Luisa Muraro: La schivata. Una introduzione a Iris Murdoch filosofa
Diffondiamo da Etica & Politica / Ethics & Politics, XVI, 2014, 1, pp. 410-425 questo testo di Luisa Muraro su Iris Murdoch filosofa .1
Nel 1952 Londra era una città ancora segnata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Questa città fa da sfondo principale alla storia di Under the Net, il primo pubblicato (nel 1954) di una lunga serie di romanzi scritti da Iris Murdoch. Racconta le vicende che portano Jake, l’io narrante, un giovanotto poco più che trentenne, al pari dell’autrice, e dichiaratamente nevrotico, a trovare un nuovo inizio della sua esistenza. Nuovo inizio significa, da una parte, che egli comincia a vedere che le persone esistono e le cose sono quelle che sono (e non come gli piacerebbe che fossero), e, dall’altra, che decide di lavorare part-time per mantenersi e per riprendere a scrivere seriamente.2
In quello stesso 1952, il 9 giugno, a Londra, presso la Aristotelian Society, Iris Murdoch fece una delle sue prime conferenze pubbliche, la prima di cui abbiamo il testo, dal titolo strano e suggestivo, Nostalgia for the Particular, che argomenta per l’opportunità di non escludere dalla ricerca filosofica le nozioni di experience, consciousness e inner life, e polemizza perciò con alcuni esponenti della filosofia analitica del linguaggio come Gilbert Ryle, l’autore di The Concept of Mind, e Alfred Ayer, l’autore di Thinking and Meaning.3
A questi lei oppone, insieme alla tesi husserliana di una fenomenologia del pensare, anche l’esistenza, che illustra e avvalora con una citazione di Rilke, di symbolic experiences, in cui avviene che l’esperienza parli da sé (experience speaks itself) e noi afferriamo immediatamente la significanza (the significance) di un accadimento o di un’opera d’arte. L’idea, nuova e audace, presenta notevoli somiglianze con quella “esperienza ermeneutica” sulla quale all’epoca stava riflettendo, del tutto indipendentemente, Hans Georg Gadamer.4
Questi sono gli inizi della carriera di un’autrice la cui opera si distribuisce sui due versanti della letteratura e della filosofia, opera che è stata riconosciuta come eccellente su entrambi i versanti, ma la cui originalità filosofica, si è detto giustamente, è ancora in parte da scoprire.5
Fin dalla prima lettura, parlando in generale, colpisce che il notevole vigore della prosa filosofica di Murdoch non si accompagni a quella voglia di darsi ragione cui sono abituati i lettori delle opere filosofiche. Iris Murdoch non ritorna su quello che ha già detto per riordinare o correggere, sviluppare e ribadire; ciò non impedisce che le sue tesi filosofiche si richiamino e s’intreccino fra loro, amplificandosi e potenziandosi, ma lo fanno in una maniera piuttosto libera, con variazioni che su certi temi sfiorano la contraddizione, e che ammettono sviluppi impensati. Lei non cerca di corroborare le sue idee, come fanno volentieri i grandi pensatori, con la costruzione di una dottrina.
Se Murdoch si sottrae alla costruzione sistematica, non è in nome di un esclusivo riferimento alla contingenza dell’esistenza umana, che pure ammette, né in nome di una qualche insormontabile problematicità del pensiero umano, che non ammette. Non esclude infatti la ricerca di una verità metafisica e la possibilità di attingerla. La sua posizione è anti-antimetafisica. L’espressione dell’insoddisfazione per i decreti antimetafisici della filosofia moderna, e il pensiero di un barlume (spark) di trascendenza di cui non esclude che sia reale, torneranno più volte nei suoi scritti, spesso in questi termini: “c’è più di questo” (“there is more than this”). Lei stessa caratterizza questa formula come “a metaphysical position but no metaphysical form”.6
Quando si ferma nelle vicinanze dei grandi temi metafisici, il suo dire ha qualcosa in comune con quello dei mistici che parlano di Dio e poi aggiungono: quello che ho detto è falso. Loro lo dicevano per fare un confronto con l’inesauribile ricchezza della presenza del loro amato che avevano conosciuto per esperienza diretta, e che volevano comunicare agli altri.7 Per parte sua Murdoch costata che sta prendendo una posizione metafisica senza poter dare forma a tale posizione, con l’intento d’impedire alla riflessione filosofica, a cominciare dalla sua stessa, di prendersi quella “autorità” (la parola è sua) che compete alla realtà così come si presenta all’esperienza istruita dall’amore, che sia nella vita morale delle persone buone o nella fruizione delle cose belle.
Quest’ultima affermazione ci catapulta nel cuore della filosofia di Murdoch e, messa in un punto iniziale del testo, crea qualche problema, ma ciò è inevitabile per due ragioni, primo perché un discorso che vuole esporre il pensiero di Murdoch, si trova subito e inevitabilmente (poi vedremo perché) davanti a idee che reclamano diritto di cittadinanza nella (sua) filosofia senza avere tutte le carte in regola, idee sans papiers, direbbero i francesi. Secondo, perché l’amore non è un concetto centrale della filosofia moderna, come costata anche Iris, pur essendo un “concetto centrale per la morale”.8 Lei per giunta gli dà una definizione insolita: “L’amore è la capacità di cogliere l’individuale. Amore significa comprendere, ed è molto difficile, che qualcosa di altro da sé è reale” (“Love is the perception of individuals. Love is the extremely difficult realisation that something other than oneself is real”).9 Forse per sanare l’irregolarità che, con questo concetto sans papiers, si produce nella filosofia, alcuni commentatori fanno un riferimento enfatico al platonismo di Murdoch; lo fa lei stessa, del resto. Il riferimento è pertinente ma secondario, a mio giudizio, e deve lasciare il passo a una più attenta considerazione all’impensato che con lei entra nel recinto della filosofia.
Per un certo tempo io ho continuato a riflettere su Murdoch con il sentimento che c’era un “segreto” da scoprire. Ed è vero, purché si riconosca che il segreto, come la famosa lettera rubata di Poe, è davanti ai nostri occhi: è la caratteristica mobilità del suo pensiero che impedisce alla mente di restare stabilmente in un punto di vista, al ragionamento di muoversi su un’unica traiettoria, al discorso di svilupparsi su uno stesso piano. C’è abbondanza di pensatori postmoderni che teorizzano questa mobilità e non la praticano, lei non la teorizza ma la pratica e noi, a leggerla, ci sentiamo “spiazzati”, come si dice. La mobilità che caratterizza il suo pensare, come mostrerò, coinvolge le due scritture insieme, senza minare l’indipendenza reciproca dei saggi filosofici e dei romanzi. Vorrei farne un nuovo approccio alla filosofia di Murdoch: non so bene perché, tutto quello che finora ho scritto su di lei, prende la forma di un’introduzione.
Si è già discusso sui rapporti tra i due tipi di scrittura presenti nell’opera murdochiana. Qualcuno ha sostenuto che il suo impegno letterario fosse motivato teoreticamente e possa quindi essere considerato uno sviluppo della sua opera filosofica.10 C’è del vero in questa tesi, sebbene sia vero anche il viceversa, secondo me, nel senso di una precedenza della narrazione rispetto alla speculazione. Quello che è certo è che la scrittura dei romanzi non subentra interamente mai al posto della riflessione filosofica, neanche a livello biografico. Come si ricava dalla biografia di Peter Conradi, Murdoch ha “sempre” scritto romanzi e non si è mai congedata dalla filosofia.11 Nella sua vita non c’è stato un cambio di attività, ma molti, dall’una all’altra scrittura, così come nella sua opera ci sono molti scambi fra i due tipi di scrittura, scambi che, alla lettura, creano un effetto di risonanza che sembra scaturire da un’asimmetria senza complementarità.
Su questo punto abbiamo anche la testimonianza della stessa Murdoch, che è preziosa tanto quanto potrebbe risultare fuorviante. Intervistata da Bryan Magee nel 1977 sui rapporti fra filosofia e letteratura, in generale e nella sua esperienza personale, Iris Murdoch ha risposto con parole che c’illuminano sulla sua concezione della letteratura e dei rapporti di questa con la filosofia, e che aiutano la nostra comprensione dei suoi romanzi e del suo pensiero, come quando dice che, “filosofia e letteratura, nonostante la loro diversità, siano entrambe attività che cercano e rivelano la verità” (“through they are so different, philosophy and literature are both truth-seeking and truth-revealing activities”). Oppure: “Nel bene e nel male, ‘arte va più in profondità della filosofia” (“For better and worse art goes deeper than philosophy”).12
È in tutt’altro senso che le sue risposte a Magee fanno invece problema. S’intuisce che lei, non a torto, teme d’essere etichettata come filosofa e romanziera senza soluzione di continuità. Una parte della critica letteraria, apprendo daAntonia Byatt, la considerava autrice di romanzi filosofici.13
Forse Murdoch temeva che, su questo piano inclinato, la sua filosofia sarebbe diventata una filosofia romanzata? Non è accaduto, la sua notevole fortuna di romanziera non ha interferito con quella dei suoi scritti filosofici, che ha seguito un corso indipendente. All’ipotesi di una continuità fra le due produzioni, lei oppone argomenti di carattere letterario che sono convincenti: la creazione artistica non risponde di sé alla verità filosofica, i personaggi di un romanzo di buona qualità non incarnano idee generali. Ma, questo è il problema, la rappresentazione che fa del filosofo, non solo non convince in generale, ma rischia di essere fuorviante per ciò che la riguarda. Infatti, lei pretende che il filosofo eviti o cerchi di evitare ogni retorica, non cerchi di piacere a chi lo legge e non gli/le lasci spazio alcuno, scriva per pochi e parli con voce impersonale, mirando alla risoluzione di difficili problemi tecnici: quale che fosse il suo intento, niente di ciò che dice corrisponde precisamente alla sua prosa filosofica, di cui misconosce alcune notevoli caratteristiche.
Per cominciare, la voce di lei che parla (non si dimentichi che molti scritti erano in origine conferenze) s’iscrive talvolta nel testo sia per dichiarare il suo scontento (“I am not content”) e disaccordo con certe idee dominanti, sia per segnalare l’introduzione di tesi che non vengono adeguatamente argomentate, sia per aiutare chi ascolta (o legge) a tenerle dietro. La sua scrittura, inoltre, si caratterizza per una retorica sobria ma efficace, che le è peculiare. E che fa pensare, talvolta, all’arte del funambolo, in equilibrio com’è fra le esigenze critiche del ragionamento filosofico e le certezze irrinunciabili che il filosofo condivide con le persone comuni. Il funambolo non può arrestarsi, perderebbe l’equilibrio, e così lei. Lei, infatti, si muove nella direzione di dimostrare qualcosa ma solo per portarci a vedere oltre, si muove cioè nella direzione di quello che non la filosofia ma la letteratura sa fare (tra le molte cose che sa fare): mostrare il mondo.14 Altre volte, la sua scrittura filosofica fa pensare a quella mossa degli animali inseguiti da un predatore o da un proiettile, la schivata in italiano, esquive in francese, swerve in inglese, che saltano di colpo da una traiettoria a un’altra. Lo stesso fa lei, per sottrarsi ora alla costruzione teorica perfettamente chiusa ai fatti e alle obiezioni, ora alle giuste esigenze del pensiero critico, la cui soddisfazione è costretta a rimandare al prosieguo del discorso, se tutto andrà bene. Valga come esempio questa affermazione, che troviamo in un passo teso a raccogliere il frutto di un percorso alquanto laborioso e tutto a zig-zag: “Ciò che è reale può essere ‘non empirico’ senza essere del tutto sistematico. In situazioni particolari, la ‘realtà’, intesa come ciò che viene rivelato all’occhio paziente dell’amore, è un’idea del tutto comprensibile all’uomo comune” (“What is real may be ‘non empirical’ without being in the grand sense systematic. In particular situations, ‘reality’ as that which is revealed to the patient eye of love is an idea entirely comprehensible to the ordinary person”).15
In realtà, quello che Murdoch descrive come il compito del filosofo, nell’intervista del 1977, corrisponde ad una parte soltanto del suo lavoro filosofico. Fra le due scritture, quella più creativa e quella più ragionante, c’è una tensione che ciascuna delle due riproduce al suo interno, in maniera differente. La presenza della filosofia nei romanzi di Iris Murdoch costituisce un tema ricchissimo che Antonia Byatt ha cominciato parecchi anni fa a indagare validamente.16 La presenza della fiction nella scrittura filosofica è ciò di cui ci stiamo occupando qui o, per meglio dire, ciò che ci tiene occupati qui. Quella presenza si segnala talvolta per l’improvvisa citazione di un nome, Patroclo, Cordelia, Mr. Knightley, di un’immagine, “qualcuno ha fame, qualcuno sta piangendo” (“somebody is hungry or somebody is crying”), di un’idea: “mediante la narrazione di storie, la virtù continuerà a essere rappresentata” (“if stories are told, virtue will be portrayed”).17 Altre volte, diventa il tema di tutto un testo, come The Sublime and the Beautiful Revisited, che collega il problema morale e politico della libertà all’arte del romanzo e alla creazione di personaggi liberi.18
L’esempio più cospicuo e già molto indagato, di quella presenza, lo fornisce l’inserto, in un saggio filosofico del 1962, The Idea of Perfection, di una breve storia che racconta come sono migliorati i rapporti tra una suocera (M) e una nuora (D): nel percorso di Murdoch, questa breve storia rappresenta uno svincolo risolutore la cui importanza, nel suo contesto, non è inferiore a quella dei miti platonici chiamati a surrogare il ragionamento dialettico.19 Un caso a parte rappresenta l’invenzione della figura di “the objector” nella prima conferenza, ricordata sopra, tenuta davanti ad un pubblico piuttosto temibile per una giovane pensatrice che non è d’accordo con le idee lì prevalenti: “Si può parlare di fatti senza parlare di esperienze. Ma chi non è d’accordo chiede: ‘È davvero possibile?’” (“We can speak of facts without speaking of experiences. But, the objector may argue, can we really?”)20. La figura, che ritorna più volte fino alla fine, prendendo talvolta i panni del “defensor of the inner life”, imprime alla conferenza un andamento drammatico.
Nasce spontanea una domanda: mentre è evidente che i romanzi di Iris Murdoch sono romanzi, a che cosa somiglia esattamente la sua filosofia?
Abbiamo la risposta di Mary Warnock, che fu sua compagna di studi e collega. Lei sostiene che, nonostante le molte critiche mosse a Sartre, Murdoch rientri nell’esistenzialismo: “her immersion in the real world makes it not so inappropriate to describe her”.21 L’argomento dell’immersione nel mondo reale è suggestivo quanto vago; sicuramente chi lo ha formulato era in condizione di articolarlo come si deve, ma non so con quali risultati. Il punto è che Mary Warnock molto probabilmente chiama “immersion in the real world”, l’impegno filosofico di Murdoch per salvare la realtà del mondo reale contro il dominio crescente del senso dell’irrealtà (la fantasy, nel suo linguaggio) che affetta la nostra civiltà. Quell’impegno, che fu anche dell’esistenzialismo, bisogna dire che ha comportato una certa rottura con la tradizione filosofica. La filosofia consente simili rotture: la sua tradizione, infatti, non le impone un destino sotto la forma di una definizione, le impone semmai il compito di trovare la sua propria definizione, cioè, in sostanza, il compito di ricominciare sempre da capo con il lavoro del pensiero, che è il proprio di ogni vocazione filosofica. Quella di Murdoch era una vocazione di prim’ordine, sebbene, come risulta dalla biografia di Conradi, la sua più viva ambizione fosse di diventare una grande romanziera.
Non c’è dubbio che vi sia l’esistenzialismo nel “ricominciare sempre da capo” di Iris Murdoch. Il pensiero e l’esempio dei filosofi esistenzialisti l’hanno resa consapevole di una crescente invadenza delle tecniche analitiche, sia filosofiche sia scientifiche, che investono ogni manifestazione della soggettività umana. Quel pensiero e quell’esempio le hanno insegnato anche ad opporsi a questa invadenza. Come? Riconoscendo e tematizzando l’emergenza del soggetto umano, con la sua singolarità e contingenza, rispetto ad ogni totalità, comunque intesa (filosoficamente, religiosamente, ideologicamente) e comunque imposta (con la forza della dittatura o con il consenso democratico).
Il debito che Murdoch ha con l’esistenzialismo è certamente grande. Ma non meno grande è la distanza che li separa, lei infatti ha preso subito un’altra strada, come mostra ad abundantiam il saggio del 1953 su Sartre22. Dall’esistenzialismo lei si allontana con l’intero percorso filosofico. Dovendo rendere l’idea del divaricarsi dei rispettivi percorsi in poche parole, diciamo che, dell’esistenzialismo, lei non condivide l’arroganza intellettuale (la parola è sua).23
Lei, come filosofa, non intende arrogarsi l’autorità di decretare i limiti delle possibilità umane, perché le nostre possibilità (di libertà, di conoscenza vera, di felicità) si manifestano per conto loro in forme su cui il filosofo non ha un potere di supervisione. E la filosofia analitica di Oxford e Cambridge (fatto salvo, per certi aspetti, il pensiero di Wittgenstein), ai suoi occhi ha un atteggiamento che non è diverso da quello che lei attribuisce all’esistenzialismo.
È importante notare che, nella polemica con l’esistenzialismo da una parte e con la filosofia analitica di Oxford e Cambridge, dall’altra, è in questione, per Murdoch, non soltanto l’inadeguata o fallace rappresentazione che quelle dottrine filosofiche forniscono degli esseri umani in quanto agenti morali, rappresentazione che bisogna arricchire o correggere facendo riferimento, per esempio, alla ricchezza e precisione del linguaggio e delle rappresentazioni della vita morale nei grandi romanzi classici. Più radicalmente, si tratta del problema della costruzione filosofica come tale, che impedisce di sapere che c’è altro e, di conseguenza, non fa vedere la realtà per se stessa. Parlando di una certa posizione che considera rappresentativa della filosofia morale a lei contemporaea, Murdoch dice che non la soddisfa perché “essa ignora certi fatti, e dall’altro impone contemporaneamente un’unica teoria che non consente alcun tipo di comunicazione con le teorie rivali, né di trovare rifugio in esse” (“it ignores certain facts and at the same time imposes a single theory which admits of no communication with or escape into rival theories”).24 Lei non prenderà tuttavia la strada di quello che, a partire dagli anni Settanta, sarà chiamato il decostruzionismo. Prende invece la strada di render conto del fatto che il filosofo è un uomo comune, e che la filosofia costituisce un’attività che ha cose in comune con altre, fra cui in primis, che non può separare i fatti dalle valutazioni. La filosofia, secondo lei, ha da render conto dell’esperienza della persona ordinaria (anche il filosofo lo è), che vive in relazione con gli altri, che è capace di cambiare in meglio e talvolta ci riesce, mettendosi così in condizione di vedere le cose come sono e di sapere che gli altri esistono realmente.
Questo ci rimanda alle symbolic experiences della prima conferenza e al moral change del protagonista del primo romanzo. Fin dagli inizi, un tratto caratteristico della filosofia di Murdoch è stato il suo appellarsi all’esperienza così come gli esseri umani la vivono e la interpretano. Talvolta lo fa con singolare vivacità, come quando, arrestando l’esposizione della nozione comportamentistica della vita interiore, scrive: “A questo punto qualcuno potrebbe cominciare a protestare, a lamentarsi dicendo che è stato privato di qualcosa” (“This is the point at which people may begin to protest and cry out and say that something has been taken fromthem”).25
Fin dagli inizi, soprattutto, lei ha legato l’esperienza alla possibilità di diventare un’esperienza più ricca di significato. Ed è in questa possibilità che consiste il principio stesso della moralità, diversamente da quanto sostenuto dalle teorie della ‘scelta libera’.
Torniamo ancora una volta alla conferenza del 1952, verso la fine. Dopo aver citato la testimonianza di Rilke, riflettendo sull’esperienza simbolica, Murdoch scrive che gran parte della nostra esperienza è povera, ma ogni tanto avviene che essa sia ricca e significativa, più ricca di quella che può essere descritta da qualsiasi spiegazione verbale. E termina con l’espressione dello scontento che prova davanti alle moderne tecniche analitiche della filosofia che non considerano quel tipo di avvenimenti: “Sono tali avvenimenti (…) a dare all’idea di ‘esperienza immediata’ quella ricchezza inesauribile il cui abbandono suscita risentimento e inutili investigazioni” (“It is such happenings (…) that give to the idea of ‘immediate experience’ that inexhaustible richness the neglect of which prompts both resentment and vain investigation”).26 L’oratrice chiede che la filosofia si renda conto della ricchezza dell’esperienza, e lo chiede con parole che parlano del suo vissuto, dando lei stessa parole a quel sentire delle persone comuni che non si riconoscono nelle teorie filosofiche.
L’istanza alla quale si appella, contro la “arroganza” delle filosofie moderne (e postmoderne), in generale, non è dunque quella dell’esperienza genericamente e vuotamente intesa, bensì quella dell’esperienza così come si vive e si esprime nei contesti della vita pratica. La filosofia è chiamata a tenere e a rendere conto di un agire umano che non è un oggetto esclusivo della filosofia e che, anzi, si esplica al suo meglio nella condotta delle persone buone e nell’opera dei grandi artisti. Questi due ambiti dell’umano eccellono sul lavoro della filosofia per una ragione precisa: essi, a differenza di questa ultima, hanno un compito che s’iscrive in un orizzonte infinito, quello della perfezione. Sopra ho parlato di mobilità del pensiero, di “schivata”. La filosofia di Murdoch appare internamente movimentata dal riferimento ad una prospettiva che la arricchisce ma di cui non può appropriarsi.
Ma che cosa significa, dal punto di vista filosofico, “persona buona” e “grande artista” in una prospettiva di perfezione? Il mio discorso qui, non per la prima volta, si trova preso nella stretta di non poter rendere conto compiutamente di sé, pena finire in un circolo vizioso. In questa stretta lo mette il movimento proprio del pensiero di Murdoch, fra il dimostrare meno per mostrare di più, in una tensione che non è puramente dialettica poiché essa si risolve praticamente, in quanto esige una trasformazione di chi guarda, trasformazione che ha le caratteristiche di una lotta (la parola, struggle, è sua). Il principale campo di battaglia sono le parole del linguaggio comune. Ben presto, nel pensiero di Murdoch, compare e poi si consolida la certezza che la moralità non è conformità a una norma né obbedienza a un imperativo, bensì un orientamento immanente al linguaggio capace di agire in noi e di orientarci stabilmente. “Le parole costituiscono la struttura e la material prima del nostro essere morale” (“Words costitute the ultimate texture and stuff of our moral being”), “Le parole sono il luogo in cui viviamo come esseri umani e come agenti spirituali e morali” (“words are where we live as human beings and as moral and spiritual agents”).27
Nel folgorante incipit di una conferenza del 1966, On ‘God’ and ‘Good’, troviamo questa definizione: “Fare filosofia significa esplorare il proprio temperament andando allo stesso tempo alla ricerca della verità” (“To do philosophy is to explore one’s own temperament, and yet at the same time to attempt to discover the truth”).28
Le due direzioni che normalmente esploriamo come se fossero difformi o irrelate, procedono “at the same time” e sono bensì i due versi di un unico processo che dà luogo alla trasformazione di sé nel mondo e del mondo dentro di sé, in cui le parole sono, di volta in volta, la scoperta del possibile e il resoconto del reale.
Le parole dell’incipit evocano la grande scommessa di una vita. Tutto indica che, nella filosofia di Iris Murdoch, si tratta sempre anche di Iris Murdoch. Lei ha scelto (o è stata scelta da) il suo campo di battaglia: si tratta del lavoro dell’immaginazione creativa nella scrittura di romanzi. Non ho la competenza per esprimermi circa la validità della sua teoria della letteratura, ma è trasparente che questa teoria, come una sorta di resoconto vagliato criticamente, si basa sulla sua pratica di scrittrice di romanzi. La letteratura, afferma, “ci può offrire un nuovo vocabolario dell’esperienza e un’immagine più vera della libertà” (“can give us a new vocabulary of experience, and a truer picture of freedom”).29
Due temi spiccano in ciò che teorizza: la lotta tra fantasy e immaginazione da cui dipende il valore di verità dell’arte; la creazione di personaggi liberi che dà la misura all’arte del romanzo. L’immaginazione che lavora al suo meglio inventa, ossia scopre e crea, le possibilità reali di bene in questo mondo, sotto forma (nel caso del romanzo) di storie e di personaggi. Come noto, Murdoch preferisce il classico romanzo ottocentesco di tipo realistico e si presenta lei stessa come una romanziera di quel tipo. Lo era veramente? Non importa stabilirlo qui, quanto sottolineare il suo scopo, che è il valore normativo della “realtà” anche in campo morale e letterario. Inventare una storia realistica in cui il bene e il male si affrontano (Murdoch assume energicamente questo linguaggio, che le ispira forse Simone Weil), significa per l’artista, e si offre a tutti noi, come una possibilità di libertà e di conoscenza vera. Questo è, questo fa un capolavoro. Mi sento di poter affermare che capire questo punto equivale a capire la filosofia di Iris Murdoch.
In passato, quando cullavo l’idea di un “segreto di Iris Murdoch”, ho parlato di un’intuizione che sarebbe al fondo e al principio della sua filosofia, cercando di darne una formulazione: l’intuizione che la mediazione dell’esperienza è opera del pensiero internamente orientato dall’amore del bene, tale orientamento essendo immanente alla lingua stessa e specialmente presente nella letteratura.30 Oggi, se dovessi mettere in parole questa cosiddetta intuizione, parlerei più semplicemente del realismo della bontà, ossia della bontà che ci fa guadagnare in libertà e che, con la crescente libertà, ci fa vedere che gli altri esistono realmente e che le cose sono quelle che sono. Ma oggi ritengo che parlare di una “intuizione” non si accordi con certe caratteristiche della sua ricerca filosofica, in primo luogo l’importanza che hanno le parole nell’esperienza e nella trasformazione di sé.
È molto meglio, seguendo un suggerimento della stessa Murdoch, prestare attenzione al suo impegno per dire qualcosa che è comunemente presente ma gravato da una sorta d’incredulità e d’insostenibilità che lo sospinge verso l’illusione. Con una delle sue interruzioni rivelatrici, in un inciso per esplicitare quello che sta facendo, dice: “La filosofia consiste spesso nel trovare un contesto adatto in cui affermare l‘ovvio” (“Philosophy is often a matter of finding a suitable context in wich to say the obvious”).31 Di colpo, lei, memore della lezione di Wittgenstein, ci mette davanti la secondarietà della filosofia. Rispetto a che cosa? All’ovvio (strana parola che in certe lingue neanche esiste), cioè a tutto quello che non ha mai preteso di farsi valere con questo o quell’argomento, perché andava da sé e non aveva bisogno di argomenti, oggi forse sì che ne avrebbe bisogno, ma questo qualcosa che lei si propone di affermare in filosofia (che l’amore è centrale nelle vite di molti, che abbiamo il dovere di essere buoni senza secondo fini, che gli altri esistono realmente) è di natura tale che ogni argomento sarebbe di troppo, e perciò Iris Murdoch cerca di dargli non ragionamenti ma “a suitable context”.
Non si creda che il compito filosofico così delineato sia di poco conto. Si tratta di rendere dicibile e comunicabile la potenza simbolica della moralità per la quale Murdoch, con linguaggio che ha il dono di sorprendere, parla di “fabric of being”.32 Strane parole che sembrano uno sberleffo urbano-industriale rivolto al celebre “pastore dell’essere”, Heidegger, un pensatore che le era ostico ma tutt’altro che indifferente.
La metafora della fabbrica dell’essere compare in quell’esempio di M a D che fa da snodo narrativo ad un delicato passaggio teorico. L’idea è che non c’è esperienza senza parole e che le parole capaci di arricchire la nostra esperienza ci fanno vedere quello che non vedevamo, e ci fanno essere quello che non eravamo.
Ci troviamo davanti, in altri termini, al processo simbolico che Charles S. Peirce ha teorizzato chiamandolo semiosi e, più precisamente, alla sua grande scoperta della natura del segno, che egli chiama thirdness, ossia l’agire simbolico proprio del mondo umano.33 Abbiamo visto che Murdoch difende l’esperienza come luogo in cui principia a costituirsi il soggetto che ha la possibilità di essere libero, che è capace cioè di relazionarsi al mondo con la mediazione delle parole. Detto con un termine che non le appartiene, lei difende l’esperienza come luogo sorgivo della semiosi. Il termine non le appartiene ma l’idea è in nuce fin dalla prima conferenza. L’ulteriore grande idea di Murdoch è che l’opera dei segni, che formano la rete dei rapporti in cui esistiamo noi con gli altri, così come si esplica in ogni modalità della vita di questi stessi segni, dalla letteratura alla ricerca scientifica fino alla conversazione quotidiana, quando viene assunta come un lavoro consapevole, quando è una pratica di parola che libera dalla strettoia tra nevrosi e convenzioni, quest’opera impronta di sé la vita morale ed è positivamente sensibile all’orientamento del bene.
Chi conosce la semiotica di Peirce, sa che la sua teoria del segno e dell’efficacia propria del segno, sfocia in una teoria degli habits: il significato del segno, nel rilancio delle interpretazioni cui dà vita, in ciò consiste definitivamente: “La vera e vivente conclusione è quest’abito (…). L’abito deliberatamente formato, autoanalizzantesi perché formato con l’aiuto dell’analisi degli esercizi che lo hanno nutrito – è la definizione vivente, il vero e finale interpretante logico”.34 Per parte sua, Iris Murdoch dice che noi “agiamo nel modo giusto ‘quando viene il momento’ non grazie alla nostra forza di volontà, ma grazie alla qualità dei nostri abituali legami affettivi e all’energia e al discernimento di cui disponiamo” (“We act rightly ‘when the time comes’ not out of strenght of will but out of the quality of our usual attachments with the kind of energy and discernment which we have available”).35 Entrambi pensano coerentemente, che alla verità ci conduce un lungo percorso che ci coinvolge nell’interezza di quello che siamo, nella trama delle relazioni con gli altri.
Le rispondenze che scorgiamo, nella pur grande distanza, invitano a prolungare il confronto tra i due pensatori, dalla concezione normativa della realtà al riferimento all’eros platonico, ma, mettendo da parte la promettente indagine, qui facciamo riferimento a Peirce unicamente per illuminare il pensiero di Murdoch grazie al concetto di thirdness, che vuol dire concettualizzare quella dimensione di essere che si arricchisce con l’arricchirsi dell’esperienza e fa mondo, grazie all’agire simbolico che trasforma noi nel mondo, il mondo in noi.36
Gli studiosi hanno sottolineato che l’immaginazione sia filosofica sia letteraria di Murdoch lavora volentieri con coppie di concetti o di personaggi, e che questa struttura duale non approda ad una sintesi.37 Ogni terzità parrebbe esclusa, ma, ad un più attenta considerazione, credo che possiamo parlare di una terzità senza sintesi – il che è coerente anche con la stessa semiotica di Peirce. La mancanza di una sintesi unitaria, nella visione e nell’opera di Murdoch, non condanna il soggetto ad andare in pezzi né a restare in un’ambiguità irrisolta. Un esempio (un’icona, direbbe Peirce) di ciò lo dà la trama di Under the Net, il più filosofico dei suoi romanzi, secondo Antonia Byatt.38 Il rigetto di ciò che non ha una ragione e che non si lascia inquadrare (che sfugge alla “rete”), caratterizza la personalità del nevrotico Jake – “I hate contingency”, dice all’inizio del secondo capitolo – e ciò lo mette in un contrasto senza soluzione ma non senza frutti, con Hugo, un industriale di successo che insegue il qui e ora della realtà individua. I due potrebbero incarnare due filosofie ma non si può ridurli a ciò, perché Jake ammira Hugo e quest’ammirazione lo trasforma in un altro, che non è la sintesi dei due.
Ricordiamo che, negli inizi filosofici di Murdoch, c’è anche la lettura dei Cahiers di Simone Weil, il cui pensiero fu accolto da lei in maniera profonda e duratura.39 Dalla filosofa francese e dalla storia del suo secolo, Murdoch ha appreso quello che Hegel non ha visto né previsto, e cioè che la volontà di superare la dualità per arrivare alla sintesi sfocia catastroficamente nel trionfo della forza e nell’irrealtà. La dualità che non si risolve in alcuna sintesi è centrale nel pensiero weiliano. La compresenza dei contrari è lacerante ma insormontabile in questo mondo, pena una semplificazione che distoglie l’anima dal bene, insegna Simone Weil. La sofferenza del laceramento in due non è affatto sterile, se impariamo la pratica delle virtù incompatibili fra loro: “L’existence simultanée des vertus incompatibles dans l’âme est la condition de la stabilité à travers les accidents de la vie sans invulnérabilité”, scrive la filosofa francese e porta il controesempio del comunista che, dedicandosi al servizio della giustizia, perde l’amore della giustizia.40
La dualità che caratterizza l’opera di Murdoch nel suo insieme e che ritroviamo all’opera, come una struttura della sua immaginazione, sia nella ricerca filosofica sia nell’invenzione letteraria, ci introduce, io penso e invito a pensare, nella terzità senza sintesi, analogamente a come la concepisce Peirce, ma spiritualmente incurvata dal platonismo di Simone Weil. Vale a dire che mette la persona singola, ciascuno di noi in carne ed ossa, al posto della sintesi, noi disposti a patire e a cambiare, per aprire così un passaggio alla realtà del reale, senza che disponiamo di una visione d’insieme. Ciò nulla ha a che vedere con l’immersione nel mondo reale, di cui si è detto sopra. Al contrario, è lo spostamento che ci fa guadagnare il senso della realtà liberandoci dalla dualità reattiva e speculare.
Questa terzità che non è una sintesi, ci offre, di volta in volta, “se cerchiamo di fare ciò che è meglio” (“if we seek for what is best”), una duplice rivelazione, ossia la comprensione del “detail of the world” insieme a un’intuizione di unità.41 Non c’è fine a questo processo, così come non c’è limite alla semiosi: processo illimitato ma internamente orientato. Peirce afferma che siamo destinati alla verità e spiega come (il suo ‘pragmaticismo’ è questa spiegazione), Murdoch parla di perfezione e la sua filosofia è il contesto speculativo che ci spiega il senso di questa parola e di questa prospettiva. Bisogna seguirla fino in fondo, intendo fino al punto in cui traduce questa prospettiva in un utilitarismo di nuovo tipo, che farebbe della pratica della virtù un bene primario sullo stesso piano del cibo, della casa, di una vita senza paura.42 Lo dice in un contesto di riflessione politica e in alternativa ad altre vedute, quella degli esistenzialisti per cui conta la libertà, quella dei mistici che danno valore allo spirito, e alla sua stessa veduta che è antiutilitaristica, tant’è che parla di una specie di un doppio salto mortale. Lo dice per significare quello che è essenziale nel qui e ora, e per dare alla realtà del qui e ora l’autorità che le appartiene.
“La realtà è incompleta”, afferma Murdoch in un testo del 1961, precisando che è su questo terreno del “rispetto” per l’incompletezza e la contingenza, che l’immaginazione è in lotta con la fantasy per dire la verità di quello che è, di quello che siamo.43
Su questo snodo, ancora una volta ci viene in aiuto un suo testo narrativo, il racconto Something Special, a riprova che la filosofia di Murdoch è, per certi aspetti, il resoconto speculativo della sua pratica di scrittrice di fiction. È questo l’unico racconto da lei pubblicato (nel 1957), un vero gioiello, notevole anche per un altro motivo, che in esso l’autrice, a differenza che nei romanzi, non è onnisciente e conosce i suoi personaggi unicamente per quello che manifestano con le parole, i gesti e i comportamenti. La protagonista, Yvonne, una giovane donna di modesta condizione sociale, non rassegnata a vivere una vita mediocre, corteggiata da un giovanotto che l’ama e piace alla famiglia di lei, ma non è il principe azzurro, passa una serata con lui, durante la quale succedono cose non banali nessuna delle quali, però, sembra avere il potere di rovesciare la situazione; nottetempo, rientrata a casa, dopo una sosta di quindici minuti nel buio, che cosa pensi non sappiamo, Yvonne informa sua madre che sì, lo sposerà, e piange senza farsi sentire.44 L’esito è chiaro, ma il comportamento di Yvonne non lo è e il significato del racconto resta in bilico: perché lei si è risolta a sposare Sam? Perché piange? La chiave sembra essere in quello che ha pensato in quei quindici minuti (“She had never stood still for so long in her whole life”). Abbiamo un indizio, sono le poche parole, “It’s a sad thing”, con cui Yvonne risponde alla madre desiderosa di spiegazioni, e che si collegano ad uno strano episodio della serata. Non basta però a darci un punto di vista esauriente che ci tenga fuori dalla storia, e rischiamo di caderci dentro, nel senso di volerla completare.
La recente edizione italiana del racconto, Una cosa speciale, porta in appendice due commenti.45 Uno dice, in sostanza: Yvonne ha trovato la sua strada, piange per il dolore di congedarsi dal sogno d’amore e affronta la realtà. L’altro dice: per Iris Murdoch l’amore è la più pericolosa delle illusioni, l’umanità non è libera, abbiamo momenti di lucidità che ci fanno soffrire ma bisogna tornare a una vita che ha bisogno d’illusioni. Il primo commento satura l’incompletezza con una veduta progressista, il secondo la assolutizza (la satura) con una conclusione nichilista. Nessuno dei due, questo è il punto, sopporta il dolore di un’anima divisa in due, per dirlo con parole di Simone Weil. D’altra parte, impossibile non prendere posizione da parte di chi ha letto il racconto, lo reclama il racconto stesso con la sua “incompletezza”. Che è l’incompletezza stessa della realtà. Ma la posizione che ci viene chiesto di prendere, non è di completarlo: è di metterci in carne e ossa, disposti a patire e a cambiare, nel luogo delle possibilità reali di libertà e di felicità che restano (o si aprono) a Yvonne.
Ad Iris Murdoch oggi si richiamano più correnti di pensiero, etichettate come cognitivismo, comunitarismo, etica delle virtù, riabilitazione della filosofia pratica, svolta letteraria dell’etica, così come a lei si riferiscono alcuni filosofi realisti e metafisici.46 Vedo il fondamento di questi richiami a lei, ma vedo anche la tentazione che può esserci di “completarla”, che sarebbe uguale a misconoscere gravemente la sua originalità filosofica, per le ragioni che a questo punto dovrebbero essere chiare. D’altronde, alla condizione di non operare completamenti indebiti, è certamente bene, oltre che normale, che si avvicini l’opera di Iris Murdoch per le strade che si percorrono nella propria ricerca personale; io stessa, per esempio, vedo in lei una pensatrice che ha lavorato in profondità per dare un adeguato contesto filosofico a quell’ovvio che è dire “le donne esistono e io sono una di loro”, contro l’arroganza filosofica del pensiero postmoderno.47 Ma, in questa stessa direzione, è meglio ancora, secondo me, che la leggiamo rinunciando ad ogni caratterizzazione dentro il panorama filosofico, per capire quello che di radicalmente nuovo accade, con lei, nella storia della filosofia, che è la capacità di distaccarsi dalla filosofia, a causa della filosofia, per obbedire alla realtà.
NOTE
1 Questo testo è apparso, in traduzione inglese e con il titolo: Conclusion: A Meditation in Swerves, nel volume: M.F.S. ROBERTS – A. SCOTT-BAUMANN (eds.), Iris Murdoch and the Moral Imagination, McFarland & Company, Jefferson (North Carolina) and London 2010, pp. 237-249.
2 Cfr. I. MURDOCH, Sotto la rete (1954), trad. it. di A. Micchettoni, Garzanti, Milano 1966.
3 Cfr. I. MURDOCH, Nostalgia del particolare, in: Ead., Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, a cura di P. Conradi, tr. it. di E. Costantino et al., Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 74-87; edizione originale: Existentialists and Mystics. Writings on Philosophy and Literature, Allen Lane-Penguin, London 1998. D’ora in poi, questa raccolta di molti dei più importanti scritti filosofici di Murdoch sarà abbreviata con la sigla: EM, a cui seguirà l’indicazione delle pagine dell’edizione italiana e, tra parentesi, dell’edizione inglese.
4 Wahrheit und Methode, l’opera maggiore del fondatore dell’ermeneutica filosofica, un pensatore che a Iris Murdoch era molto probabilmente sconosciuto, apparirà nel 1960: cfr. H.G. GADAMER, Verità e metodo (1960, 1972), trad. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1994. A mia conoscenza non esistono studi sul rapporto fra l’esperienza ermeneutica di Gadamer e l’esperienza simbolica di Murdoch.
5 Cfr. C. BAGNOLI, Realism as a Moral Achievement, in: M. Ricciardi (ed.), The Philosophy of Iris Murdoch, “Notizie di Politeia”, 66 (2002), pp. 51-63. Va registrato, comunque, che dal 2002 ad oggi la situazione è in parte cambiata.
6 I. MURDOCH, Su “Dio” e il “Bene” (On “God” and “Good”), in: EM, p. 357 (pp. 359-360).
7 Il mio riferimento principale su questo tema è: M. PORETE, Lo specchio delle anime semplici, a cura di R. Guarnieri, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2010.
8 I. MURDOCH, L’idea di perfezione (The Idea of Perfection), in: EM, p. 301 (pp. 299).
9 I. MURDOCH, Il sublime e il buono (The Sublime and the Good), in: EM, pp. 224-225 (p. 215).
10 “My point will be that Murdoch’s change of activity should be seen as theoretically motivated, and was in fact a development of her philosophical work”, scrive M. RICCIARDI, Philosophy, Literature , and Life, in: Ricciardi (ed.), The Philosophy of Iris Murdoch, p. 5.
11 Cfr. P. CONRADI, Iris Murdoch. A Life, Harper Collins, London 2001.
12 I. MURDOCH, Letteratura e filosofia: una conversazione con Bryan Magee (Literature and Philosophy: a conversation with Bryan Magee), in: EM, pp. 44, 53 (pp. 10-11, 21).
13 Cfr. A.S. BYATT, Degrees of Freedom. The Early Novels of Iris Murdoch, Vintage, London 1994, p. 207.
14 “La filosofia fa una sola cosa, la letteratura ne fa molte (…). Ci rende felici, per esempio. Ci mostra il mondo” (“Philosophy does one thing, literature does many things (…). It makes us happy, for instance. It shows us the world”), Letteratura e filosofia, in: EM, p. 45 (p. 12).
15 MURDOCH, L’idea di perfezione, in: EM, p. 332 (p. 332).
16 Cfr. BYATT, Degrees of Freedom. The Early Novels of Iris Murdoch.
17 Cfr. I. MURDOCH, Esistenzialisti e mistici (Existentialists and Mystics), in: EM, pp. 237, 241 (pp. 229, 233).
18 Cfr. I. MURDOCH, Il sublime e il bello rivisitati, in: EM, pp. 267-289 (pp. 261-286).
19 Cfr. MURDOCH, L’idea di perfezione, in: EM, pp. 313- 332 (pp. 312-332).
20 MURDOCH, Nostalgia del particolare, in: EM, p. 75 (p. 44). La sottolineatura è mia.
21 M. WARNOCK, Introduction, in: Ead. (ed.), Women Philosophers, Dent, London 1996, p. xliii.
22 Cfr. I. MURDOCH, Sartre. Romantic rationalist, Yale University Press, New Haven 1953.
23 Si veda la Editor’s Preface di P. CONRADI nell’edizione originale di EM, p. xxix, da cui risulta che Murdoch imputa la medesima arroganza allo strutturalismo di cui ha potuto vedere gli sviluppi che, sotto il nome di ‘poststrutturalismo’, cominciava ad avere nei paesi di lingua inglese negli anni Settanta.
24 MURDOCH, L’idea di perfezione, in: EM, p. 301 (p. 299). In queste pagine, Murdoch si concentra in particolare sul discorso di S. Hampshire.
25 MURDOCH, L’idea di perfezione, in: EM, p. 310 (p. 309).
26 MURDOCH, Nostalgia del particolare, in: EM, p. 87 (p. 58).
27 MURDOCH, La salvezza che viene dalle parole (Salvation by Words), in: EM, pp. 248, 249 (pp. 241, 242).
28 MURDOCH, Su ‘Dio’ e il ‘Bene’, in: EM, p. 336 (p. 337).
29 I. MURDOCH, Contro l’ardità (Against Dryness), in: EM, p. 297 (p. 295).
30 Cfr. L. MURARO, Introduzione, in: EM, pp. 9-25, in particolare p. 20.
31 MURDOCH, The Idea of Perfection, in: EM, p. 326 (p. 326).
32 Ibid., pp. 317, 323, 326 (pp. 316, 323, 326). Questa formula (una metafora, la chiama Murdoch) non compare in altri testi. Seguo volentieri la traduzione italiana proposta da Egle Costantino, Monica Fiorini, Fabrizio Elefante, che parla di “fabbrica dell’essere”; segnalo tuttavia che la metafora della fabric inglese si può rendere in italiano con quella del “tessuto”.
33 Peirce non è mai citato da I. M. In una lettera a Lady Welby, Peirce spiega che “Thirdness is the triadic relation existing between a sign, its object, and the interpreting thought, itself a sign” e che la funzione essenziale di un segno (che è la quintessenza della terzità) è di rendere efficient relazioni che altrimenti sarebbero spente, ma non nel senso di provocare direttamente all’azione, ossia non restando nella dimensione reattiva, bensì nel senso di stabilire “a habit or general rule whereby they will act on occasion”; C.S. PEIRCE, Selected Writings (Values in a Universe of Chance), Edited with an Introduction and Notes by Philip P. Wiener, Dover Publications, New York 1958, pp. 389-390.
34 C.S. PEIRCE, Semiotica. I fondamenti della semiotica cognitiva, trad. it. di M.A. Bonfantini – L. Grassi – R. Grazia, Einaudi, Torino 1980, pp. 306-307. (Collected Papers 5. 491).
35 I. MURDOCH, La sovranità del Bene sugli altri concetti (The Sovereignity of Good over Other Concepts), in: EAD., EM, p. 371 (p. 375).
36 Questa prospettiva si affaccia chiaramente nella celebre definizione del segno che dà Peirce: “La mediazione genuina è il carattere di un Segno. Un Segno è qualsiasi cosa riferita a una Seconda cosa, il suo Oggetto, (…) in modo tale da portare una Terza cosa, il suo Interpretante, in rapporto con lo stesso Oggetto”, definizione che si completa con l’altra geniale scoperta di Peirce, che l’interpretante è a sua volta un segno, e così “ad infinitum” ed è in questa progressione di una semiosi illimitata, che si costituisce il soggetto; cfr. PEIRCE, Semiotica. I fondamenti della semiotica cognitiva, p. 102. (Collected Papers, 2. 92 e passim).
37 Cfr. M. ANTONACCIO, Picturing the Human: The Moral Thought of Iris Murdoch, Oxford University Press, New York 2003, pp. 22-24.
38 Cfr. BYATT, Degrees of Freedom. The Early Novels of Iris Murdoch, p. 38. Si noti che Byatt fa questa osservazione in un senso deteriore, in base a criteri desunti dalla stessa Murdoch. Avrei comunque potuto trovare altri esempi più convenienti, tuttavia avrebbero richiesto un’analisi più lunga.
39 Per ulteriori riferimenti su questo punto, cfr. MURARO, Introduzione, in: EM, pp. 18-19.
40 Cfr. S. WEIL, Oeuvres Complètes, Tome VI, Cahiers (février-juin 1942), Gallimard, Paris 2002, p. 68 (“L’esistenza simultanea nell’anima di virtù incompatibili è la condizione per la stabilità attraverso gli accidenti della vita senza invulnerabilità”).
41 MURDOCH, La sovranità del Bene sugli altri concetti, in: EM, p. 374 (p. 379).
42 MURDOCH, Esistenzialisti e mistici, in: EM, pp. 238-241 (pp. 230-233).
43 MURDOCH, Contro l’ardità, in: EM, p. 297 (pp. 294-295).
44 Cfr. I. MURDOCH, Something Special, Chatto & Windus, London 1957.
45 Cfr. I. MURDOCH, Una cosa speciale, trad. it. di E. Dal Pra, Nottetempo, Roma 2006. Il commento che chiamerò ‘progressista’ è firmato da me; quello che chiamerò ‘nichilista’, da Joyce Carol Oates.
46 Cfr. ANTONACCIO, Picturing the Human: The Moral Thought of Iris Murdoch, pp. 3-16, 165- 194.
47 Per la strada che Iris Murdoch mi ha aperto, nell’XI Simposio dell’associazione internazionale delle filosofe (IAPH), tenutosi a Roma nel 2006, sono tornata alla filosofia voltando le spalle a certe futilità filosofiche; cfr. L. MURARO, In realtà, in A. Buttarelli – F. Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 19-27.
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