Chiara Ghidini, Paolo Scarpi: Il futuro di una storia. A proposito di “La Cina al centro” di Maurizio Scarpari
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Il futuro di una storia.
A proposito di La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale (il Mulino, Bologna 2023) di Maurizio Scarpari
Conversazione tra Chiara Ghidini e Paolo Scarpi
P.S.: Maurizio Scarpari chiudeva nel 2015 il suo Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato (il Mulino) ― Chiara Ghidini e io ne abbiamo parlato su questa rivista ― con la speranza che il recupero del confucianesimo classico, del suo umanesimo, aprissero la strada a un’etica fondata sull’uomo, che non si esprimesse soltanto attraverso il linguaggio dell’economia ma sapesse usare e applicare anche quello della solidarietà, tesa a dare spazio al talento e al merito, sconfiggendo la corruzione e lo strapotere delle caste. E forse, non dichiarata, vi era pure la speranza che quel rinnovato umanesimo asiatico si diffondesse ad abbracciare l’intero globo, magari non subito, anche a piccole tappe. Eppure, quell’aspettativa, utopica di fatto, come riconosce oggi Scarpari (p. 17), “quella speranza era destinata a venir delusa”. Non casuale, perciò, si rivela l’inquietante sottotitolo dell’Introduzione, “Venti di guerra” (p. 7), dove in poche pagine sono narrati tanto sinteticamente quanto efficacemente gli eventi che hanno condotto allo scoppio della guerra della Federazione russa contro l’Ucraina, quella che Putin ha chiamato “missione militare speciale”. E giustamente Scarpari si chiede se “non sarebbe stato più coerente con i valori tradizionali e con le legittime aspirazioni della Cina porsi come nazione responsabile garante della pace ed esporsi fin dall’inizio del conflitto, proponendosi nel ruolo concreto di mediatore, correndo anche il rischio di un insuccesso” (p. 15). Invece altri interessi “geopolitici e geoeconomici”, ma forse soprattutto il “timore di ‘perdere la faccia’ in caso di un fallimento” hanno spinto il governo cinese e Xi Jinping in altra direzione. Così il suo Presidente e la Cina hanno perso l’occasione di mostrare la sincerità della loro “aspirazione di ‘creare una comunità umana dal destino / futuro condiviso’ incentrata su armonia e pace”. E francamente non ho dubbi nell’associarmi al quesito inquietante che pone Scarpari alla fine di questa sua introduzione, quando chiede perché mai la Cina continui a incoraggiare e sostenere la Russia di Putin, che sta destabilizzando l’attuale assetto mondiale spingendolo verso un disordine globale, con la minaccia continua di una guerra nucleare se non di una terza guerra mondiale, a cui sta pure contribuendo il conflitto israelo-palestinese, con le sue crudeltà e violenze.
C.G.: Il titolo del libro di Maurizio Scarpari richiama inevitabilmente Asia al centro di Franco Mazzei e Vittorio Volpi (prima ed. 2006), un’opera che analizza le specificità delle potenze asiatiche attraverso un approccio centrato sulla geopolitica, sugli effetti dell’interdipendenza economica derivante (o imposta) dalla globalizzazione e, soprattutto, sulle peculiarità culturali intese come pilastri dell’identità politica delle nazioni. Tuttavia, al di là dell’assonanza nel titolo, il volume di Scarpari si distingue, non solo per il suo focus specifico sulla Cina, ma anche per il tono che lo caratterizza. È un’opera in cui, come hai già sottolineato, emerge una certa amarezza di fondo, che appare estendersi ben oltre il Paese al quale l’autore ha dedicato gran parte della sua attività di ricerca.
A proposito di “venti”, nel discorso di fine anno, Xi Jinping ha sentenziato che “lungo il cammino, è inevitabile incontrare venti contrari”. In quell’occasione, il Presidente ha celebrato un “ritorno alla vita” dopo i difficili anni del Covid 19, sottolineando una serie di obiettivi economici raggiunti o in fase di raggiungimento: la crescita della Nuova Area di Xiong’an, la vitalità della Cintura economica del Fiume Yangze e la Grande baia Guangdong-Hong Kong-Macao. Ha evidenziato poi il successo di mercato dei prodotti cinesi, tra cui i nuovi smart phone, ma anche lo sviluppo dell’industria cinematografica, i successi sportivi e l’incremento di stili di vita a bassa emissione di carbonio. Ma Xi ha anche guardato al passato, allo splendore millenario che rappresenta per lui la forza motrice del presente, menzionando le scoperte nei siti archeologici di Liangzhu ed Erlitou, e i tesori culturali del sito di Sanxingdui. Dopo aver sottolineato il bisogno di migliorare la qualità di vita del popolo cinese (“I nostri bambini devono essere ben curati e ricevere una buona educazione; i nostri giovani devono avere opportunità per perseguire le loro carriere e avere successo; i nostri anziani devono avere un adeguato accesso ai servizi medici e all’assistenza per gli anziani), Xi ha affrontato la questione dei conflitti in atto nel mondo, ergendosi a paladino della pace universale: “Noi cinesi siamo profondamente consapevoli di cosa significhi la pace. Lavoreremo a stretto contatto con la comunità internazionale per il bene comune dell’umanità, costruendo un futuro condiviso e rendendo il mondo un posto migliore per tutti”.
La partnership attuale tra Cina e Russia è stata definita in un recente libro di Aleksandra Bērziņa-Čerenkova un “perfetto squilibrio”. Gli apparati di politica estera di entrambe i paesi cooperano su questioni importanti, tra cui la sicurezza, l’Artico, lo spazio e le relazioni internazionali con altri paesi eurasiatici. Secondo la scienziata politica, malgrado la Russia non si sia spostata definitivamente verso la Cina e non vi sarebbe alcuna alleanza ufficiale sino-russa all’orizzonte, la relazione tra i due paesi continuerà ad espandersi alla ricerca di un perfetto squilibrio.
Una prospettiva diversa è quella di Feng Yujun, Direttore del Centro per gli Studi sulla Russia e l’Asia Centrale all’Università Fudan di Shanghai, che alla fine del 2022 ha tenuto un discorso intitolato Storia, cultura e sviluppo contemporaneo della Russia (Eguo lishi wenhua yu dangdai fazhan). Feng ha sottolineato le sfide che devono affrontare le relazioni attuali tra Cina e Russia, tra cui la mancata comprensione, da parte di molti, del cambiamento storico nel rapporto di forza tra i due paesi, con la Cina ormai molto più potente della Russia. Sul piano economico, la Russia ha promosso un capitalismo oligarchico, con una grave disparità tra ricchi e poveri e con difficoltà per lo sviluppo delle piccole e medie imprese. In ambito diplomatico, poi, secondo Feng, ha cercato di restaurare l’impero e di riaffermare la Russia come grande potenza mondiale. Nella storia russa, continua Feng, le sconfitte militari all’estero hanno spesso portato a cambiamenti interni di grande portata. La sconfitta nella guerra di Crimea del 1856 portò alla riforma della servitù della gleba nel 1861; la sconfitta nella guerra russo-giapponese del 1905 scatenò la rivoluzione del 1905; la sconfitta nella Prima guerra mondiale provocò la rivoluzione di febbraio e quella di ottobre; e la sconfitta nella guerra in Afghanistan contribuì alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Oggi, questa guerra potrebbe segnare un punto di svolta significativo nella storia della Russia.
La cultura russa è unica, e i russi, a partire dall’epoca moderna, hanno adottato una retorica molto efficace per costruire un’immagine misteriosa di sé. Nel discorso, Feng cita una frase di Engels: “La diplomazia russa ha abilmente ingannato i due grandi partiti borghesi europei. È stata l’unica in grado di essere simultaneamente ortodossa e rivoluzionaria, conservatrice e liberale, tradizionalista e progressista”.
P.S.: È un libro denso e complesso questo di Maurizio Scarpari, dal quale o grazie al quale un neofita come me vede disvelarsi un mondo, una sorta di apocalisse etimologicamente intesa, una narrazione che guida attraverso l’oggi di un paese misterioso, mentre ne tiene presente il passato, la cultura solidamente radicata in quel passato e soprattutto il pensiero etico che lo ha guidato attraverso i secoli. Quando Xi Jinping assume la guida del Partito comunista cinese, nel 2012, e poi, l’anno successivo, la presidenza del paese, la Cina non era ancora quella che conosciamo oggi, ci narra Scarpari, ma per il nuovo leader salito al potere, a differenza di Mao Zedong, la Cina era ormai pronta a “riprendere il posto che le sarebbe spettato nella comunità internazionale, chiudendo definitivamente il ‘secolo della vergogna e dell’umiliazione’”. Evidentemente la Cina aveva sofferto molto quella sorta di sudditanza nei confronti dell’Occidente imperialista (e capitalista), cominciata con la guerra dell’oppio e forse conclusasi con la fondazione della Repubblica popolare cinese per opera di Mao Zedong. Ma la domanda che mi pongo è quale possa essere il senso o la ragione di questa esigenza; mi domando cioè se recuperare un palcoscenico internazionale è un’esigenza del paese Cina oppure una ambizione del suo attuale leader.
C.G.: Nel suo libro Party of One, il giornalista Chun Han Wong evidenzia come il parallelo tra Xi Jinping e Mao Zedong sia spesso eccessivamente semplicistico. Pur attingendo ad alcuni slogan e tattiche dell’era maoista, Xi si è formato politicamente sin dall’infanzia, vivendo in prima persona le dinamiche di potere all’interno del Partito e subendone le dirette conseguenze. A differenza di Mao, che mobilitava le masse contro l’apparato stesso del Partito, Xi mira a potenziarne la disciplina interna, secondo un modello che richiama piuttosto l’approccio di Liu Shaoqi: quest’ultimo privilegiava la gerarchia leninista, la propaganda interna e l’educazione politica come strumenti fondamentali di consolidamento. La Cina è cambiata anche rispetto all’epoca di Deng Xiaoping. Scarpari cita la sua massima «Mantenere un basso profilo», pronunciata nell’ambito di un clima difficile sia a livello domestico, con i disordini di Tiananmen, sia a livello internazionale. Anche Anthony Saich, direttore del Rajawali Foundation Institute for Asia presso la Harvard Kennedy School (HKS), ritiene che la Cina di Xi abbia ormai abbandonato la tradizionale linea di Deng (nascondere la forza, aspettare il momento) e miri a un ruolo di primo piano negli affari globali, cercando di rimodellare a proprio vantaggio le istituzioni internazionali e considerandosi alla pari degli Stati Uniti nella definizione delle regole globali. La necessità di recuperare o espandere il proprio spazio di influenza sulla scena internazionale è un’esigenza che coinvolge la Cina nel suo complesso, frutto sia di fattori storici (il desiderio di riacquisire il prestigio perduto dopo il cosiddetto “secolo delle umiliazioni”) sia di interessi economici e geopolitici nazionali. Allo stesso tempo, l’ambizione personale di Xi Jinping — focalizzata sul “grande ringiovanimento della nazione cinese” — gioca un ruolo determinante nel dare forma e slancio a questa spinta.
P.S.: Anche riportare sotto la sovranità della Cina, “della madrepatria” scrive Scarpari (p. 23), “le colonie, Hong Kong e Macao, e la cosiddetta ‘isola ribelle’ Taiwan, nella convinzione ‘di essere dalla parte giusta della storia’”, è una convinzione di tutti i cinesi o del loro leader? L’analogia con quanto sta facendo Putin in Ucraina e con quanto ha fatto in Crimea nel 2014, colpisce, così come colpisce l’analogia con le modifiche fatte apportare alla costituzione da Putin e da Xi Jinping, con lo scopo evidente di perpetuare ciascuno il suo potere. Ma ancora più lascia perplessi l’uso di una guerra d’invasione praticato da Putin e minacciata da Xi Jinping che rinnova un modello bellico tipico degli ultimi due secoli e che si pensava tramontato.
C.G.: La volontà di “riportare sotto la sovranità della madrepatria” Hong Kong, Macao e Taiwan nasce da una visione storica e politica sostenuta dal Partito comunista cinese, secondo cui questi territori sarebbero parte di un’unica Cina indivisibile. Tuttavia, non tutti i cittadini cinesi — inclusi gli abitanti di Hong Kong, Macao e Taiwan, oltre alla diaspora — condividono la medesima visione: emergono sensibilità diverse e persino posizioni contrarie. L’idea di “essere dalla parte giusta della storia” è fortemente sostenuta dalla leadership di Pechino e riflette la linea ufficiale del governo, raccogliendo al contempo ampio consenso in patria, frutto di decenni di retorica e formazione patriottica. In definitiva, il progetto di “riunire alla madrepatria” tali territori non è soltanto un obiettivo dell’attuale dirigenza, ma rispecchia anche un sentimento ampiamente radicato nella popolazione continentale. Senza dubbio alcuni emendamenti alla costituzione voluti da Xi enfatizzano l’ambizione di quest’ultimo, in particolare l’abolizione del limite dei due mandati presidenziali, che ha aperto la strada a una leadership potenzialmente a tempo indeterminato. A ciò si aggiunge l’enfasi sul suo pensiero politico, ora parte integrante della Costituzione, e una riorganizzazione istituzionale volta a consolidare la lotta alla corruzione e il ruolo dominante del Partito.
P.S.: In questi ultimi due o tre anni l’idea che il ruolo del governo cinese fosse tenuto separato da quello del Partito è tramontata. Era stata un’illusione ingenua, ci dice Scarpari (p. 24), pensare, sperare che si potesse integrare il confucianesimo idealista, decantato da Xi Jinping nei suoi discorsi ufficiali, con gli ideali maoisti di ispirazione marxista-leninista. In ogni caso molti fattori hanno contribuito, in forma diretta o indiretta, al “processo di trasformazione della Repubblica popolare nel periodo precedente l’ascesa al potere di Xi Jinping” così che è stato possibile “il ritorno della Cina sulla scena mondiale”, a cominciare dal riconoscimento internazionale che ha fatto della Repubblica popolare il 25 ottobre 1971 il legittimo rappresentante della Cina insieme alla sua nomina a membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU, al posto di Taiwan, la Repubblica di Cina, per terminare con la nomina di Xi Jinping, “l’uomo del momento”, a segretario del partito comunista e presidente della Commissione militare centrale del Partito. Dunque, centralità mondiale della Cina attraverso il potere (del suo uomo del momento).
C.G.: Nel 2015, “Makesi jin wenmiao” (“Marx entra in un tempio confuciano”), un racconto del 1925 di Guo Moruo (1892–1978), ha sollevato un acceso dibattito. Quell’anno, l’opera era stata selezionata come testo per l’esame di ammissione al master di ricerca, affiancata da estratti di alcuni discorsi di Xi Jinping. I candidati erano invitati a commentare la nota affermazione: «La Cina, questo leone, si è già svegliata, ma è un leone pacifico, amabile e civilizzato» (Zhongguo zhe tou shizi yijing xing le, dan zhe shi yi zhi hepingde, keaide, wenmingde shizi).
Nel 2023, Marx ha nuovamente incontrato Confucio in Dang Makesi yujian Kong fuzi (“Marx incontra Confucio”), l’ultima produzione di una serie televisiva promossa dal Dipartimento di Propaganda del Comitato del Partito della provincia dello Hunan, concepita per esplorare nuove prospettive per la diffusione delle più recenti teorie del Partito. Presentato in forma teatrale, il programma rappresenta un dialogo tra Marx e Confucio, ambientato in una versione virtuale dell’Accademia di Yuelu. Il progetto, articolato in cinque episodi, intreccia realtà e mondo virtuale e offre al pubblico un confronto tra antichi filosofi ed esperti contemporanei, allo scopo di approfondire e veicolare il “Xi-pensiero”.
Questi riferimenti sono utili per comprendere come, soprattutto in tempi recenti, gli insegnamenti confuciani, espressione della “cinesità”, siano stati strumentalmente integrati nella dottrina marxista per promuovere un socialismo con caratteristiche distintamente cinesi, concepito, però, come una proiezione della politica di Xi, il leader carismatico, l’”uomo del popolo”.
P.S.: È a questo punto che si innesta un problema di grande spessore storico, storiografico, e pure politico, che consiste nella verità della narrazione storica, al centro del secondo capitolo, ma che attraversa un po’ tutto il volume, capitolo decisamente intrigante che comincia con un interrogativo: Esiste la “vera Cina”? È un interrogativo che investe direttamente la scrittura della storia, in questo caso la storia della Cina (p. 46), che Xi Jinping vorrebbe che si raccontasse “bene”, scrive Scarpari, “senza manifestare un coinvolgimento ideologico” e che vorrebbe “imporre non solo ai cinesi, ma al mondo intero, nozioni e notizie che sono ‘per certo vere’ in quanto ‘certificate‘ dal Partito comunista, indiscutibile garanzia di autenticità”. Così che è facile a nostra volta chiederci, in una prospettiva più ampia e generale, a chi appartenga la scrittura della storia autentica, domanda che attraversa L’écriture de l’histoire di Michel de Certeau e che riaffiora periodicamente, come recentemente è accaduto anche in Italia per opera di un esponente della destra al governo e presidente della Commissione Cultura della Camera. Peccato che l’onorevole Federico Mollicone, in maniera un po’ goffa e confusa, pretenda di negare la verità delle sentenze che hanno individuato la matrice neofascista della strage di Bologna, accusando la scrittura “giudiziaria” di quella strage di essere il frutto di un teorema costruito per denigrare la destra italiana, una storia sottoposta a falsificazione e strumento di un complotto. In altre parole, vorrebbe che quelle “verità giudiziarie” fossero autenticate o negate dalla destra. È tipico delle dittature come di chi aspira alla dittatura gridare al complotto o all’attentato. Ma ciò che importa in questo caso è che la storia della Cina, quella “autenticata” come quella “vera”, non può ormai essere circoscritta geograficamente, perché la storia è relazionale ed è comunicazione e oggi più che mai la storia della Cina non può essere guardata come “altra” rispetto alla nostra storia. Nel caso di questo volume, tuttavia, non si tratta di una analisi teorica focalizzata sulla storia, bensì si è guidati all’interno della storia, di fronte alla difficoltà dell’informazione fornita dalla Cina medesima. Teorico è invece il dibattito attorno all’esistenza o meno del concetto di verità nel pensiero tradizionale cinese, concetto che non è mai stato al centro della speculazione filosofica cinese (p. 48), contrariamente al pensiero europeo, dove la verità ha un ruolo dominante a cominciare dall’ “intrepido cuore della ben rotonda Verità” di Parmenide, ma forse anche prima, in Esiodo, per il quale le Muse possono cantare molte falsità simili al vero, ma quando vogliono sanno pure cantare la verità, una verità che etimologicamente designa “ciò che non è nascosto”. Alla verità europea in Cina corrisponderebbe il dao, “principio cui tutto obbedisce, che emana sia leggi cosmiche sia quei dettami che ispirano a comportarsi in modo esemplare” (così Attilio Andreini, citato da Scarpari, p. 48). Ma oltre che nella Verità il dao potrebbe trovare una qualche e molto parziale analogia in Adrastea-Nemesi, che tutto sorveglia. Come sottolinea Scarpari, tuttavia, qualcosa è cambiato, quello di Xi Jinping è un tentativo di ordine fattuale, perché alle parole debbono corrispondere i fatti, che “vanno valutati e osservati da angolazioni diverse per ridurre il rischio … di interpretarli condizionati da pregiudizio, con finalità preconcette” (p. 50). In altre parole, la narrazione storica deve ora coincidere con la descrizione dei fatti. Che ci appaiono senza veli, quando consideriamo che “la Cina è riuscita a diventare una potenza di prima grandezza” e che la sua “espansione commerciale si è trasformata ― o rivelata … ― in espansione egemonica”. Nel momento in cui ora la “Cina aspira a riscrivere le regole di un nuovo ordinamento globale”, in sostituzione dell’attuale “ordine internazionale liberale a guida americana”, questa riscrittura deve essere comunicata “‘in modo corretto’ al resto del mondo”. E a questo punto il concetto di “verità” diventa cruciale perché la Cina appaia credibile in quanto “una comunicazione realmente aderente ai fatti può definirsi ‘corretta’ e … utile a promuovere il pluralismo e l’affermarsi di un ‘mondo pacifico e prospero’ al di là di ogni retorica e propaganda di Partito” (pp. 50-51). Come sottolinea poco oltre (p. 53), i principi etici tradizionali non sono mai realmente scomparsi dall’orizzonte dei leader comunisti, nemmeno” quando, con Deng Xiaoping, fu messo al bando il confucianesimo.
C.G.: A partire dagli anni Ottanta, il dibattito sul ruolo della verità nella filosofia cinese antica si è frequentemente focalizzato sulla questione se il pensiero pre-Han possieda un autentico concetto di verità. Questa discussione, come riepiloga Chris Fraser, è stata innescata dalla tesi provocatoria di Chad Hansen, secondo cui la filosofia cinese sarebbe priva di un vero e proprio concetto di verità, preferendovi, piuttosto, un approccio pragmatico nell’uso del linguaggio e nella sua interazione con il dao etico, sociale e politico, inteso come percorsi o vie d’azione. Tale prospettiva si ricollega a una riflessione di Donald Munro negli anni Sessanta, secondo cui i pensatori cinesi antichi sarebbero stati maggiormente interessati alle “implicazioni comportamentali” di una credenza o proposizione piuttosto che alla sua veridicità. L’enfasi di Hansen sul ruolo centrale del dao si inserisce nell’intuizione di A. C. Graham, il quale sosteneva che per i filosofi pre-Han “la questione cruciale… non è ‘Qual è la verità?’, come per i filosofi occidentali, ma ‘Dov’è la via?’, ossia la strada per governare lo Stato e condurre la vita personale”. Questa tesi è stata successivamente ampliata da David Hall e Roger Ames, i quali hanno argomentato che il pensiero cinese antico mancava delle “precondizioni culturali” necessarie per sviluppare una nozione di verità “in stile occidentale”. Naturalmente, l’affermazione secondo cui il pensiero cinese antico “non possiede un concetto di verità” ha suscitato non poche critiche.
Il rapporto tra verità e storia continua a essere rilevante anche in epoca maoista e post-maoista. Sostenendo che “la storia è il miglior maestro”, Xi Jinping pone la storia al centro della legittimazione del Partito comunista cinese (PCC), adottando una visione che enfatizza gli aspetti positivi e celebrativi. Xi ha definito l’indagine come “la base di ogni decisione di successo”, riprendendo un principio già consolidato nel metodo maoista. Mao Zedong affermava che “senza una corretta indagine, non si ha diritto di parola”, sottolineando l’importanza di un’analisi empirica per giungere a conclusioni valide. Il principio di “ricercare la verità dai fatti” (shishi qiushi) era per Mao di natura scientifica: i “fatti” rappresentano fenomeni oggettivi, la “verità” le leggi che li regolano, e la “ricerca” il processo per identificarle. Mao criticava l’interesse per teorie astratte e disconnesse dalla realtà, insistendo sull’importanza di un’analisi concreta delle condizioni sociali cinesi.
In un contesto internazionale sempre più complesso e in un momento cruciale per il rinnovamento della nazione cinese, i principi di Mao — integrazione tra teoria e pratica, indagine rigorosa e “ricercare la verità dai fatti” — mantengono una rilevanza straordinaria. Sotto la leadership di Xi Jinping, tali principi continuano a influenzare profondamente la governance cinese. Attraverso l’educazione e la promozione della “storia del Partito”, Xi mira a consolidare la propria legittimità, rafforzare la fiducia della popolazione e preparare la Cina ad affrontare le sfide future con “determinazione e unità”.
P.S.: La volontà di Xi Jinping di far “raccontare bene la storia” della Cina, una storia millenaria ricca di cultura, all’esterno attraverso un sistema di comunicazione che tenga conto anche dei nuovi media (p. 60), non nasconde quello che in contesto europeo avremmo considerato il fine recondito di Xi: creare nuove narrazioni che legittimassero il ruolo di gande potenza della Cina e ne sostenessero la politica espansionistica, rafforzandone il soft power culturale, decisivo per la realizzazione di “una società moderatamente prospera sotto tutti gli aspetti” e per la trasformazione della Cina in “un moderno stato socialista, democratico, prospero, avanzato culturalmente e armonioso”. Il che equivale a dire che la Cina deve collocarsi in ogni caso al centro. Ma mi domando anche come sia possibile conciliare la “scrittura corretta della storia” con questa volontà di leadership mondiale, per quanto sia evidente che un leader, una guida, in questo caso addirittura mondiale, deve essere prima di tutto credibile. Ma la credibilità non si guadagna né con le censure né con la disinformazione, e nemmeno l’immagine che il mondo ha della Cina coincide con quella che la Cina ha di sé e vorrebbe dare al mondo, ed è contemporaneamente difficile che una revisione della storia possa bastare per far cambiare opinione al mondo, laddove, al contrario, non appaia come una falsificazione o distorsione di quella storia (pp. 62-88). È sempre il reperimento di fonti certe il problema per chi vuole scrivere e costruire la storia evitando il più possibile le congetture. E il capitolo con cui si apre la seconda parte di questo ponderoso saggio e che ha per titolo “La Rinascita”, mette in primo piano le difficoltà di riuscire a sapere cosa avviene all’interno dello Zhongnanhai, la sede del Partito e del governo a Pechino, e nel medesimo tempo si imbatte nell’altro problema costituito dall’attendibilità delle informazioni, dei comunicati e dei dati forniti dalle autorità, tutt’altro che verificabili. “Nella filiera del potere … è sempre successo che i dati reali venissero manipolati e le informazioni … su situazioni problematiche edulcorate, se non contraffatte …”, scrive Scarpari. L’epidemia, poi trasformatasi in pandemia, scatenatasi tra gli ultimi mesi del 2019 e i primi del 2020, quando le autorità si accorsero in ritardo dei gravi rischi che quello che poi sarà conosciuto come COVID, fu accompagnata da silenzi e azioni tese a mascherare l’inefficienza e, perché no, la superficialità dei funzionari (p. 97). Mi pare giocoforza che il continuo mascheramento, la scelta del silenzio, la difficoltà di accedere agli archivi, la segretazione dei documenti, la generale opacità, stridano contro la dichiarata ricerca di una scrittura della vera storia della Cina e non rendono difficile solo il lavoro degli storici e dei sociologi e più in generale degli studiosi di professione, ma pure di chi cerca semplicemente informazione.
C.G.: Il reperimento delle fonti in Cina rappresenta un tema complesso e ampiamente dibattuto. Fabio Lanza fornisce una sintesi incisiva della situazione attuale, focalizzandosi sulle difficoltà legate alla ricerca sulla storia contemporanea cinese nel periodo successivo alla fine dell’emergenza pandemica. Negli ultimi anni si è osservata una crescente restrizione nell’accesso ai contenuti archivistici cinesi, nonostante la riapertura ufficiale dei principali archivi con la fine dell’emergenza sanitaria. Molti documenti, precedentemente disponibili, risultano ora irreperibili e non figurano più nei cataloghi ufficiali. Sebbene manchino dati ufficiali per spiegare tali limitazioni, un numero sempre maggiore di ricercatori segnala esperienze simili sin dall’inizio della pandemia. A ciò si aggiunge la censura su alcuni database storici digitali: versioni digitalizzate sono state alterate e numerosi articoli sono stati eliminati. Nel 2023, ad esempio, la China National Knowledge Infrastructure (CNKI), uno dei principali database accademici cinesi, ha temporaneamente sospeso l’accesso per una “revisione normativa” dei suoi servizi internazionali. Collezioni archivistiche curate da storici cinesi sono divenute completamente inaccessibili agli studiosi stranieri, aggravando ulteriormente la situazione. La pandemia ha inoltre esacerbato queste difficoltà, imponendo severe restrizioni di viaggio che hanno limitato l’ingresso nella Repubblica Popolare Cinese per la maggior parte degli accademici e studenti stranieri. Sebbene tali restrizioni siano state in parte allentate, i loro effetti continuano a influenzare negativamente l’accesso alle risorse archivistiche e, di conseguenza, il progresso della ricerca accademica internazionale.
P.S.: Quale è ora la vera immagine della Cina? Quella che vuole (ma forse vorrebbe) Xi Jinping, sull’onda della continuità con Mao e Deng Xiaoping, di “riportare la Cina al centro e liberarla una volta per tutte dal giogo delle potenze straniere” (pp. 99-101). Oppure quella che propone uno studioso come Frank Dökter, “una petroliera che da lontano ha un aspetto imponente con il capitano e i suoi sottoposti orgogliosamente in piedi sul ponte, mentre sotto coperta i marinai sono disperatamente impegnati a pompare fuori l’acqua e a riparare i buchi per tenere a galla l’imbarcazione” (p. 99). È un’immagine drammatica e forte che non può non evocare a un italiano il dantesco Ahi serva Italia, di dolore ostello / nave sanza nocchiere in gran tempesta. Ma Scarpari non sembra accogliere questa visione disfattista e negativa della Cina attuale. Xi Jinping, si è mosso con destrezza, dice, nel solco della continuità, procedendo a portare avanti “un disegno grandioso … segnato … da cambiamenti positivi e successi impensabili” (p. 100).
C.G.: In un recente articolo, Fabio Lanza ha evidenziato come la crisi finanziaria del 2008 abbia messo in luce i limiti intrinseci del capitalismo, evidenziandone l’incapacità di promuovere un consenso democratico, portando invece a tribalizzazione, disuguaglianze crescenti e ricorrenti crisi globali. La risposta a tali eventi ha contribuito all’ascesa dell’etnonazionalismo e dei populismi di destra, accompagnati da politiche sempre più illiberali e protezionistiche. In questo quadro, la “svolta illiberale” della Cina sotto la guida di Xi Jinping si inserisce in una dinamica globale che accomuna figure come Modi, Trump e Orbán, tutte protagoniste di politiche analogamente restrittive e autoritarie. Parallelamente, nella cosiddetta “Nuova guerra fredda”, la Cina emerge come principale bersaglio, rappresentata come un modello autoritario e come una minaccia globale. Secondo Lanza, la narrazione dominante nel mondo “occidentale” (euroamericano) tende a perpetuare un’immagine distorta della Cina sotto Xi Jinping, proiettando il presente cinese in un passato remoto o in un futuro distopico. Tale rappresentazione non solo rafforza stereotipi consolidati, ma nega alla Cina il riconoscimento di attore contemporaneo e influente nel panorama geopolitico globale. Lanza avverte inoltre che liquidare la teoria della modernizzazione con caratteristiche cinesi come vuota propaganda è una trappola da evitare. Questa riduzione, infatti, rischia di collocare la Cina in una (falsata) dimensione del tutto aliena rispetto al presente di altre nazioni, impedendo una comprensione più complessa della realtà politica e sociale non solo cinese, ma globale.
P.S.: Se Xi Jinping aveva rivolto l’invito a rileggere le opere di Confucio soprattutto ai funzionari e in particolare a quella maggioranza iscritta al Partito comunista, perché seguissero uno stile di vita virtuoso, ponendo fine alla dilagante corruzione che aveva caratterizzato il periodo del disordinato e caotico sviluppo economico, corruzione che minava la credibilità e minacciava la sopravvivenza stessa del Partito e delle istituzioni (p. 115 = 109), evidentemente era perché aveva e in Cina vi era la convinzione che il passato modella il presente. Se poi quel passato è esemplare e luminoso, esso contribuisce senz’altro alla costruzione di una Cina credibile, storicamente fondata. Non è improbabile che Xi abbia guardato alle teorie di uno dei più famosi politologi cinesi, Yan Xuetong, sostenitore del valore attuale delle concezioni filosofiche e politiche elaborate in Cina tra il VI e il III secolo a. C. La prospettiva è quella di un “realismo politico-morale” modellato sulle dottrine confuciane, dove però “equità, giustizia e civiltà sono valori … superiori a uguaglianza, democrazia e libertà” (pp. 157-58). Coerentemente con questa prospettiva pare che in Cina i politologi per lo più siano persuasi che nelle relazioni internazionali sia preferibile un approccio moralistico e prescrittivo, traendo ispirazione dal passato. Afferma infatti Scarpari, la “cultura tradizionale ha sempre avuto un peso determinante nella vita quotidiana e intellettuale dei cinesi e ha sempre influenzato la vita politica del paese” (pp. 158-59).
C.G.: Il libro di Yan Xuetong, Ancient Chinese Thought, Modern Chinese Power (Princeton University Press, 2011), è stato oggetto di una serie di recensioni, alcune piuttosto dure, come quella in cui l’approccio del politologo cinese è paragonato alla costruzione di meri castelli in aria. In un articolo più recente, Yan sostiene che, rispetto alla strategia del mantenimento di un basso profilo (KLP, Keeping a Low Profile), la strategia di perseguire risultati (Striving for Achievement, SFA) si sia dimostrata più efficace nel creare un ambiente favorevole al ringiovanimento nazionale della Cina.
L’autore applica la teoria del realismo morale per spiegare il ruolo della strategia SFA, affermando che la moralità può incrementare la forza politica internazionale e la legittimità politica di una potenza emergente. Secondo Yan, a differenza della strategia di mantenere un basso profilo (KLP), che evita responsabilità internazionali e si concentra sui benefici economici, la strategia di ricerca dell’affermazione (SFA) adottata da Xi Jinping privilegia la credibilità strategica e la cooperazione in ambito di sicurezza, al fine di costruire relazioni affidabili e ridurre le paure dei paesi limitrofi.
L’articolo riconosce i rischi della SFA, tra cui la possibilità di essere percepiti come aggressivi dai paesi vicini, e ritiene che l’efficacia di questa strategia dipenderà da un’implementazione ponderata, capace di evitare conflitti e garantire il sostegno internazionale al progetto di rinascita nazionale della Cina.
P.S.: A differenza dell’Impero romano, ma direi anche di tutti gli imperi che lo hanno preceduto, da quello persiano a quello di Alessandro Magno, non più risorti dopo la loro dissoluzione (tutti i tentativi successivi di rifondare l’Impero romano non hanno avuto l’esito sperato), l’impero cinese non ha mai perso il senso della propria unità e continuità così come ha mantenuto la propria stabilità ideologica e politica (p. 159). In ragione del suo eccezionale sviluppo culturale la Cina ha costituito per l’Asia orientale quello che nei secoli ha rappresentato per l’Europa la civiltà greco-romana, con tutto il suo bagaglio di conoscenze e di humanitas, con la differenza che nell’universo europeo, in cui dobbiamo comprendere anche l’espansione europea oltre oceano, quasi ciclicamente lo sguardo verso il passato greco-romano si appanna, perde la sua capacità di attenzione. Al contrario la Cina, se escludiamo il periodo maoista, ha superato le sue crisi e ha edificato il suo futuro sul proprio passato, per parafrasare Salvatore Settis (Il futuro del classico, 2004). È quella della Cina una storia complessa che Scarpari riassume e che qui è impossibile anche solo tracciare, scandita da un continuo riferimento al passato nonché al pensiero confuciano.
C.G.: Scarpari riporta il lettore al modello di governo inaugurato dall’imperatore Wu della dinastia Han, che, fondendo idealismo e autoritarismo attraverso la “politicizzazione del confucianesimo”, creò uno stato autocratico stabile e una governance pacificata ispirata ai valori confuciani. Sotto Han Wudi, l’impero cinese si espanse notevolmente, sviluppando il sistema diplomatico del Tianxia (qui vale la pena citare il libro sulla contemporaneizzazione del concetto di Tianxia del filosofo politico Zhao Tingyang) e dando l’avvio alla Via della Seta. L’imperatore Wu, come spiega Scarpari, nonostante il suo autoritarismo e le repressioni, promosse le arti e la letteratura, contribuendo così a definire i fondamenti dell’identità cinese.
Oggi, Wu è collegato a Xi Jinping, leader moderno che integra teoria e pratica per guidare la Cina verso la prosperità, adattando i principi storici alle esigenze contemporanee. Eyck Freymann, nella sua analisi dell’iniziativa Belt and Road (OBOR), si sofferma sulla propaganda cinese, sottolineando come essa utilizzi analogie storiche per presentare Xi quale erede spirituale di Han Wudi. Freymann sostiene che l’iniziativa Belt and Road (OBOR) non sia soltanto una strategia economica, ma anche un progetto ideologico volto a ristabilire un ordine mondiale simile a quello dei secoli passati, in cui emissari stranieri offrivano tributi all’imperatore cinese in cambio di protezione politica. Questa rilettura storica servirebbe a conferire legittimità all’OBOR come strategia geopolitica e contribuirebbe, al contempo, a rafforzare l’immagine di Xi Jinping come leader carismatico, consolidandone il potere sul piano nazionale e internazionale.
P.S.: Alla fine, dopo questo lungo excursus storico (chissà se conoscono davvero questa storia tanti improvvisati sinologi, pronti a scrivere la storia della Cina, dell’America e del Vicino Oriente), si ritorna al presente e all’ascesa al potere di Xi Jinping e a come si è sbarazzato dell’opposizione e del suo predecessore, Hu Jintao (pp. 217-27). L’ascesa di Xi Jinping ha tutti i caratteri di una presa del potere che non rispetta le regole democratiche, lontano dall’ “ortodossia comunista”, definito da chi ebbe il coraggio di parlare di un “boss mafioso”, mentre nessuno osò opporsi quando impose di modificare la carta costituzionale per perpetuare il proprio potere (p. 224). Xi è pertanto l’“uomo solo al comando” (p. 226), nostalgicamente sognato e sperato dalle destre europee, che tuttavia ha realizzato un nuovo patto per legittimare il suo potere, fondato sulla stabilità, sulla sicurezza interna e internazionale a loro volta sostenute da un forte nazionalismo e patriottismo (p. 225).
C.G.: Scarpari evidenzia come il continuo richiamo di Xi Jinping alla sicurezza nazionale, declinato nei suoi aspetti ideologici, politici, economici e strategici, sia parte integrante di un sistema di governance basato su due pilastri essenziali: da un lato, un modello di Stato autocratico e centralizzato ispirato alla tradizione imperiale cinese; dall’altro, il rafforzamento e l’evoluzione continua del processo di “sinizzazione del marxismo”, avviato da Mao Zedong e adattato alle esigenze contemporanee.
Il progetto di “ringiovanimento” nazionale promosso da Xi Jinping, strettamente connesso al consolidamento del suo potere e alla sua ambizione di immortalità politica—ben distante dalla concezione daoista del saggio immortale—non si limita agli spazi più formali della politica, ma si estende capillarmente nella quotidianità, coinvolgendo luoghi strategici come i campus universitari. Non stupisce che Xi riconosca nelle nuove generazioni una risorsa imprescindibile per la realizzazione del suo ambizioso progetto/sogno: campagne nazionali, cerimonie e rituali politici costituiscono strumenti efficaci perché la formazione ideologica si radichi profondamente nelle università cinesi, incentivando un vasto numero di giovani a impegnarsi nello studio della storia del Partito, celebrata per i suoi successi, e a rafforzare la conoscenza della storia nazionale e il sentimento di amore per la patria.
P.S.: Questo lungo itinerario attraverso una storia millenaria, cominciato con la “missione militare speciale” di Putin in Ucraìna e con la domanda se la Cina di Xi Jinping, coerentemente con i suoi valori tradizionali e con le sue attuali aspirazioni a essere considerata leader di un nuovo ordine mondiale, non avrebbe dovuto proporsi come paese responsabile e garante della pace fin dagli albori del conflitto, anche a costo di un insuccesso, si chiude con quel medesimo scenario. Senza dubbio l’intervento della Cina, se fosse stato coronato da successo, avrebbe aperto la strada alla realizzazione del sogno cinese di unire in un’unica famiglia armoniosa l’intera comunità umana (p. 247). E anche non lo fosse stato, alla Cina si sarebbe guardato con un occhio meno sospettoso, in un momento costellato da eventi destabilizzanti per il mondo globale; sono eventi che Scarpari elenca e commenta dettagliatamente, dall’avvento di Trump, che ha creato tensioni e instabilità e radicalizzato il confronto tra USA e Cina, e oggi la sua rielezione, non più un’ipotesi, alla guida degli Stati Uniti accresce l’instabilità e nello stesso tempo alimenta le nostalgie delle destre europee, alla pandemia, improvvisa e non prevista (ufficialmente), evocatrice di antiche stagioni di morte conosciute solo attraverso i libri di storia. A questo si può aggiungere quella che ormai è chiaramente una guerra contro l’Ucraìna, portata avanti dalle ambizioni di Vladimir Putin, e una seconda guerra, sempre la medesima, quella di Israele contro i palestinesi, accusati di offrire ospitalità e di nascondere i terroristi islamici, conflitto che ha spostato l’attenzione dall’Ucraìna al Vicino Oriente. È sorprendente, dice Scarpari, che “il governo cinese non abbia fatto nulla di concreto per favorire una soluzione che possa fermare una guerra che sta distruggendo un paese, destabilizzando mezzo mondo e facendo soffrire milioni di persone vittime delle ricadute economiche del conflitto” (pp. 264-65). Il processo di globalizzazione, nel bene e nel male, discutibile o meno che sia, ha creato una ramificazione di interconnessioni, per cui le conseguenze di una crisi, politica, economica, sociale e così pure di un conflitto, si propagano nel mondo e incidono sugli equilibri del sistema mondiale.
Non è ora possibile sapere come evolveranno queste situazioni internazionali; nemmeno la Pizia delfica prevedeva il futuro. Non siamo più piccoli stati chiusi entro i propri confini. Le attuali crisi, compresa la gravissima crisi economica del 2008, sono il frutto di processi provocati ad arte o da scelte individuali consentite da posizioni di potere. Scarpari chiude questo splendido lavoro senza avanzare profezie ma sottolineando come il mondo necessiti di pace e armonia per affrontare il dissesto generale del globo e cercare di salvaguardarlo insieme alla formicolante umanità che senta mancare il sostegno di chi governa. La Cina, la cui egemonia è stata sempre culturale più che politica, propone un nuovo assetto. Tuttavia, sottolinea Scarpari, la Cina oggi, nonostante il suo passato, quando era vista come “un faro di civiltà”, difetta di “quella forza di attrazione e di seduzione che può avere solo una solida cultura formatasi nel corso dei secoli sul rispetto della creatività e della libertà di pensiero e di espressione, in grado di forgiare” la “‘mentalità da grande potenza’“ (pp. 291-92).
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Chiara Ghidini, professoressa associata di Religioni e Filosofie dell’Asia orientale all’Università di Napoli l’Orientale
Paolo Scarpi, già professore ordinario di Storia delle religioni all’Università di Padova
Category: Osservatorio Cina