Luce Irigaray: Una cultura a due soggetti

| 1 Giugno 2015 | Comments (0)

Diffondiamo in occasione della festa della Repubblica del 2 giugno 2015 quattro lezioni sulle filosofe femministe della Enciclopedia Treccani iniziando con Luce Irigaray (le altre lezioni che possono essere trovate nella rubrica “Donne Lavoro e femminismi” sono relative a Luisa Muraro, Adriana Cavarero  e Rosi Braidotti)

UNA CULTURA A DUE SOGGETTI

“Da Speculum, il mio progetto è stato di rendere possibile una filosofia, e più in generale una cultura, a due soggetti. La mia critica alla filosofia occidentale concerne soprattutto l’oblio dell’esistenza di una soggettività che è differente da quella maschile: una soggettività al femminile.” Così scrive Luce Irigaray nell’introduzione al suo In tutto il mondo siamo sempre due per spiegare come il lavoro iniziato nel 1974 con Speculum – la pubblicazione che segnò la rottura con Lacan e la sua scuola, nonché l’espulsione dall’università francese di Vincennes – non poteva che concludersi con il tentativo di una rifondazione culturale che a partire dalla differenza di identità, naturale e culturale, tra uomo e donna riconosca e rispetti le altre differenze in vista di una comunità universale, di “più pace e felicità nel mondo”.
Del resto, in risposta a chi avrebbe voluto che il suo pensiero si fermasse alla rivendicazione di una soggettività femminile, certo non neutra né simile, ma comunque separata da quella maschile, la stessa Irigaray aveva sottolineato che: “Si è fatto di questo pensiero della differenza un pensiero solo delle donne e fra le donne. Non l’ho mai detto. Questa era una tappa necessaria per strutturare il soggetto femminile, ma la finalità resta una cultura a due soggetti. È una cultura a due soggetti che ci permette di entrare nel multiculturalismo, essendo la differenza uomo-donna la prima differenza.”

 

LA CRITICA ALLA FILOSOFIA E ALLA PSICANALISI

In Speculum. Dell’altro in quanto donna, Luce Irigaray, mostra che la filosofia da Platone a Hegel e la psicanalisi di Freud, e indirettamente di Lacan (Speculum richiama il saggio lacaniano Stadio dello specchio), nella loro pretesa di totalità, di universalità neutra, che maschera invero il dominio del maschile, hanno considerato l’alterità come l’immagine speculare, simmetricamente opposta del Medesimo. La donna è stata perciò rappresentata come mancanza rispetto alla pienezza dell’uomo. Se il maschile si identifica col pensiero, il femminile è collocato dalla parte del corpo. Sta qui, in particolare, la critica a Freud per il quale tutte le fasi dello sviluppo della sessualità femminile sono ricalcate sulla sessualità maschile. L’invidia del pene, afferma Irigaray, è un’invenzione maschile: l’uomo non vedendo nell’altro da sé niente di simile a sé, inorridisce ed esorcizza la sua paura di castrazione nell’invidia del pene. La donna risulta quindi un non uomo. Ma così facendo, annullando cioè la differenza che rende unico e unica ogni uomo e donna realmente esistenti a partire dalla differenza sessuale, si rompe anche la relazione che, dalla nascita, è con un corpo altro che è sempre corpo sessuato. “L’ordine sociale la nostra cultura, la stessa psicanalisi – scrive Irigaray – vogliono che sia proprio così: la madre deve restare interdetta, esclusa. Il padre interdice il corpo a corpo con la madre” cioè la relazione “con la sicurezza della prima ora”. Vedendosi “riflessi” nello specchio – sostiene Lacan – il bambino e la bambina cominciano a costruire il senso delle loro identità separate dalla madre e dagli altri, fino a quando, precisa di contro Irigaray, interviene la Legge del Padre che, attraverso la parola, subordina l’una all’altro, iscrivendoli nello statuto dell’inferiorità, la femmina, e della superiorità, il maschio, e annullando di fatto l’autonomia del femminile. Nell’ordine imposto dalla Legge del Padre o “ordine simbolico”, le parole e i discorsi sono simboli distinti dalle immagini e dai segni che appartengono alla fase pre-edipica, precedente a quella dello specchio, a quello che Julia Kristeva chiama “ordine semiotico” della madre. Se anziché lo specchio – afferma Irigaray – si usasse lo speculum, ovvero lo strumento ottico che i medici usano per guardare dentro le cavità del corpo umano, in particolare dentro l’organo genitale femminile, si vedrebbe che anche il vuoto, altrimenti identificato con il nulla, il passivo, la mancanza, al pari della caverna platonica, è invece un luogo che ha una sua sessualità e una sua realtà molteplice e feconda. Ma l’uomo non lo riconosce, perché per lui la diversità “positiva” della donna è un pericolo, nel senso che, se essa accampa altri desideri che non siano l’invidia del pene, crolla il sistema fallocentrico. L’unica donna che l’uomo vede è quella la cui immagine gli viene rinviata dallo specchio. L’altra resta invisibile, quindi non esiste, quindi non è rappresentabile né rappresentata.

LA CRITICA AL PATRIARCATO

Irigaray imputa al patriarcato di aver distrutto in particolare la relazione genealogica tra madre e figlia. Tracce di questa violenza, che ha obbligato le donne a sottomettersi alle leggi dell’universo degli uomini, sono visibili oggi nella sofferenza e nel disordine che segnano sia la loro esperienza personale sia la realtà sociale. L’instaurarsi violento del regime patriarcale è rinvenibile nel mito di Core rapita alla madre Persefone da una potenza infernale e violentata, mito che per Irigaray ha, come tutti i miti, valore storico. Scrive, infatti, che “il mito non è una storia al di fuori della Storia, ma la riassume attraverso immagini che riassumono le grandi tendenze di un’epoca”. Anche nell’Orestea, laddove Oreste viene assolto dal delitto di matricidio e guarisce dalla follia grazie ad Apollo, mentre la sorella Elettra ne resta preda, Irigaray vede il passaggio traumatico da una società matriarcale a una patriarcale, non immediatamente visibile proprio perché mascherato dalla cultura patriarcale, la quale, afferma, ha altresì “cancellato forse per ignoranza o incoscienza le tracce di una cultura anteriore o simultanea ad essa”. La follia di Elettra è la follia di tutte le donne che continuano a uccidere la madre, “che è stata immolata all’origine della nostra cultura” dal figlio in nome del padre, perpetuando così una complicità devastante. Per uscire da questo cerchio infernale, è necessario “che affermiamo che esiste una genealogia di donne”, duplice, ovvero basata sulla maternità e sulla parola che scaturisce dall’amore per la genealogia materna e dalla volontà di ridarle simbolicamente la vita. Situarsi nella genealogia familiare, per cui una donna ha sempre una madre che è figlia di un’altra donna, o una figlia che sarà a sua volta madre, significa riappropriarsi della propria identità. La questione della maternità diventa fondamentale perché la donna conquisti e custodisca la sua identità di donna. Negando alla madre il suo potere di generare, giacché vuole essere l’unico creatore, “il Padre sovrappone al mondo carnale arcaico un universo di lingua e di simboli che non si radica in quel mondo, se non come qualcosa che fa buco del ventre delle donne e al posto della loro identità”. Se così è, occorre allora che le donne scoprano e riaffermino che sono sempre madri in quanto donne e che generino qualcosa che non è il bambino, ma amore, desiderio, linguaggio, arte, società, politica, religione. Riappropriarsi della dimensione materna che appartiene alle donne in quanto donne significa accedere a quella creazione che per secoli è stata loro negata. In questo modo, si riconoscerà la differenza sessuale, ovvero l’intrinseca diversità della natura femminile. Bisogna prendere atto che esiste un limite interno alla natura stessa segnato dal genere a cui apparteniamo, che la natura è a due: uomo e donna. Solo così le donne smetteranno di cercare uno spazio proprio nel mondo maschile, ribadendo inconsapevolmente la validità del modello maschile nel tentativo di imitarlo.

COSTRUIRE UNA SOGGETTIVITÀ FEMMINILE

Non si dimentichi – avverte Irigaray – che le donne hanno una storia, che talune di esse, pur con enorme difficoltà, hanno segnato la storia, ma che di esse le altre hanno poca conoscenza o le hanno confinate, alla pari dell’uomo, nell’eccentrico o nel folle. Ecco allora che il venir meno dell’odio e dell’ingratitudine verso la madre è presupposto del venir meno dell’odio e dell’ingratitudine di donne tra loro, è condizione necessaria per ricostruire le relazioni tra donnee costruire una soggettività femminile che è per definizione trasversale e collettiva. Ma come è possibile tutto ciò? Come è possibile costruire una soggettività femminile? Ponendosi fuori da quella che Cavarero chiamerà “economia binaria”.
E c’è un fuori? Criticando le rappresentazioni che l’uomo ha fornito della donna, attraversando l’immaginario maschile, Irigaray individua una zona oscura che in quanto eccedente l’ordine fallologocentrico, in quanto non si lascia da esso comprendere perché non cade sotto il suo dominio, è da quell’ordine stesso non rappresentato. E, quindi, non detto. Bisogna allora dare parola a un femminile che è fuori dal regno della parola, e pensiero a una Madre che non è quella pensata dal Padre. Il problema è decostruire il linguaggio delle varie discipline che sottende all’ordine simbolico maschile e costruirne uno specificamente femminile, questione da cui prenderà avvio la riflessione di Adriana Cavarero. Questa operazione è possibile se si considera il fuori come la Madre, corporea e sessuata, inizio impensato e sempre riproposto attraverso rappresentazioni che negano la sua alterità. Se a questa Madre diamo “il diritto al piacere, al godere, alla passione”, e rendiamo “il diritto alla parola, e talvolta al grido e alla collera”, crollerà l’ordine maschile che sul mutismo della donna, sulla rimozione della sua potenza generativa, non solo in senso biologico, ma simbolico, è fondato.
Dobbiamo, continua Irigaray, “trovare, ritrovare, inventare le parole, le frasi che dicono il rapporto più arcaico e più attuale con il corpo della madre, con il nostro corpo, le frasi che traducono il legame con il suo corpo, il nostro, quello delle nostre figlie. Dobbiamo scoprire un linguaggio che non si sostituisca al corpo a corpo, come tenta di fare la logica paterna, ma lo accompagni, parole che non escludano il corpo, ma che parlino corpo”. Per esprimere e rappresentare ciò che nelle esperienze delle donne è ancora non rappresentato, in quanto colonizzato o fagocitato dall’immaginario fallocentrico, le donne devono mettere in parole la loro relazione al femminile e rappresentarla nei propri termini. Irigaray definisce questo processo “doppia sintassi”, così da difendere la differenza sessuale come irriducibile e irreversibile e da porla come condizione di possibilità per una visione alternativa della soggettività e della sessualità delle donne.

IO-TU-NOI

La costruzione di un linguaggio femminile, di un discorso filosofico, politico, artistico, religioso femminile, è la via per giungere a una cultura a due soggetti. Non basta, infatti, criticare il patriarcato o la fallocrazia, anzi la critica a volte resta all’interno della logica del Medesimo e non tiene conto della differenza, che vuole un altro comportamento, un altro modo di pensare e di agire. Occorre piuttosto costruire un’altra cultura, anzi due, precisa Irigaray: una appropriata alla soggettività femminile e una relativa alla relazione tra due soggetti differenti: se stessi, il mondo, l’altro. E questo a partire dalla differenza sessuata che è ciò che la cultura occidentale ha abolito e che è la più basilare e la più naturale, quella che per prima articola natura e cultura. Coltivare la relazione nella differenza, a cominciare da quella uomo-donna, significa lavorare “verso la liberazione dell’umanità stessa, e verso un altro tempo del nostro divenire umano”.
La mancata esperienza dell’altro femminile è diventata, infatti, mancata esperienza dell’altro tout-court. Perciò solo abbattendo l’alterità con la A maiuscola, respinta come estranea o simile, si creeranno le condizioni di emergenza di altre molteplici alterità con la a minuscola, che non sono omologabili al Medesimo e che sono il luogo nel quale si manifesta la costitutiva relazionalità di uomini e donne: una relazionalità, espressa nella formula io-tu-noi, capace di rompere il cerchio della ripetizione dei discorsi e di sviluppare la potenzialità dialogica della lingua. Sulla condivisione della parola, Irigaray insiste negli ultimi suoi lavori. Se il soggetto maschile ha privilegiato, nell’uso del linguaggio e della comunicazione, il parlare-di, diventa ora necessario coltivare il parlare-con, che privilegia non più l’oggetto ma la relazione tra i soggetti, i quali per poter entrare in relazione senza annullarsi devono rimanere irriducibili. Riconoscere la specificità del discorso, che corrisponde al soggetto maschile da una parte e al soggetto femminile dall’altra, conduce a scoprire una condivisione della parola che non annulli nessuno dei due e a partire da questo una condivisione del mondo che non annulli le differenze.

 

Category: Donne, lavoro, femminismi, Storia della scienza e filosofia

About Luce Irigaray: Luce Irigaray nasce a Blaton (Belgio) nel 1930. Studia filosofia presso l'Università di Lovanio e si laurea nel 1955. Dopo aver insegnato in un liceo di Bruxelles, si trasferisce in Francia. Nel 1961 riceve una laurea in psicologia presso l'Università di Parigi e nel 1962 il Diploma di psicopatologia. Dal 1962 al 1964 lavora per la Fondazione Nazionale della Ricerca Scientifica in Belgio. Dopodiché inizia a lavorare come assistente presso il Centro Nazionale della Ricerca Scientifica di Parigi, dove è attualmente direttrice di ricerca. Nel 1968 riceve un Dottorato in Linguistica. Nel 1969 analizza Antoniette Fouque, una leader femminista dell'epoca. Dal 1970 al 1974 insegna presso l'Università di Vincennes. In questo periodo diventa un membro dell'EFP (Ecole Freudienne de Paris, fondata da Jacques Lacan). Nel 1974 pubblica la sua tesi di dottorato Speculum, de l’autre femme dove critica con pungente ironia il pensiero di Freud e di Lacan sulla sessualità femminile. Questo libro, che provoca molte polemiche, segna la sua rottura con Lacan e la porta alla sospensione dall’incarico di insegnante presso l’università di Vincennes. Irigaray riesce a trovare un nuovo pubblico nei circoli femministi a Parigi (viene inoltre coinvolta in manifestazioni per la contraccezione e per il diritto all'aborto). Tiene molti seminari e conferenze in tutta Europa, decine dei quali vengono racconti e pubblicati (Oltre i propri confini, Baldini Castoldi Dalai, 2007). Il lavoro della Irigaray influenzerà i movimenti femministi francesi e italiani per alcuni decenni. Nel 1982 ottiene la cattedra di filosofia all'Università Erasmus di Rotterdam (la sua attività di ricerca in questa facoltà porta alla pubblicazione dell’opera Etica della differenza sessuale). Nel 1991 viene eletta deputata al Parlamento Europeo. Nel 1993 scrive, direttamente in italiano, Amo a te. Nel dicembre 2003 l’Università di Londra le conferisce la laurea honoris causa in letteratura. Dal 2004 al 2006 è stata visiting professor nel dipartimento di Lingue e Letterature Straniere presso l'Università di Nottingham. Nel 2007 viene affiliata con l'Università di Liverpool. Nel 2008 le viene assegnata la laurea honoris causa in Letteratura dallo University College di Londra. Tra i sui libri più recenti: Tra Oriente e Occidente. Dalla singolarità alla comunità, Manifestolibri, 1997; Chi sono io? Chi sei tu? La chiave per una convivenza universale. Biblioteca di Casalmaggiore, 1999; Il respiro delle donne. Credo al femminile, Il Saggiatore, 2000; Amante marina di Friedrich Nietzsche, Luca Sossella Editore, 2003; In tutto il mondo siamo sempre in due. Chiavi per una convivenza universale, Baldini Castoldi Dalai, 2006; Preghiere quotidiane, Heimat, 2007; Oltre i propri confini, Baldini Castoldi Dalai, 2007; La via dell'amore, Bollati Boringhieri 2008; Condividere il mondo, Bollati Boringhieri, 2009; Il mistero di Maria, Paoline Editoriale, 2010

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