effetti Paestum ha in un certo senso evitato quel conflitto, è come se quel conflitto noi l’avessimo soltanto evocato; però il conflitto secondo me in alcuni casi è edulcorato per la paura di mostrarlo, e questo lo rende inefficace.
Antonella Nappi: Non è facile entrare sempre nei discorsi degli altri, è più facile fare i propri e poi prendere la buona volontà degli altri che ti ascoltano, ti leggono, intervengono, e rispondere. E questo io credo manca a molte persone, a me naturalmente – visto che ne parlo. Io credo che questo prendersi sul serio e andare a fondo delle questioni sia qualche cosa che a tutte serve, e molte persone andrebbero aiutate a fare questo. Luisa Muraro diceva, nella sua prima lezione di filosofia, “il potere è organizzazione”. Credo che avere potere e organizzarsi per averlo, sia da interrogare anche per le donne. Io penso che quel partire da sé, quell’autocoscienza portava anche a tanti sbagli perché si poteva anche esagerare in ideologia personale: nel partire da sé non sempre ci si capisce davvero, ecco, è un lungo processo il capirsi davvero; quindi dire partire da sé è eccezionale perché vuol dire interrogare se stessi, interrogare i propri comportamenti, – ma può anche andare storto. E tra l’latro c’è pochissimo interrogare se stessi e interrogare i propri comportamenti in realtà, c’è stato pochissimo in questi quarant’anni, dall’inizio del femminismo, rispetto ad altri comportamenti, ad atre tematiche, per esempio rispetto al problema dell’ambiente, al problema della salute, al problema dell’aderire sempre in qualche modo ai messaggi del potere che ti porta fin là e ci ha portato da tutte le parti. Ci tengo a dire che noi abbiamo impiantato dei sistemi wireless che conteggiano la luce, il gas, in ogni casa: ci stanno mettendo delle manopole, fuori calorifero, che parlano con l’elettromagnetismo, con le onde radio. Cioè noi ci stiamo distruggendo la salute nel fascino della modernità, nell’aderenza a un potere che raccoglie un’infinità di soldi su questi oggetti tecnologici che ci ammalano, quando avremmo bisogno di raccogliere soldi su investimenti sociali. Questo per dire che interrogarsi è importante ma lo si fa pochissimo, va molto diffuso e su molti argomenti. Io ho sempre l’impressione che devo parlare poco, invece avrei voglia di parlare tanto. Voglio ancora dire solo questo, ancora, anzi queste due cose: uno, le cose non avvengono tutte volontariamente. Secondo me il portato di Snoq, e prima ancora di Usciamo dal silenzio, sono stati un portato enorme di rimessa in moto, di riconoscimento di sé delle donne, e di attività sul mondo che viviamo, perché non è soltanto questo problema uomini/donne, – insomma se le donne si fanno valere nel mondo in cui viviamo, viviamo meglio. Quindi io credo nella pluralità, lo dico sempre e lo ridico. Ogni tipo di idea, movimento, esperienza delle altre ci arricchisce sempre. Quindi imparare a interrogare le altre, a interrogare l’esperienza delle altre, e ascoltarle, far si che questo partire da sé di una pluralità diventi una consapevolezza forte per ciascuna, – mi sembra il compito che va molto condotto ancora e che è stato poco condotto, proprio per un prevalere della propria difficoltà ad interrogare le altre, perché abbiamo già una grande difficoltà a interrogare noi stesse, e chi resta fermo sul proprio interrogarsi certo produce cose interessanti da un lato, ma resta anche fermo. L’ultima cosa che volevo dire era questa: ho sentito già da due anni tutta questa storia: questa autoreferenzialità di alcuni gruppi di donne che sono poi alcune donne in carne ed ossa, e che hanno fatto l’Agorà.
Questa autoreferenzialità che dice “è stata importantissima perché ci siamo incontrate, gruppi diversi, non femminismi diversi ma esperienze e volontà”, che hanno costruito qualcosa per sé in diverse persone. Ma guardate che tra il Cicip, tra l’Università delle donne, tra la Libreria, il Circolo, le pari opportunità, le studiose dell’università, i vari gruppi di amiche, un mucchio di altri gruppi più piccoli meno potenti perché meno organizzati, o organizzati con un miraggio più piccolo, di capire se stesse e le altre in un piccolo gruppo sono andati avanti per quarant’anni! E tutte queste persone si sono mescolate, sono andate un po’ all’Università delle donne, e qualche volta qui, e a sentire altre conferenze, e a leggere i libri come tutte facciamo, qua e là. Cioè questo rimescolio di donne che riflettono c’è sempre stato, e c’è sempre stato. Ecco: siete arrivate ultime a incontrarci, e ascoltarvi, e capirvi., – voi più “pretenziose”.
Laura Minguzzi: Vorrei riprendere il discorso di Giordana all’inizio, nell’introduzione, quando ha accennato al timore del parallelismo. Cioè il quadro che ha fatto, che sarebbe che noi creiamo soggettività politiche mentre dall’altra parte gli uomini, che amano il potere, continuano ad osannare il potere, e a come rompere il parallelismo. In prospettiva del desiderio di un terzo incontro a Paestum, c’è il discorso della presenza maschile. Secondo me sarebbe un incontro con un taglio diverso se si riuscissero a coinvolgere gli uomini che hanno smesso di amare il potere, e sono interessati ad una politica delle donne, alla politica del partire da sé, e interessati anche a uno scambio con chi propone a largo raggio, in grandezza, questa politica.
Marina Terragni: Intanto, Luisa: non so se te l’hanno detto altre, ma anch’io t’avevo detto che mi sono riconosciuta tra chi ha detto “dovevi mettere di più nei guai la Lia”. Non per un gusto sadico di mettere nei guai la Lia, ma perché serviva, serviva su tanti punti. Io, leggendolo, in alcuni punti ho sperato: adesso l’inchioda. Avrei voluto che tu scandagliassi di più alcune cose. [Brusio di dissensi e interruzioni] Va be’ comunque adesso non volevo scatenare… L’altra cosa che invece volevo dire è sulla vicenda di Snoq che è deflagrato completamente. Non è che Snoqha risvegliato un movimento di donne. Per quello che osservo, ho fatto un giro nei paesi sopra la costiera, in ogni piccolo paese è nato un comitato di donne, in ogni microscopico paese, che preferibilmente parlano di violenza. Io ho detto loro “Ma voi non è che vi vedete perché volete parlare di violenza, vi vedete perché volete vedervi” e questa è la premessa per fare la vostra politica. Cioè la mia sensazione è che Snoq, per ragioni del tutto casuali e del resto la storia è fatta di casi anche, ha come catalizzato un desiderio che era pronto, maturo, – perché se no, non è che la Comencini ha il potere di portare un milione di persone, di donne, in piazza, no? Ecco, secondo me quel desiderio è lì, è intatto e va capito e va intercettato; perché altrimenti tende vittimisticamente a coagularsi intorno a temi tipo la violenza, il femminicidio, che ha un comitato per ogni frazione dell’Appennino, la difesa della 194 – mentre non coglie il fatto che lì c’è un desiderio vivo con un potenziale di fare mondo, che è molto diverso dallo stare auto difensivamente a dire “gli uomini non ci devono più menare”, no? Ecco, io ho questa sensazione e ve la dico. Davvero è un momento in cui c’è – oggi sì – un formicolare di cose di donne. Io non lo so, e magari dico una stupidaggine, ma forse non c’è mai stato tanto. E va intercettato, va capito che cosa vogliono tutte questo donne, su che cosa veramente si stanno incontrando e qual è la domanda che stanno facendo. A loro stesse innanzitutto.
Marisa Guarnieri: Vorrei dire che sto pensando da un po’ di tempo a questa parte che la violenza non è un problema sociale. La mia differenza da Snoq e da quello che leggo in cose scritte, su Facebook eccetera, è questo equivoco: essendo la violenza un problema sociale bisogna socialmente affrontarlo, con le manifestazioni, con i comitati, eccetera. Sono d’accordo con Lea quando dice che è una questione tra un uomo e una donna, fra tanti uomini e tante donne nella loro coppia, e su questa relazione bisogna fermarsi. In quanto alla complicità, io credo che complicità ce ne sia tantissima; a volte nella coppia, moltissima all’esterno, compreso il fatto di fare questa equivalenza – che io trovo molto negativa per noi, per la nostra identità – che è quella che bisogna rispondere a questa cosa con leggi, con convenzioni, con questo e quell’altro senza andare in fondo alle questioni.
Quindi su questo a me piacerebbe molto aprire un conflitto, perché mi rendo conto che è facile scivolare su un discorso di utilità sociale – e io che sto da venticinque anni dalla Casa delle donne maltrattate so cosa vuol dire – ma so anche che niente funziona se non c’è relazione: sia nel dare forza alle donne sia nel modificare quello che c’è intorno a noi. Credo che effettivamente a partire da alcune forme della pratica politica ci si possa confrontare, e ho trovato il libro di Lia così forte e così bello anche perché mi dà sempre delle risposte, Lia. Rispetto al passaggio che lei fa sulla questione della relazione di differenza con gli uomini, quando dice che si vede spesso questa questione di fare relazione dentro gruppi più o meno protetti, e di operare relazioni strumentali all’esterno. Questo è un problema che dobbiamo affrontare. Come se parlare delle nostre relazioni debba essere fatto sempre ovunque con chiunque e dovunque. Non è detto, se le ricadute simboliche non sono positive: per noi e per le donne. Quindi su questa questione – che a me riporta all’affidamento, a come nasce la relazione, da dove nasce la relazione, le pratiche politiche che mettiamo in gioco – io credo che il conflitto sia molto positivo, perché apre la mente, perché ci costringe a fare i conti con noi stesse e con gli altri, e porta parole di verità. Certo poi bisogna arrivare alla mediazione, su questo sono d’accordo con chi l’ha detto prima di me.
Sandra Bonfiglioli: Forse ho letto un po’ diversamente il libro di Lia, che è molto ricco, ma mi sembra che ragioniamo ancora in un modo “tra di noi” insomma, in questa nostra bella clausura elegante e intelligente. Perché a mio avviso invece il libro di Lia sposta i termini, questo termine, decisamente non solo fuori di qua ma decisamente in un campo politico aperto. È tanto che parliamo di questa cosa, ce la siamo trovata nelle ultime Via Dogana, – e l’ultima Via Dogana è forse quella che più lavora in campo aperto, – è stato sostenuto qua più volte, anche da Luisa Muraro. Personalmente devo dire che credo che tutto il ragionamento di Lia – che Luisa Cavaliere invece a mio avviso guida, insomma… accompagna con grande finezza – ha un punto non di arrivo ma ha un cuore, dove arriva dopo tanto percorso che è quello in cui lei mette assieme il tema della libertà come espressione più profonda della pratica femminista, e anche forse l’intereresse che noi donne abbiamo per la pratica politica. Se vedo ogni tanto un’altra donna che fa delle cose che forse non capisco bene, ci trovo sempre un sapore di libertà che mi fa dire “ecco un’amica in azione”; penso sia un po’ quello che ci ha sempre motivato in ogni cosa, nel pensiero e nell’azione. In un punto lei dice: “la mia prospettiva dopo Paestum si è radicalizzata. Ora vedo la soggettività come punto di leva, di un impegno costituente che vuole dire e tradurre le questioni che ingombrano” – ingombrano, bel termine – “il presente nel linguaggio nei saperi e nelle potenzialità che le donne vanno esprimendo”. E viceversa “ tradurre, che vuol dire portare oltre noi stesse sui temi che più mi premono”. Più chiara di così secondo me non potrebbe essere e qui alla Libreria è già stato detto altre volte chiaramente. Io credo che noi continuiamo a girare intorno a questa questione che Lia pone con forza, Luisa, e altre, anche il tuo discorso Lea (Lea, mi piacciono sempre i discorsi che fai tu, li sento profondamente risuonarmi dentro). Mi sembra molto astratto oggi ragionare di Paestum 3 dopo che ha avuto tanto successo, e dopo che credo dovremmo darci quello che io continuo a chiamare – con un vecchio termine che forse non va bene ma imparerò, ne imparerò uno migliore – “un orizzonte di progetto” su cui collocare queste cose; anche allora un Paestum 3 (e questo tema dei nessi ce lo siamo dette tante volte anche in Agorà, è giusto) è lì da vedersi.
Però credo che noi continuiamo a evitare questo ragionamento che fa Lia da molto tempo; a me piace molto, moltissimo, continuo a ripetere questa cosa, l’ho visto attraverso le mie esperienze politiche con tante donne: credo che se spostiamo l’attenzione dai fatti che succedono – (e Paestum ce li ha raccontati, ce li ha esibiti, ci ha rappresentato i fatti che le donne fanno succedere) – alle circostanze temporali di questo momento, si veda che in questo momento, ora, è il tempo giusto prima che le cose scivolino via. Anche questa della crisi. Prima che qualcun altro prenda in mano il tema dell’orizzonte di progetto, che significa ragionare su questa dimensione che Lia chiama costituente. Chiamiamola come Lia: costituente. Non piace a Loretta, ce l’ha detto, giustamente, e mi fa piacere che qui piacciano di più le pratiche generative. Io credo che le pratiche generative ci appartengano e non saranno certamente tacitate da nessun orizzonte, nessuna meta che noi vogliamo non “raggiungere” – ma un’idea guida. per capire più profondamente i nessi e tutto ciò su cui dovremmo ragionare e discutere per arrivare a dare non corpo ma fiato, voce, e parole a questa possibilità che noi abbiamo.
Pinuccia Barbieri: Ho letto anch’io molto attentamente il libro di Luisa e di Lia, che è pieno di molte indicazioni su cui bisognerebbe focalizzarsi e già ora ne stiamo discutendo. Io mi riferirò ad una che per me è importante in quanto ho frequentato e frequento, per delle relazioni che ho e anche per un desiderio di sapere, i luoghi delle pari opportunità. Pertanto sono anche interessata a quanto Lia dice nelle pagine ventitre, venticinque e ventisei:“queste donne hanno voglia di contare nei luoghi dove c’è la possibilità di avere potere, e noi dobbiamo pensare dei cambiamenti pur restando fedeli alla nostra pratica politica”. La domanda che fa è come relazionarci e come porre le domande, perché questo è molto importante in questo momento. Leggevo oggi su Repubblica in un articolo a proposito della violenza sessuale, della violenza contro le donne, che la giunta di Maroni propone di fare degli esercizi di judo perché, dice, questo va a diminuire i costi in quanto le donne non perderanno giorni di lavoro. E lì c’è una donna che gli chiede: “che cosa vuol dire questa cosa?” E contrasta politicamente con Maroni: io credo che questa donna che sta in quei luoghi va tenuta in conto, perché dice delle cose che sono anche nostri. Quindi per poter aver i contatti con queste donne e stare in relazione , come si domandava Lia, come fare per conoscere le loro storie? Ecco questa è una delle tante, tantissime indicazioni per il nostro agire politico che ritroviamo in questo libro.
Lilli Rampello: Una cosa veloce riguardo a quello che diceva Sandra Bonfiglioli prima. Nel seguire il libro – io sono qui da molti, molti anni ormai per cui pensavo che comunque le cose di Lia più o meno le sapevo, le conoscevo; e conosco bene Luisa Cavaliere siamo molto amiche quindi conosco il taglio con cui guarda la realtà – mi sono trovata in mano invece dei materiali assolutamente nuovi. Naturalmente questo è dovuto in gran parte a Luisa, perché la scansione delle domande emette una serie di pensieri dentro una costellazione sensata e quindi sono sempre diversi, e che siano diversi lo dimostra la discussione di oggi – molto bella secondo me – e grazie anche per il lavoro di Giordana e di Loretta. La cosa che mi interessa di più sono le due righe che ha citato Sandra Bonfiglioli perché, nel leggere il libro prima di proporlo all’editore, io lì ho trovato il punto di massima felicità del libro; ovvero la capacità che ha Lia e che io non ho, – (è una disparità, mo? con ragioni molto concrete), – di rilanciare verso una radicalità che torna all’origine. C’è qui un movimento del proprio tempo interiore assolutamente importante, assolutamente utile per me che non lo so fare. E non lo so fare per molte ragioni – intanto perché il desiderio non è costante, è una cosa complicata, ci vuole una passione che non sempre mi accompagna e non sempre nello stesso modo. Ma due cose fondamentali, la radicalità e l’origine, sono qualcosa a cui anch’io posso accedere perché o vedo l’intervento di Lia oggi, o di Loretta, come una pratica che io non ho fatto e non farò mai, o se no vedo la possibilità della pratica generativa, che è appunto questo “tenere insieme”: una cosa difficilissima, perché non ci sono solo gli ostacoli che nominavi tu, Loretta – e io sono anche d’accordo, quel richiamo continuo alla “concretezza”, a un fare che dovrebbe restituirci esistenza quando noi sappiamo che l’esistenza la inveriamo in altro modo – ma c’è anche l’ostacolo nella tenacia del sentire che quella radicalità ti dà l’esperienza della libertà. Questa è stata la bussola del libro al di là di Paestum non Paestum uno, due, tre – cioè a mio avviso nell’esperienza della lettura per me c’è sempre un punto che mi dice “il libro felice”, e quello è il punto della felicità del libro. Perché è in qualche modo possibilità di trasmettere: trasmettere non solo attraverso il testo che racconta, ma di trasmettere il come, quindi c’è una pratica profonda dentro il discorso del tenere insieme radicalità e origine. A tutte noi adesso che leggiamo, oltre ad aver sentito, oltre ad aver ascoltato il dialogo tra le due, capire come lo rendiamo efficace. Perché c’è un problema di efficacia generale, sicuramente, ma c’è anche un problema di efficacia a partire da sé.
Luisa Muraro: Allora, io ho ascoltato la discussione. Su quella cosa citata da te, Giordana, all’inizio, e riportata da Vita Cosentino nell’introduzione di Via Doganache dice “Fuori da questi luoghi protetti! Anche il femminismo radicale!” Un modo secondo me per cui si è fuori – non “si va”, “si è”, fuori – è di rendersi conto che ci sono delle cose, delle tendenze, delle cose in corso, delle ondate di cose, che sono inevitabili. In questo momento una delle cose inevitabili è tutta questa enfasi sulla violenza contro le donne, e bisogna saperci fare con queste cose: non dire “Ah! Oh! Per carità!” La so fare anch’io, la critica di come si muovono certe tendenze! La so fare anch’io, è facile. Un modo per stare dentro i luoghi della radicalità, nei luoghi protetti, è di credere di poter giudicare l’universo mondo invece di fare i conti con quello che capita. E quello che capita certo che non va tutto avallato, tanto meno va avallato pubblicamente, non va interiorizzato, non va razionalizzato: va semplicemente registrato. Ci sono cose che si impongono. Su questo ho discusso brevemente con Lia e intendo approfondire questa discussione, ma è indubbio che chi sa giudicare, – bisogna riuscire a farlo con agio, – l’inevitabilità di certe cose, è già fuori dalla cosa: la tua radicalità la devi portare lì. Devi portarci la radicalità. Non al punto di razionalizzare, non di fare compattamenti eccetera, ma devi portarla lì. Allora in questo senso la posizione – che mi ha molto colpita, e impressionata – sostenuta da Loretta è preziosa. Lei dice: il femminismo radicale, il femminismo che molte qui incarnano, che là si è visto tangibilmente, è una cosa aperta, incompiuta – come sempre lo è la libertà. È una cosa enorme che va riprodotta, rigenerata, ma che ha un’incompiutezza sua. E lei protestava contro i passaggi nella concretezza, giustamente, perché da quella radicalità non passi nella concretezza per deduzione in un posto come Paestum, da quella radicalità vai nella concretezza solo quando ti immergi negli elementi di necessità del reale, che sono quelli che sono.
Sara Gandini: Io non c’ero a Paestum, però ho letto il libro, quindi volevo dire un paio di cose rispetto al libro, un paio di cose che mi hanno colpito in particolare. Il femminismo che frequento ormai da diversi anni, gli aspetti che amo di più sono legati al discorso e ai momenti in cui trovo che esprima la sua radicalità, e sono momenti legati a quando si riesce in modo più felice a praticare il conflitto. Per questo mi ha interessato quando Lia parlava delle relazioni con gli uomini, quando queste non funzionano e quindi le difficoltà di fatto a mettere in campo a livello politico dei conflitti che abbiano una valenza politica; e gli elementi che lei diceva erano il separare continuamente i piani del discorso, del pensiero e anche delle relazioni, e la difficoltà di portare il conflitto nella relazione con la donna con cui si fa politica. Questi due elementi secondo me sono molto importanti, forse potremmo considerarli se ci dovesse essere un prossimo Paestum. Sicuramente adesso li abbiamo nominati per l’incontro che vogliamo fare a luglio alla Libreria delle donne. Penso sia assolutamente nodale affrontare questo discorso, perché io so che ci sono tanti gruppi misti – anche noi abbiamo avuto lunghi scambi di incontri, ci sono tante realtà – eppure queste relazioni di fatto non riescono fino in fondo a mettere sulla scena relazioni duali che sappiano significare, e che mettano in scena, un conflitto su pratiche differenti, – e che quindi venga fuori verità: anche con gli uomini che sono più vicini a noi. Questo è un elemento secondo me importantissimo. L’altra cosa che volevo dire, che mi ha colpito, – abbiamo già avuto degli scambi con Lia e con Luisa su questa cosa comunque voglio dirla – è che io so bene che nella Libreria delle donne, ed è la cosa che mi interessa di più, si parla di genealogie e non di generazioni, però so anche che nel linguaggio parlato, – e ogni tanto questa cosa comunque emerge, – si parla della differenza generazionale dicendo che le giovani non conoscono il femminismo, o comunque imparano dalle donne delle generazioni precedenti una pratica differente; e questo probabilmente è anche vero, però so anche che ci sono tante donne, giovani donne e anche tanti uomini giovani in tanti contesti differenti, anche su Internet, che in parte nominano il femminismo, in parte forse non lo conoscono come parola, – ma come pratica, di fatto è passata una pratica che è legata alla pratica di relazione, che è legata al partire da sé. Per esempio secondo me nel movimento a 5 stelle molte persone mettevano in pratica questo nuovo modo di far politica. E poi probabilmente il suo fallimento è venuto dal fatto che non riconoscendo le origini poi svanisce nel nulla, come movimento, però questa pratica secondo me è in realtà presente in molti luoghi, va vista e va valorizzata. Solo se noi riusciamo a vederla e a riconosciamo anche nelle più giovani, anche per noi è più facile capirne le origini, e quindi darle parola e farla crescere.
Rosaria Guacci: Io conosco Lia, la sento parlare e ragionare, conosco il suo pensiero da tanti anni ma ultimamente qui non ero venuta per motivi di felicità personale, e politica. Contrariamente a quanto molte di voi dite, io trovo che il gruppo chiuso, – che è il gruppo dell’hortus conclusus, il piccolo conclave, per quanto di altissimo pensiero, elegante, intelligente, come ha detto Bonfiglioli, – induce in me ma questo fin dall’adolescenza problemi di inclusione ed esclusione, di far la bella figura nella classe come davanti ai professori, quindi il luogo chiuso mi respingeva, no? Ma non mi faceva poi andare e studiare oltre. Ora nel libro della Lia ho riconosciuto una grandezza di pensiero, che conoscevo peraltro già, una lealtà di pensiero, una generosità, il saper andare oltre le ragioni del proprio dignitosissimo gruppo e contrattare, dice lei – il termine può non piacere, usiamone pure un altro, comunque si tratta di stare in relazione per uno scopo ben preciso, con il pensieri, con la teoria e le pratiche di altri altrettanto dignitosissimi gruppi ma non più controperché il conflitto porta ricchezza, non porta scontro – e questo mi ha dato felicità. Io ho bisogno di provare felicità per pensare meglio, non posso provare angoscia. Lia nel suo libro parla di angoscia rispetto il al suo passato nel mondo degli uomini, ma io riesco anche a provarla anche nell’hortus conclusus, nel mondo chiuso – o quello che io vedo come tale – delle donne. Mi rimpalla spesso angoscia, e non lietezza. Ecco. Uso un verbo che nel libro Lia usa rispetto alla bellezza – alla bellezza dell’altra, alla bellezza dei libri: se io vedo grandezza, e nel libro di Lia la vedo, se vedo generosità, se vedo lealtà, questo eccita (ecco il verbo che ha usato Lia) la miaintelligenza, il mio desiderio di grandezza, il poterla vedere, il poterla in qualche modo portare avanti, farla uscire anche da me. In questo senso io riconosco l’autorità femminile, l’autorità la riconosco a chi, – eccitando in me questa ricchezza che mi porta poi a voler fare delle cose anche fuori, a parlare politicamente e agire politicamente anche fuori, – fa in modo che io mi approssimi per contiguità, per desiderio eccetera, a questa autorità, a questa grandezza. Quindi sono riconoscente proprio per questo punto iper ricco, generoso, questo poter andare a coniugare come diceva Lilli Rampello la radicalità con le origini. Che non è vero Antonella che l’abbiamo fatto tutte in questi quarant’anni. Tutte noi ci siamo messe insieme per pensare, per vedere dove andare, ma questo respiro… Per esempio dirò qui con grande chiarezza che il libro di Daniela Pellegrini, a cui pure riconosco un’amarezza, e una grandezza, diventa piccino nel momento in cui fa la tara a ognuna di noi, per quanto mi riguarda ad esempio il gruppo di Fluttuaria, – non vedendo la ricchezza di quello che c’è stato ma giudicando quanto a lei non è stato reso. Ecco, in Lia tutto questo non c’è, nel tuo pensiero non c’è, Lia, il tuo pensiero va oltre, e questo andare oltre eccita in me il voler andare oltre. Quindi sì, autorità femminile, sì contiguità all’autorità che anch’io vorrei in qualche modo esprimere, e soprattutto sì, andare nel mondo. Voi l’avete detto in modi più concreti, ma anch’io non credo che lottare in luoghi protetti possa far veramente uscire da noi il meglio, né soprattutto cambiare il mondo in qualche modo.
Amica di Luisa Cavaliere: Farò un intervento infantile. Io non mi sono mai occupata di femminismo, e qualcuna ha parlato di “congrega” prima, e io pensavo proprio che fosse una congrega. Sono qui perché sono quarant’anni che sono amica di Luisa Cavaliere, e sono venuta altre sere. A me hanno detto che ero intelligente ma non m’hanno detto “molto intelligente”, però intelligente. Allora volevo darvi, se vi può servire – e sarò brevissima – l’impressione che si ha: per esempio quando avete parlato di conflitto: ma, signori, il conflitto è normale. Qualcuno ha usato anche la parola positivo per fortuna, perché il conflitto è anche positivo, ma secondo me il problema non è il conflitto. Ho sentito parlare di contrattazione, ma dal conflitto non si esce con il contrattare. Il contrattare ha dentro in sé un concetto di potere, mentre il negoziare – che è la capacità che dobbiamo acquisire – non ha concetti di potere dentro. Nel contrattare c’è chi perde e chi vince, nel negoziare si vince in due; ed è una capacità che forse noi tutte donne, nelle relazioni sia personali sia interpersonali, dovremmo sviluppare. È proprio una capacità di questo tipo. Mi scuso, ho detto delle cose molto banali, ma è l’impressione che ho avuto. Come vi ho detto di queste cose non mi sono mai occupata, tengo però a precisare che mi sono occupata molto di uomini e donne, per quarant’anni, a tutti i livelli e vedendo le dinamiche che si sviluppavano tra loro.
Anna di Salvo: Mi è saltata subito agli occhi la bellezza della relazione tra Lia e Luisa, soprattutto perché si tratta di una relazione tra una donna del nord e una donna del sud, quindi entriamo nel merito di quel conflitto che aprimmo, ti ricordi Luisa, a Roma lo scorso anno durante un incontro preparatorio di Paestum in cui alcune di noi delle Città Vicine di Foggia, di Catanzaro, di Catania, criticammo quel tuo trafiletto nel documento di invito a Paestum in cui dicevi che avresti voluto che si portasse a tema la questione del sud, nei suoi beni e nei suoi mali Noi dicemmo che queste questioni le affrontiamo grazie alle relazioni tra donne del sud e donne del nord, anche se poi tante volte ci siamo dette che chiaramente anche all’interno di queste relazioni, – io citerei la mia relazione con Clara Jourdan, con Pinuccia Barbieri, Laura Minguzzi ed altre, – intervengono gli aspetti che fanno parte del nostro stare al mondo come donne che abbiamo acquisito la cultura del sud, o del nord. Ma è bello, è affascinante questo intreccio, e a volte anche le contraddizioni, e il desiderio più forte dell’una di conoscere la realtà dell’altra e viceversa. Quindi da questo vostro incontro, a parte che vi conoscete da trent’anni, viene proprio dalla bellezza di questo intreccio di donne di due diverse realtà geografiche. Anche se io, – già te l’ho fatto, – ora ti faccio pubblicamente l’appunto che nella tua premessa citi la bellezza per esempio che noti nella tua vita al sud relativa allo sguardo attento non so al paesaggio, alle rose, eccetera, e non citi la bellezza – che invece hai citato tante volte nelle tue riviste, nelle riviste che hai curato – che hai trovato nelle periferie di certe realtà che comunque ti suggerivano dei processi di trasformazione; oppure quando dici che ti senti avvolta nell’abulia del sud: ecco qui ti faccio una critica perché non rendi giustizia alle cose belle, e alla bellezza delle pratiche delle relazioni, l’affidamento eccetera. Ecco, questa è una cosa. Poi, quello che vorrei che si portasse a Paestum è un discorso attento alla realtà vista attraverso le varie soggettività nelle questioni del pubblico, nelle questioni che ci coinvolgono. L’intenzione è proprio quella di esserci nelle questioni del mondo, nelle questioni che ci circondano, con la nostra traduzione libera; certo poi avverrà o non avverrà però mi piace, e mi piace quella critica che Lia Cigarini fa alla democrazia partecipata guardandola come un aspetto della democrazia decadente, di una democrazia in via di dissoluzione. È bene che si affrontino questi problemi e queste questioni con più libertà.
Silvia Motta: Volevo aggiungere la mia prima reazione quando ho letto il libro di Lia. L’ho percepito come un manifesto politico, uno scritto dove si concentrano e si tirano anche le fila: che diventano quasi delle indicazioni, dei punti di prospettiva in un’esperienza politica molto intensa, in cui ovviamente in grande parte mi riconosco perché in grande parte è stata la stessa. Ecco, proprio come un condensato, un condensato denso di contenuti che mette in fila una serie di acquisizioni, ma molto sul presente. C’è quasi un incipit che dice: “un presente che vive non solo un cambio di governo, non solo un cambio di cultura, ma impone addirittura un cambio di civiltà che forse è già in corso”. Ecco secondo me si situa proprio qua quasi una sistematizzazione politica di tante cose, io l’ho capita così, una sistemazione politica di tante cose che ho vissuto e che penso, ma le sistematizza in un’ottica di prospettiva (cioè del dove si va) e con questa ricchezza della sua esperienza, che a volte è anche puntigliosa. Mi è piaciuto molto che in lei questo discorso – che io continuo a chiamare proprio “politico alto” – è continuamente intrecciato e raccontato attraverso cose molto precise: a partire da Paestum, a partire dalle relazioni con le sindacaliste, alla relazione con Acta, all’Agorà, e relazioni anche più personali; cioè è veramente intrecciato con l’azione, con le realizzazioni, oltre alla Libreria, eccetera. L’ultima cosa che volevo dire è sul discorso che è stato citato della genealogia, che è un filo molto presente in tutto il discorso di Lia e per me è un punto molto importante. Cioè il continuare a rintracciare questo filo che unisce i femminismi storici, e che dovremmo trovare anche il modo di riuscire a comunicare in qualche maniera: in una riunione l’altro giorno si parlava delle americane e veniva fuori questo concetto che sembra che il femminismo ogni volta che si replica nella storia è come se ricominciasse da capo. Ecco, in questa ricostruzione che fa Lia c’è proprio non questo. Qui il femminismo non è ricominciato da capo, ma viene ripercorso in tutta la sua storia – perfino attraverso l’amore per la letteratura, e per l’arte.
Fiorella Cagnoni: Volevo dire due cose. Una a margine, che però mi ha riaperto, mi ha quasi squarciato un quadro: Loretta ha detto che una volta acquisita questa pratica, – di cui lei ha avuto conoscenza in tempi più recenti, – ecco, ha detto che quella pratica è un punto dal quale non si torna indietro. Io naturalmente condivido, condivido proprio, e credo che questo faccia contemporaneamente la bellezza e la difficoltà della pratica; però – siccome la tua conoscenza della pratica, Loretta, è sicuramente arrivata non attraverso quel percorso facilitatore dell’autocoscienza che rende riconoscibile la storia dell’altra ma attraverso un percorso forse più simile a quello di Sara, di una generazione più giovane – se da un lato mi rincuoro dall’altro mi interrogo, come spesso faccio, su che cosa eventualmente sia individuabile e definibile di quello che occorre per la generatività. Cos’è che fa nascere e crescere la soggettività, che non è lo stesso percorso per tutte. La seconda cosa, tornando a quello che ha detto Cavaliere sull’obiezione che ha ricevuto. Lo dico un po’ polemicamente ma mi piace aprire questa polemica e mantenerla viva: stante che io credo che l’esercizio di autorità, nelle due direzioni, sia forse l’attrezzo migliore che abbiamo, – certo andrà messo un po’ a punto perché sono quasi vent’anni che facciamo fatica, ma è l’attrezzo cruciale – io vedo invece, al contrario di quelle insulse critiche che ti sono state fatte, un movimento molto buono proprio da quel punto di vista, quello che tu poi hai significato. Perché riconoscere l’autorità, e poi saperla esercitare da parte di quelle a cui viene riconosciuta, è un’operazione difficilissima ma che forse mostrare – come nel caso del vostro librino – è utile a tutte.
Luisa Muraro: Volevo dire a Fio’, sono io che ho detto a Luisa Cavaliere: “Se tu tenevi di più le tue posizioni…” – perché aveva delle posizioni, che ha poi ridimensionate in funzione di quello che Lia aveva da dire. Io le ho detto “Se tu le tenevi, le tue posizioni…” Perché vedi Fiorella, l’autorità non si tratta solo di riconoscerla. In questo posto riconoscere l’autorità a Lia Cigarini è l’ovvietà, non ha nessun autentico valore, certo non bisogna saltarle addosso e farle una contestazione idiota, sarebbe scemo comunque, – ma riconoscerle autorità è la parte ovvia: bisogna assumerla l’autorità, la cosa più difficile è assumerla. E questo in presenza di una Lia Cigarini è difficile. E io di questo parlo, che se si vuole che ci sia autorità – l’abbiamo detto, Lia lo dice per prima – bisogna che sia circolante e perché sia circolante bisogna fare quell’operazione che è assumerla. Questo è il punto per cui io ho detto a Luisa Cavaliere “Era meglio se tu…” Comunque la mia critica era nello stile che piace a Sandra, di tipo accademico: chiedevo “perché l’avete chiamato dialogo?”, che qui il dialogo non c’è. E un po’ là mi ha dato anche ragione. Ecco, tutto qui è il punto. Poi lei mi ha dato una versione, poi ne è stata data un’altra di versione, e in effetti la cosa cominciava a diventare ridicola. Però non è ridicola, Fiorella. C’è un problema.
Lilli Rampello: C’è qualcosa di vero naturalmente in quel che dici Luisa, ma c’è una sottovalutazione intanto del fatto che Lia non scrive, perché allora si potrebbe dire “Perché non ha scritto lei direttamente?” [brusii discordanti] Preciso, preciso: non scrive libri. Scusatemi, lo so, perché di libri ne ha fatti due, e io a questi due libri ho partecipato: La politica del desiderio è del 1995 se non vado errata, e C’è una bella differenza è del 2013. [il brusio continua] Ma insomma mi fate spiegare perché secondo me non è del tutto vera, in questa situazione, su questo libro, la critica di Luisa? La cosa va misurata sul risultato, allora dico: Lia, tu ami scrivere articoli ma non scrivi libri, però avere in mano un insieme di articoli, io l’ho detto prima e lo ribadisco, significa ricollocare in un orizzonte di senso ulteriore quello che man mano tu hai pensato e scritto, allora secondo me questo accompagnamento non è assenza di dialogo e non è soprattutto una non assunzione di responsabilità da parte di Luisa Cavaliere.
Luisa Muraro: Non ho usato queste parole, non le ho imputato di non essersi assunta delle responsabilità.
Lilli Rampello: Di non essersi assunta autorità, io non ho detto la parola responsabilità.
Luisa Muraro: Di non aver tenuto le sue posizioni.
Lilli Rampello: Le posizioni le tieni se sono necessarie al punto in cui vuoi fare arrivare l’altra, perché se no io per esempio sono una che non tengo la mia posizione.
Luisa Muraro: È il risultato, che mi interessa. Se un’acqua impetuosa ha degli argini possenti, corre più impetuosa e con più forza; se invece gli argini si abbassano, l’acqua ha meno forza.
Lilli Rampello: Abbiamo una differente opinione dell’argine in questo testo, Luisa, non in assoluto ma su questo testo.
Luisa Muraro: La parte finale di Lia è molto importante e bella. Lei ormai aveva deciso che lasciava fare a Lia, e invece bisognava riprendere quella cosa lì a partire dal discorso finale. Se lei stava nella sua posizione, faceva quello che sa fare benissimo. Ma comunque va bene, ok, il risultato è ottimo, – poteva essere migliore, secondo me.
Lilli Rampello: Ma che cosa chiedeva lei a se stessa in questo libro? Siccome lei esiste eccome, qual era il risultato che lei voleva per sé?
Luisa Muraro: Luisa Cavaliere mi ha dato ragione e sa che avevo ragione. Fiorella dimentica che l’autorità bisogna assumerla, e per le donne è la cosa più difficile: è per quello che non circola. Ce l’hanno due o tre e… Questo è il punto!
Lia Cigarini: Io volevo ritornare al punto della pratica politica, il partire da sé e la pratica di relazione. Secondo me molte delle difficoltà che noi troviamo, – il famoso tassello che permetta la mediazione a cui fa riferimento Giordana, che permetta di stare al presente sulle questioni di fondo che cambiano appunto io dico la civiltà secondo me derivano dal fatto che molte di noi, che pure fanno la pratica del partire da sé e delle relazioni, non pensano a questa come a una forma politica. Cioè, l’autocoscienza è l’invenzione di una forma politica, che è allo stesso livello delle forme politiche che hanno inventato gli uomini, forme aderenti alla loro sessualità. La forma politica che è invece l’autocoscienza è un’invenzione del movimento delle donne, del femminismo delle origini. Se non si crede a questo e si ritiene che c’è una politica, quella ufficiale tradizionale maschile, e poi c’è una politica che va bene alle donne e basta, non se ne esce: perché non è che la mediazione si trova a tavolino. La mediazione si trova nella pratica politica, che vuol dire come pensi e agisci. Secondo me non è chiaro questo punto, c’è una specie di non credere – da parte di molte donne del femminismo – che quella è una forma politica a tutti gli effetti, un’invenzione straordinaria, e secondo me adatta adatta a questi tempi di frammentazione. E che risolverebbe delle questioni, in questo momento: dove c’è la decadenza dei partiti, c’è la frantumazione sociale perché il lavoro organizzato come nel fordismo non è più. Questa forma politica secondo me, per me, ha come base il fatto che la singolarità di ciascuna donna e ciascun uomo è irriducibile. C’è qualcosa di irriducibile, e questo va preservato. Io credo che il punto non sia quello di lambiccarsi intorno a un tassello che manca, una mediazione che non siamo riuscite a trovare, ma considerare che la nostra invenzione di una nuova forma politica è la leva per il cambiamento. Penso, e l’ho anche scritto, che se noi siamo convinte che questa pratica del partire da sé e dell’autocoscienza ha prodotto per noi verità e cambiamento, – non ha senso pensare che in una situazione di conflitto politico non possa essere adeguata, cioè applicata anche su larga scala. È questo il punto di cui ci si deve convincere, cioè rivendicare l’eccezionalità di quella invenzione politica, secondo me indispensabile in un momento in cui la singolarità, anche a livello teorico, è venuta avanti rispetto alla collettività; e non credo che possa essere ricacciata indietro. Quindi, quando Lilli diceva “l’origine e la radicalità”, – in questo senso io la intendevo e Lea ti voglio spiegare perché mi piace la parola contrattazione. Perché rimanda alla contrattazione tra se e sé che è la più grande definizione dell’autocoscienza. Non c’è altra parola che la dica così bene.
Luisa Cavaliere: Solo un attimo sull’obiezione, la domanda, insomma l’argomento su cui è intervenuta Luisa e a cui si è appassionata Lilli: quando è cominciata questa vicenda della scrittura, io sono arrivata a Milano con uno schema di domande, di ragionamento, che era molto più ampio di quello che poi è stato il libro. Più lungo, non più ampio di orizzonte e nel quale c’erano degli argomenti tipo il contesto meridionale, tipo… cioè argomenti a cui io sono appassionata e sui quali mi misuro, non sempre con successo, anzi più spesso con insuccesso che con successo. Stasera la discussione tra te e Luisa mi ha mostrato una cosa, mi dispiace ma certo è una cosa impegnativa per me: è vero quello che lei dice, io mi sono sottratta. Tanto è vero che quando mi ha fatto la critica, un mese fa, io ho dato una risposta di tipo psicologico, ho detto “Va be’, ti dovrei raccontare i miei complessi d’inferiorità e la mia incapacità di contrappormi e di incalzare l’altro”. Ovviamente immagina come mi ha risposto, m’ha censurata, e io ho trovato questa giustificazione e poi ho scritto “Io ho fatto spazio all’autorità, volevo fare questo e quindi ho fatto questo”. Non è vero. Perché in questo tentativo, in questo libro, il primo – c’è anche questo: c’è una mia non assunzione di responsabilità, perché la parola c’è ed è giusta; perché ho cristallizzato l’autorità; io l’ho riconosciuto. Però non è vero che è semplice, Luisa, riconoscere l’autorità, il fatto che ci sia storicamente non significa che ogni volta nella vita di ognuna di noi si ripeta il riconoscimento attivo di quell’autorità; però in questo caso sicuramente io ho fatto un’operazione di censura perché ho temuto, perché mi sono trovata di fronte a una Lia razionale, lucida, che metteva ordine nelle domande, e che ne determinava il percorso, e che mi aiutava ad avere quelladimensione, quella scansione delle domande. Lì avrei dovuto tentare: poi non so se il tentativo sarebbe stato giusto o sbagliato, poi l’avrei visto, ma non lo so perché non ho provato, perché prevaleva, ha prevalso, il desiderio di arrivare a concludere. Su questo dovrò interrogarmi, sulla base della categoria dell’autorità, perché vivo in una realtà nella quale l’autorità è un nodo cruciale.
Lia Cigarini: Io però Luisa non sono d’accordo che sia completamente annullato lo scambio intenso che c’è stato.
Lilli Rampello: Anche perché state annullando anche a me.
Lia Cigarini: Perché il fatto è che tu hai espresso un desiderio, (e tu sai che io non amo le interviste e queste cose), tu hai espresso un desiderio e io ho detto sì per la relazione che abbiamo e poi abbiamo discusso le domande e abbiamo discusso le risposte. Può essere che Luisa Muraro abbia ragione, o che tu Luisa abbia ragione, che tu abbia abbandonato quello che volevi dire te, – ma non mi è sembrato, dalla discussione. Comunque salviamo lo scambio, perché se no… [applausi]
Antonella Nappi: Vorrei dire su questa contrapposizione tra la pratica politica della soggettività e la pratica politica tradizionale: io combatto le contrapposizioni, perché il problema è proprio far vivere la soggettività nella politica esistente, e farla vivere sempre di più. E non è neanche facile Ecco allora io non vorrei contrapporre queste cose. Non capisco: chi è che pensa che non sia una pratica politica quella del femminismo? È evidente che è la pratica politica utile, che deve contaminare sempre di più le azioni pubbliche esistenti; e non è facile. E vorrei sapere da Luisa Muraro, ma anche un’altra volta: questo di “assumere l’autorità”, – non puoi parlare Luisa in modo più fattivo e semplice? Invece che così allusivo? Voi vi capite, ma non è una frase:è incomprensibile! Posso capire, avendola sentita altre volte, che è studiare, imparare, ripetere, trasmettere, però siccome non mi soddisfa spero che ci sia qualcosa di diverso.
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