Stefano Cammelli: I giovani, Hong Kong e l’inno nazionale cinese
Manifestazione allo stadio di Hong Kong
Diffondiamo da polonews.info del 4 novembre 2017
A Hong Kong è successo più volte negli ultimi due anni. E deve intendersi come manifestazione secondaria del più complesso fenomeno che è stato definito occupy central ovvero la rivoluzione o manifestazione degli ombrelli. In occasioni di importanti manifestazioni sportive, in particolare in occasione di partite di calcio, una parte dei giovani presenti allo stadio ha manifestato la propria opposizione a Pechino voltandosi dall’altra parte, o – assai più clamorosamente – manifestando il proprio disappunto con un lungo e irrispettoso boooo.
C’è un problema istituzionale, forse grave, forse no, comunque agli occhi di uno straniero nel complesso irrilevante: fino a che dura lo stato speciale di Hong Kong l’inno della Cina deve intendersi come inno anche di Hong Kong? Le autorità cinesi stanno intervenendo su questo e tra poco una qualunque offesa all’inno nazionale cinese sarà considerata come manifestazione non tollerata e, stando per lo meno al progetto in discussione, punibile con la prigione, fino a un massimo di tre anni.
E c’è un problema di sostanza, che certamente non è sfuggito a Pechino e che non sarà mai sottolineato abbastanza in queste pagine. Nel 1997, quando si realizzò il ritorno alla Cina di Hong Kong, gran parte della popolazione era in festa, molti in lacrime. Era la fine di un umiliante condizione coloniale vissuta dalla Cina tutta e dagli abitanti di Hong Kong come un retaggio doloroso di un passato da dimenticare. In poco meno di vent’anni la situazione pare essersi drasticamente ribaltata presso i giovani. La Cina viene vissuta da molti come un paese occupante, Hong Kong viene desiderata indipendente, o molto autonoma. E non per qualche anno ancora. Sembrerebbe un fallimento della politica cinese a Hong Kong, e forse lo è. Ma il rischio – assai più grave – è quello di non comprendere che quanto accaduto a Hong Kong è solo la spia di qualcosa che sta coinvolgendo i giovani delle città cinesi, quasi tutti coloro che sono nati dopo il 1980 e che dunque, oggi, tanto giovani non sono più. La potente accelerazione della crescita economica nelle grandi città cinesi ha contribuito a creare un mondo giovanile benestante, talora ricco. Molti di questi giovani hanno studiato all’estero, parlano decentemente almeno una lingua straniera. Hanno amici in tutto il mondo, sentiti vicini – per quello che può contare – con le mille forme di comunicazione che gli attuali media rendono possibile. Questo forte sbilanciamento verso l’esterno ha creato nuove abitudini, nuove usanze. Non si insegue una Cina più democratica, non si invidia quasi nulla del sistema politico occidentale: sbaglia chi crede che un giovane che ha studiato in Italia o in UK o in USA torni in Cina ammirando il nostro sistema politico. Ai più non importa nulla. In molti, offesi dal razzismo sempre meno strisciante della nostra popolazione e delle nostre nazioni, è cresciuto un forte sentimento nazionalistico. Un forte senso di appartenenza.
Tuttavia l’immersione nel benessere, nell’Occidente, nel futuro che si respira a ogni angolo nelle città cinesi ha creato insofferenza verso il passato, l’interno della Cina, le condizioni spesso miserevoli delle campagne. Questa gioventù cinese non ammira il nostro mondo, ma è orgogliosa di vivere in un presente tutto proiettato verso il domani. Sempre più spesso rifiuta il peso opprimente di un paese che è cresciuto ma non così tanto. Davanti all’immensità dello sforzo che ancora attende la Cina (diverse decine di milioni di persone al di sotto della soglia della povertà, indicata in genere in 50 dollari al mese) è scattato in molti di questi giovani il rifiuto. Rifiuto di farsi carico dei problemi dello sviluppo, rifiuto di dovere lavorare per mantenere regioni arretratissime del paese. Rifiuto per il dialetto, per la povertà, la sporcizia, talora la volgarità dei villaggi rurali da cui le loro famiglie hanno mosso non molti anni fa per cercare fortuna. Quando i giovani di Hong Kong fanno booo all’inno nazionale cinese più che un rifiuto della Cina e del suo sistema politico (e per qualcuno indubbiamente è così) c’è il rifiuto per un benessere che non cresce, un futuro che tarda ad arrivare perché anche su HK, come su tutta la Cina, grava il peso di un fardello enorme, al cui confronto quello del nostro mezzogiorno è irrilevante. La Cina si è spaccata, lo si vede con chiarezza. E una parte di coloro che sono andati più avanti non ha nessuna voglia di attendere che anche il resto del paese cresca e diventi meno povero. Il problema di Hong Kong e della sua appartenenza alla Cina è quasi minore rispetto a questa frattura che, se non saldata in fretta, corre il rischio di compromettere la stessa unità nazionale. Da qui la forte enfasi data da Xi Jinping sulla necessità di risolvere una volta per tutte nei prossimi dieci anni il problema della povertà. Scommessa molto impegnativa, difficile, ma da vincere.
Su questo tema vedi Stefano Cammelli, Com’era verde la mia valle in STORIE DI UOMINI E DI FIUMI, Il Mulino, 2016.
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