Dario Tota: In Svezia i Confucio non piacciono più?
Smarrita fra la neve dell’inverno svedese, la statua del Filosofo guarda l’ingresso del Konfuciusinstitutet dell’Università di Stoccolma, il primo aperto in Europa, dieci anni or sono. Qualche giorno fa proprio l’Università ha annunciato che il Confucio della capitale verrà chiuso nel giugno prossimo.
Gli Istituti Confucio (CI) sono da tempo oggetto di critiche, qui e altrove: istituzioni “tanto illustri quanto controverse”, perché si insediano nelle accademie di mezzo mondo, ma sono finanziate dal governo cinese, facendo così fiorire fra giornalisti e ambienti universitari metafore come “malware accademico” e ”drago di Troia”.
I CI hanno il fine di facilitare scambi tra paesi diversi, nonché lo studio della lingua e della cultura cinese, contribuendo a questi obiettivi anche economicamente. A molti però, la chiusura appare sacrosanta per difendere il principio della libertà accademica. Eppure i conti non tornano, e il passo indietro di Stoccolma apre la porta a tante più domande, mentre lo spettro di un antico dilemma si svela.
Perché ora? Perché la stessa rettrice dell’università che, soltanto l’anno scorso, difendeva a spada tratta sul suo blog il CI – garantendo che controlli esterni ad hoc avevano dimostrato infondato ogni sospetto – ora dichiara che, sebbene la libertà accademica sia stata rispettata, sebbene dieci anni di collaborazione rappresentino “un’esperienza solo positiva”, si chiude bottega per una mera questione di principio? Cosa fa risvegliare la coscienza di quegli ovvi principi soltanto oggi, dopo dieci anni di silenzio?
“La situazione è diversa da quella del 2005, lo scambio accademico oggi è di tutt’altro ordine”, sostiene la rettrice. Insomma, non ci sarebbe più bisogno del ricco ospite la cui generosità è pari all’inopportunità.
La decisione di Stoccolma è in linea con quanto avviene in ambienti universitari canadesi,americani ed europei. È possibile che uno dei motivi della reazione occidentale vada ricercato nel grave incidente occorso nell’agosto scorso in Portogallo, durante una conferenza della “European Association for Chinese Studies”. Xu Lin, direttrice del ministero di Pechino che governa i CI nel mondo, aveva fatto ritirare, o censurare, il materiale di presentazione distribuito ai partecipanti. La vicenda era sfociata in uno scandalo a cui non si è ancora posto rimedio.
Può questo fatto giustificare le decisioni quasi simultanee prese da diverse università del mondo? Questa spiegazione può apparire verosimile, ma non è sufficiente.
Era prevedibile fin dall’inizio che la natura politica dei CI potesse innescare conflitti con il mondo accademico occidentale. L’affaire Xu Lin e altre vicende potrebbero essere viste alla luce di un’incapacità, da parte di una burocrate di partito, di quell’azione pragmatica che la logica dell’offensiva di soft power cinese invece richiede.
Ma se vedessimo gli avvenimenti come il risultato della mancanza di tatto della dirigente cinese, potremmo poi davvero comprendere la fine di dieci anni di relazioni, fondi, progetti internazionali, successi? Perché il soft power cinese inizia a fare cilecca solo a partire dal 2014? A Pechino queste domande sono già ben note.
È possibile che la dirigente Xu Lin poggi su un potente lignaggio di partito e che quindi resti attaccata alla poltrona. Oppure può darsi che invece Xu Lin andrebbe rimossa, affinché qualcun altro dotato di maggiore tatto provi a reinventare l’immagine della Cina attraverso le centinaia di CI sparsi nel mondo; ma quella necessaria rimozione non si può fare se lo scandalo e le durissime accuse di censura e bullismo hanno imposto alla direttrice Xu Lin, e quindi a tutto ciò che lei rappresenta, di non perdere la faccia e procedere a muso duro. Non si può, non ora almeno.
Qui a Stoccolma il presidente del CI si chiama Torbjörn Lodén ed è proprio lui a cercare delle spiegazioni. Il professor Lodén ha più volte affermato l’importanza del CI per lo sviluppo di scambi benefici per tutti. Nega ogni tentativo di influenza impropria da parte cinese; lui stesso si è espresso più volte liberamente riguardo al regime della Repubblica Popolare, scrivendo fra l’altro un pubblico elogio al premio Nobel per Liu Xiaobo. Dall’archivio dell’istituzione di sinologia dell’università di Stoccolma si legge di conferenze sull’assimilazione degli uiguri, nonché sulla setta proibita Falun Gong. L’istituzione è stata peraltro ultimamente premiata per la sua qualità. Qui, come altrove, si sarebbe potuto valutare l’opportunità di mantenere il CI: a seconda dei casi, visto che non c’erano vincoli e il contratto poteva essere interrotto al primo intoppo, si sarebbero potuti negoziare altri termini di collaborazione. E invece no.
Il professor Lodén ritiene che un improbabile isolamento della Repubblica popolare comporterebbe solo un vantaggio per le forze più conservatrici all’interno del Partito comunista cinese. Poi “quando valigie piene di soldi dalla Cina arrivano qui da noi, allora non è dei dissidenti in prigione che si parla”. Bisogna certamente condannare l’oppressione dei diritti e delle libertà, scrive l’insigne sinologo in un suo libro del 2012. Ma al tempo stesso occorre evitare “un fondamentalismo liberale che ritiene possibile il dialogo soltanto fra chi già abbraccia le fondamentali idee liberali e democratiche. Una impostazione di questo genere fa sì che siamo proprio noi quelli che limitano un libero scambio di idee”.
La diffidenza nei confronti dei CI, ora presenti in altre tre università svedesi, è spesso viziata da pregiudizi, dal secolare discorso che fa della Cina ”il pericolo giallo”. Lodén ribadisce in un articolo: ”Sono convinto piuttosto che l’Istituto Confucio contribuisca, sia pure modestamente, all’integrazione della Cina nel mondo, il che a sua volta contribuisce allo sviluppo verso una società più aperta e non al rafforzamento dell’oppressione in Cina”. La sua è una equilibrata risposta ad un antico dilemma, una risposta della sinologia classica, da gesuiti euclidei.
Tali opinioni equilibrate tendono a eclissarsi nei dibattiti scandinavi di questi anni. Qui nel Nord è di grande attualità un claustrofobico discorso sulla libertà di espressione che accompagna rigurgiti di voci xenofobe, in politica e nei media. Recentemente, ad esempio , sono state ritirate tutte le copie della rivista della compagnia aerea SAS, che aveva pubblicato un articolo sui movimenti di estrema destra della Scandinavia tra cui spiccava anche il dirigente del partito di destra populista norvegese, ora ministro a Oslo. Insomma: l’articolo è stato censurato perché la SAS è in parte di proprietà statale. La vicenda però non ha destato lo scandalo atteso: perciò, alla luce di questo e altri fatti, “la libertà di espressione” appare come un travestimento raffazzonato di un’arma ipocrita nelle mani di chi vuole condannare qualche cultura orientale, quando conviene, giammai altrimenti.
Ma, se Lodén avesse ragione, perché dunque questo “fondamentalismo liberale” conviene proprio ora? Forse perché Xu Lin non ha tatto e il confronto fra culture fa inceppare le rispettive posizioni. Forse ormai l’istituto Confucio non serve semplicemente più, come dice la rettrice. O forse alcuni assetti di potere stanno davvero cambiando nel mondo, e spesso, quando è così, nel complesso mondo della diplomazia non è stagione di colombe, bensì tempo di falchi; in tal caso Xu Lin sarebbe invero la persona giusta al posto giusto.
Ed ecco risvegliarsi dal letargo d’un decennio il marmoreo principio della libertà accademica. E via così: in un articolo sul principale quotidiano svedese del 3 gennaio 2015, c’è stato chi, condannando Xu Lin, auspicava la chiusura degli altri CI: “Quali altri regimi dittatoriali dovrebbero ricevere l’aiuto delle università svedesi per abbellire la propria facciata?”
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