Bruno Amoroso: Un altro mondo esiste… in Cina

| 30 Giugno 2010 | Comments (0)

 

 

 

Questa analisi di Bruno Amoroso è stata pubblicato in “Inchiesta” 168, aprile giugno 2010, pp. 38-43


La Cina è tornata al centro dell’attenzione e non poteva essere diversamente. Lo divenne quando realizzò una rivoluzione vittoriosa che, capovolgendo tutti i luoghi comuni e dogmi del pensiero rivoluzionario europeo, portò alla costituzione della Repubblica Popolare di Cina nel 1949 ponendo termine ad un lungo periodo di guerre civili. Il primo tentative di liberazione della Cina dale influenze straniere fu fatto da Sun Yat-sen (12 Novembre 1866 – 12 Marzo 1925), personalità politica e di cultura che rifletteva il desiderio di emancipazione dei ceti urbani. Tuttavia, privo del controllo dell’esercito necessario a governare un territorio di quelle dimensioni ed estraneo al pensiero e alla cultura del mondo contadino di cui non conosceva né bisogni né aspirazioni, fu rovesciato dai militari e nell’indifferenza della popolazione rurale. Successivamente, sull’onda del nazionalismo antioccidentale ed anti giapponese, ci provò Chiang Kai-shek (31 ottobre 1887 – 5 aprile 1975), generale con il controllo dell’esercito nazionalista, ma non amato dai ceti urbani e intellettuali ed ostile al mondo contadino. Anche questa esperienza si concluse con la sua sconfitta ad opera del movimento comunista. Mao Zedong (26 Dicembre, 1893 – 9 Settembre, 1976) conosceva bene la testa ed il cuore dei contadini, e dette vita ad un proprio esercito popolare contadino che negli anni della rivoluzione e della lunga Marcia selezionò una classe dirigente capace di attrarre e formare propri intellettuali e amministratori. Poi si affrontò il terreno dell’emancipazione economica e culturale di popoli diversi su un immense territorio, ma dentro culture e una religioni che valorizzavano al massimo la coesione del paese. Ondate successive di un processo unico nella storia che con un metodo pragmatico di selezione di mezzi e obiettivi creò le basi solide per i successive passaggi ed i suoi successi attuali. Una rivoluzione ininterrotta della quale la Cina è giustamente orgogliosa e che dalle strutture economiche e sociali fu infine estesa, con la rivoluzione culturale, alle istituzioni e alla politica.

Nel caso della Cina si può affermare che tutte le fasi storiche di questo paese hanno contribuito alle fasi successive, sia nelle situazioni di blocco e recessione sia in quelle di avanzamento. La storia cinese si caratterizza più per la sua continuità che per le rotture: non è un movimento lineare di emancipazione dal vecchio ma un movimento a spirale che ripropone, rielaborandoli e rafforzandoli, gli obiettivi di unità e armonia. Comprendere la Cina di oggi, anche a confronto con altri paesi asiatici come l’India, non è possibile se si isola il presente senza tener conto dell’humus sul quale è costruito il sentimento di unità dello stato e le grandi trasformazioni nella cultura e nella composizione sociale del paese introdotte con la rivoluzione comunista fortemente intrecciata con il sentire nazionale e religioso culturale di questo paese. Un principio che in realtà dovrebbe sempre essere applicato anche alla storia dei popoli europei, ma che la nostra cultura ci ha impedito di fare. Per la Cina siamo in presenza di un fenomeno storico e di una cultura nella quale i fattori di continuità e di rottura sono sempre strettamente intrecciati e costruiti non su singoli segmenti della storia e del “mondo cinese” (la cultura, la politica, le istituzioni, il partito, la filosofia, secondo lo schema funzionale della modernizzazione occidentale) ma sulle loro interdipendenze e capacità di ascolto e dialogo reciproco. E’ questo diverso modo di essere che spiega i tempi e la fasi della trasformazione di questo paese, e perchè qui è stato possibile quello che è fallito in altri paesi sia asiatici sia europei. Il che include il successo del partito comunista, e le capacità di pensare e attuare forme innovative nel campo dell’economia, della politica e dei rapporti internazionali. Il successo della Cina non è dovuto a miracoli o menti geniali ma al risveglio di questa comunità-mondo (in senso panikkariano), allasua idea diversa di mondo (“società”) e delle sue dinamiche (“modernizzazione”).

 

Una civiltà fuori dell’Occidente

Nel suo saggio su: Pensare l’efficacia in Cina e Occidente (Laterza 2006) il filosofo francese Francois Jullien offre importanti riflessioni ed indicazioni in questa direzione. La Cina, scrive, è: “la sola grande civiltà che si è sviluppata al di fuori del pensiero europeo”. (p. 3) e le sole ragioni della sua impenetrabilità sono dovute alla nostra incapacità, o pigrizia, di: “stabilire un confronto faccia-a-faccia tra il pensiero cinese e quello europeo”. (p. 5). Un confronto vero, interculturale, che richiede l’accettazione di due mondi diversi e di pari dignità, il nostro ed il loro. Solo in questo modo la conoscenza dell’altro ci può tornare utile a comprendere meglio noi stessi, e rafforzare la nostra diversa cultura ed identità. Con buona pace di quanti scrivono che l’identità non esiste, come se quello che loro scrivono e pensano non fosse una identità, quella Occidentale, nella sua forma più dogmatica ed arrogante. Jullien ricorda che Montesquieu nei suoi studi dei sistemi politici, insieme ad altri studiosi europei, riconosce che: ”quanto apprendo sulla Cina, rischia di far crollare tutto ciò che ho appena costruito” (p. 8). Allo studio della società e cultura cinese dedicarono una vita sia il gesuita italiano Matteo Ricci, sia lo storico inglese Joseph Needman che cercò di dare ragione della diversità della storia cinese rispetto all’Occidente.

La letteratura degli ultimi due decenni sembra aver dimenticato tutto questo. Il ruolo degli studiosi è stato oscurato da quello dei giornalisti e dei mass-media che con la loro fretta di informare e comunicare hanno messo in atto una “campagna di analfabetizzazione”. I due paradossi della globalizzazione sono stati infatti quelli di aver isolato e reso provinciale l’Europa ed il resto dell’Occidente, chiudendoli dentro il loro <apartheid globale> e la logica dell’universalismo dei (loro) diritti, e di avere oscurato la cultura e l’informazione in misura direttamente proporzionale alla crescita e diffusione delle tecnologie. Questo ha limitato sia la conoscenza e comprensione di quanto accade altrove (Cina e Islam in testa), sia di quanto accade da noi negando l’esistenza di quanto di meglio anche all’interno dei nostri stati e comunità si va manifestando. Due eccezioni in questo grigio panorama italiano della comunicazione sono la pubblicazione nel 2007 di Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino (Feltrinelli), e nel 2010 di Loretta Napoleoni Maonomics (Rizzoli 2010). Due contributi che reintroducono una analisi del mondo cinese e delle sue dinamiche recenti a confronto con l’esperienza europea ed occidentale, capovolgendo i luoghi comuni in circolazione. Due studi che confermano quando detto più sopra e cioè che capire la Cina, la sua diversità, significa anche capire meglio le dinamiche delle nostre economie e società, delle loro diversità.

 

La globalizzazione e il risveglio del mondo cinese

La “grande trasformazione” delle economie e socieà europee ebbe luogo nel corso di circa 250 anni, sostenuta e finanziata dai grandi imperi coloniali e la lapidazione delle risorse mondiali. Mercantilismo, schiavitù, colonialismo, imperialismo e, dagli anni Settanta, la globalizzazione sono state le fasi della modernizzazione delle società europee. Poderosi processi migratori all’interno e verso altri continenti hanno accompagnato questo processo, insieme a due guerre civili europee con milioni di morti e immani sofferenze e distruzioni. La Cina ha realizzato nel corso degli ultimi 25 anni un analogo processo di trasformazione delle proprie economie e istituzioni senza ricorrere al colonialismo, introducendo forme nuove di relazioni con altri paesi e al proprio interno, e facendo del proprio bisogno di materie prime uno strumento di cosviluppo verso altri paesi e aree mondiali. Una leva per il risveglio delle comunità, africane e dell’America Latina, che sta facendo riemergere popoli e stati cancellati dall’Europa sullo scenario mondiale (BAD, Conferenza Internazionale, Tunisi 25-26 marzo 2010). In uno studio di Joshua Cooper Ramo, ricordato da Arrighi nel testo citato, si rileva che il successo delle politiche cinesi verso altri paesi: “è rappresentato dal coagularsi del Bejing Consensus, ossia l’apertura anche per altre nazioni di un possibile percorso che, sotto la regia della Cina, non porti semplicemente allo sviluppo economico, ma anche <a un inserimento nell’ordine internazionale che consenta a ciascuna vera indipendenza, autonome scelte politiche e la preservazione del proprio modo di vivere>” (Arrighi, o.c., p. 417). La costruzione di un sistema di welfare al livello dei paesi scandinavi è in via di attuazione in Cina e troverà attuazione in meno di un decennio oltre che con l’emissione di “carte dei diritti” con la messa a disposizione delle strutture, del personale e dei mezzi che introducano in tutto il paese l’accesso universalistico ai servizi necessari.

 

Mercato e capitalismo

L’industrializzazione europea e lo sviluppo del capitalismo, ben descritta nei testi classici di Sydney Pollard (European Economic Integration 1815-1970, Thames and Hudson, 1948) è stata analizzata e reinterpretata da Giovanni Arrighi nel citato testo. Un contributo che fa riemergere un aspetto dell’analisi teorica che contributi teorici precedenti avevano messo in ombra, e cioè la distinzione tra mercato e capitalismo. A questo equivoco storico e politico hanno contribuito, tra gli altri, anche autori critici del capitalismo come Marx e Polanyi. Marx studia l’emergere del mercato in Europa in una fase storica in cui questo è strettamente connesso alla nascita del capitalismo. Per queste ragioni i due fenomeni tendono ad identificarsi e con ciò ne risulta schiacciata anche l’analisi delle classi sociali in un quadro di comunità e di stati molto più complesso di quello rappresentato dallo scontro tra lavoro salariato e profitto capitalistico. Polanyi è un economista comunista che si trasferisce negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali degli anni Trenta in Europa. Qui entra in contatto con gli istituzionalisti statunitensi che, per sfuggire alle persecuzioni contro comunisti e marxisti, devono esprimersi con un linguaggio diverso. L’analisi di Polanyi del capitalismo è acuta e feroce, ma è riscritta tutta su econtro il “mercato” dovendo evitare il concetto di capitalismo ideologicamente sospetto alle autorità. Così come Gramsci fece negli anni del carcere introducendo concetti come la “filosofia della praxis” invece di marxismo. Questo ha ingenerato nei lettori e studiosi l’abitudine di confondere i due termini. Paradossalmente F. Braudel, l’autore che più di ogni altro ha enfatizzato la differenza tra mercato e capitalismo, considerati in conflitto tra loro, ha invece esteso il concetto di capitalismo all’indietro nella storia, fino ad epoca romana ed oltre, contribuendo così allo stesso errore.

 

Socialismo cinese e globalizzazione

Fornito di queste conoscenze e precauzioni Giovanni Arrighi fornisce una lettura corretta della crescita economica della Cina e dello sviluppo successivo, che gli consente di evitare la trappola di quanti interpretano la crescita cinese come un aspetto della globalizzazione e del capitalismo. L’avvio dell’industrializzazione in Cina non è opera degli investimenti occidentali e delle condizioni a questi offerte dal governo cinese ma del loro contrario. I capitali delle transnazionali della globalizzazione stanno alla larga dei controlli e dei vincoli imposti dal sistema politico e comunista cinese, e l’avvio dell’economia avviene grazie a politiche che sono l’opposto di quelle della globalizzazione (neoliberismo, libera circolazione, ecc.). Nell’uno e nell’altro caso la mano invisibile del mercato non c’entra. In entrambi i casi, ricordava Federico Caffè, non si può commettere l’errore di pensare i capitali o gli imprenditori come dei robot senza cervello (semmai senza anima). Entrambi, invece, si muovono secondo logiche di profitto e di rapina, e ben consapevoli dei propri interessi di breve e lungo periodo. La globalizzazione, infatti, si è articolata su una strategia del potere oltre che di mercato, ed ha fatto quanto poteva per impedire alla Cina di crescere e successivamente, con il fallito colpo della crisi finanziaria della fine degli anni Novanta, di bloccare le economie asiatiche. Lo illustra molto bene Napoleoni nel descrivere il ruolo politico del FMI e delle altre istituzioni della globalizzazione (FMI) nell’utilizzo delle crisi a vantaggio dei paesi occidentali (Napoleoni, o.c., p.70, 128, ecc.). Infatti non è la globalizzazione ma la riattivazione dei legami tra la Cina e la diaspora cinese esistente nel mondo che consente il decollo dell’economia e la costruzione di un sistema economico e di uno stato. Lo sviluppo cinese, scrive Arrighi: “si ricollega all’antica tradizione dello sviluppo di mercato non capitalistico”(390). E’ sbagliato affermare che: “la Cina si sia allineata alle prescrizioni neoliberali del Washington Consensus.” (“La Cina si apre. Smith contro Friedman” o.c., p. 390) e gli fa eco l’economista James K. Galbraith nel suo recente Lo Stato Predatore (The Predator State, 2008).

 

Il socialismo di mercato

Siamo invece in presenza del fatto che: “l’ascesa economica cinese, pur con tutti i suoi difetti e le sue possibili future battute d’arresto, (può) essere considerata come il sintomo premonitore di quella maggiore equità e rispetto reciproco tra i popoli di stirpe europea e non europea che Smith aveva delineato e auspicato duecentotrenta anni fa.” (Arrighi, o.c., p. 417). Analizzare l’economia ed il sistema politico cinese senza tener conto che si tratta di sistemi pianificati e politicamente diretti dal partito comunista, secondo principi di coesione sociale ed armonia culturale e con strutture di governo decentrate e partecipate, tutta un’altra storia rispetto alle costruzioni giuridiche e solo virtuali dei sistemi democratici occidentali, induce inevitabilmente a non dar conto delle dinamiche reali di questa grande “economia mondo”. Il libro di Loretta Napoleoni, Maonomics offre un percordo di analisi comparata tra l’Occidente e la Cina a partire sopratutto dal periodo di trasfigurazione del capitalismo nella globalizzazione agli inizi degli anni Settanta e delle riforme economiche che dettero inizio alla nuova politica economica cinese introdotta da Deng Xiaoping nel 1978. Fu così avviata una nuova fase nella costruzione del socialismo in Cina definita come “Socialismo con caratteristiche cinesi” mediante le “quattro modernizzazioni” (agricoltura, industria, scienza e tecnologia, apparato militare) e l’introduzione di una “economia socialista di mercato”. La base teorica di questo approccio innovatore fu così formulata: “Pianificazione e forze di mercato non rappresentano l’essenziale differenza che sussiste tra socialismo e capitalismo. Economia pianificata non è la definizione di socialismo, perché c’è una pianificazione anche nel capitalismo; l’economia di mercato si attua anche nel socialismo. Pianificazione e forze di mercato sono entrambe strumenti di controllo dell’attività economica.” (John Gittings, The changing fase of China, Oxford University Press, Oxford 2005).

 

Miti e realtà

Il testo di Loretta Napoleoni ripercorre puntualmente le fasi ed i temi della crescita cinese e dello sviluppo della globalizzazione in Occidente con esattezza ed una brillante scrittura. I miti e luoghi comuni su entrambi vengono demistificati e messi a nudo. Il testo non rifugge da esempi ed interviste, ma senza cadere nella forma episodica e giornalistica che si riscontra in molta della letteratura disponibile a causa della debolezza teorica degli autori o del vizio di un certo giornalismo di cercare consenso affiancandosi alle mode correnti ed ai luoghi comuni. L’analisi svolta mette bene in luce le strutture di potere e le politiche della globalizzazione in Occidente e conferma gli studi e le tesi sostenute dall’economista James K. Galbraith sullo Stato Predatore. Così come non manca di segnalare le ambiguità di posizioni di chi è passato dalla gestione del potere della globalizzazione (Banca Mondiale) ad un ruolo critico apprezzato dai movimenti new-global (Joseph Stiglitz), o da ruoli dirigenti o di appartenenza ai centri del potere finanziario globali alla funzione pubblica di controllo del credito e della finanza (Mario Draghi) (Napoleoni, o.c., p.128-129). Il potere, i meccanismi e le politiche della globalizzazione sono lucidamente illustrati e con piglio fortemente critico, così come il diverso orientamento della politica cinese nei settori principali di attività è correttamente richiamato e messo in evidenza. Questo vale per le forme di democrazia e partecipazione in Cina, per il controllo dello stato sul funzionamento del mercato per renderlo coerente con le linee strategiche decise dalle istituzioni politiche, sui risultati positivi nel campo delle politiche sociali e delle differenze territoriali, delle politiche di controllo ed orientamento delle migrazioni interne e dell’occupazione, delle politiche mbientali ed energetiche, dell’attenzione alle politiche rurali, della politica estera cinese e delle nuove forme di cooperazione messe in campo in particolare verso i paesi africani.

 

I limiti dell’analisi

Quindi, un libro di gran pregio e ben documentato. Due sono le riserve che mi sento di avanzare rispetto all’impianto interpretativo adottato dall’autrice: la prima riguarda la globalizzazione ed i suoi rapporti con la Cina ed il mercato, e la seconda i rapporti tra il pensiero cinese e Marx. L’autrice interpreta i fenomeni che si svolgono a livello mondiale, Cina inclusa, come appartenenti al fenomeno della globalizzazione con la quale interagiscono. Si tratta di una generalizzazione forzata, che confonde globalizzazione (capitalistica) con i fenomeni di internazionalizzazione, mondializzazione e universalizzazione nati proprio dalla reazione alla prima da parte di movimenti sociali (universalizzazione), di comunità e stati (internazionalizzazione e mondializzazione) (Bruno Amoroso e Sergio Gomez y Paloma, Persone e comunità. Gli attori del cambiamento.Dedalo Bari 2008). Sono fenomeni diversi gestiti da gruppi di potere diversi e in contrasto tra loro, orientati a mercati diversi, che poggiano su forme diverse di gestione e di governo dell’economia. Lo stesso risveglio dell’economia cinese, come documenta Giovanni Arrighi, nasce dal bisogno di reagire al tentativo di sbarrare la strada dello sviluppo nei due terzi del mondo da parte dei paesi occidentali, dal bisogno di proteggersi dalle politiche di destabilizzazione politica e marginalizzazione economica da questa perseguite, da un’idea diversa si cultura, società e modernità. Questa diversità è d’altronde documentata dai fenomeni descritti dalla stessa Napoleoni come tentativi di delegittimare e destabilizzare queste economie. I gruppi di potere della globalizzazione da lei descritti con grande efficacia e le politiche neoliberiste da questi perseguite sono contrastate dalla Cina e da altri paesi che alla globalizzazione si oppongono perseguendo linee di sviluppo a questa alternative e politiche opposte a quelle del neoliberismo. Questo errore di analisi induce anche ad una lettura sbagliata di fenomeni importanti come quello delle migrazioni interne e del lavoro in Cina. Scrive Napoleoni: “Negli anni Novanta e durante gran parte del primo decennio del Ventunesimo secolo, la Cina è dunque la cuccagna del capitalismo globalizzato. Ma la sua grande attrattiva non è tanto la facilità con la quale si azzerano quasi due secoli di lotte operaie combattute in Occidente, quanto il costo del lavoro che si mantiene costantemente basso.” (Napoleoni, O.c., p 47). Sullo stesso tema osserva Arrighi: “E’ una convinzione diffusa che la Repubblica popolare cinese attragga i capitali stranieri principalmente grazie alle sue grandi riserve di manodopera a buon mercato, ma non è così, dato che il mondo è pieno di serbatoi di forza-lavoro, senza che nessuno di essi sia risultato altrettanto attraente per il capitale. La mia tesi è invece che la Cina attira i capitali soprattutto per l’alta qualità della sua forza lavoro in termini di salute, istruzione e margini di autonomia, unita alla rapida espansione delle condizioni di domanda e offerta per la mobilitazione produttiva di queste risorse all’interno del paese. (Arrighi, o.c., p. 387). Un processo di sviluppo, prosegue Arrighi “fondato sulle tradizioni locali” e “sulla tradizione rivoluzionaria” già descritta. La tesi di Arrighi coglie a mio avviso meglio l’originalità e specificità dello sviluppo cinese, le cause vere della sua dinamicità. Infine, Napoleoni richiama giustamente il ruolo che Marx e il marxismo hanno svolto nell’analisi dello sviluppo cinese, sia come strumento di indagine che di indirizzo delle politiche attuate. Gli dedica un apposito capitolo: Leggere Marx a Pechino (pp. 78 e sgg.). Si tratta anche qui di un richiamo giusto e veritiero, rispetto ai fatti. Tuttavia va ricordato che la necessaria base di partenza teorica costituita dal marxismo anche per i comunisti cinesi, proprio per la sua matrice occidentale ed eurocentrica soprattutto rispetto all’analisi delle classi sociali e all’idea stessa di modernizzazione, è spesso divenuto ostacolo del quale i cinesi si sono dovuti liberare anche se senza mai gettarlo alle ortiche ma con una rielaborazione continua. La rivoluzione cinese è stata soprattutto una rivoluzione contadina e con un forte intreccio con i ceti medi nazionalisti e i fattori nazionali e religiosi. L’elaborazione e l’utilizzo cinese della “dittatura del proletariato” ha trovato in Cina forme di attuazione diverse da quelle sperimentate altrove (e non solo nei paesi dove i comunisti sono andati al potere) proprio perché è sempre passato attraverso la conquista dell’egemonia del partito verso il popolo e non dell’uso della macchina del potere per controllare e strumentalizzare il popolo. La lunga marcia è stata una lezione da manuale del modo di intendere dei comunisti cinesi in materia. Una lezione quest’ultima, della quale si potrebbe avvantaggiare anche la sinistra italiana. Il rapporto tra partito e classi sociali in Cina va ben oltre le semplificazioni dei libri di testo del marxismo applicate anche in Italia con la liquidatoria arroganza ed accusa di populismo rivolta allo stesso Gramsci. Le pagine di Marx sull’industrializzazione in Occidente sono certamente splendide sia per l’analisi sia per il metodo. Ma necessariamente intrise di un metodo e di contenuti che vanno rielaborati nel contesto di culture ed economie diverse come quella cinese. Le sue pagine sull’Asia e sulla modernizzazione del mondo sono da dimenticare. La forza del suo razionalismo occidentale è anche il limite della sua analisi, sia rispetto alla realtà dell’Europa sia alresto del mondo. D’altronde non è un caso che Giovanni Arrighi abbia scelto un diverso approccio come suggerisce il titolo del suo stesso libro: Adam Smith a Pechino. Genealoghie del ventunesimo secolo. Infine, un sentito grazie a Loretta Napoleoni per averci dato un testo di grande forza e che merita di essere letto e discusso.

 

Category: Osservatorio Cina

About Bruno Amoroso: Bruno Amoroso (1936) si è laureato in economia all'Università La Sapienza di Roma, sotto la guida di Federico Caffè. Negli anni dal 1970 al 1972 è stato ricercatore e docente all'Università di Copenhagen. Dal 1972 al 2007 ha insegnato all'Università di Roskilde, in Danimarca, dove ha ricoperto la cattedra Jean Monnet, presso la quale è professore emerito. Amoroso è docente all'International University di Hanoi, nel Vietnam. È stato visiting professor in vari atenei, tra cui l'Università della Calabria, la Sapienza di Roma, l'Atılım Üniversitesi di Ankara, l'Università di Bari. È presidente del Centro studi Federico Caffè dell'Università di Roskilde ed è condirettore della rivista italo-canadese Interculture. È membro del consiglio di amministrazione del FEMISE-Forum Euroméditerranéen des Instituts de Sciences Économiques, e coordinatore del comitato scientifico dell'italiana Fondazione per l'internazionalizzazione dell'impresa sociale (Italy). Fa parte, inoltre, del comitato scientifico FLARE Network (Freedom, Legality and Rights in Europe), la rete internazionale per la lotta alla criminalità e alla corruzione; è membro ed esperto di DIESIS (Bruxelles) organizzazione non profit dedicata allo sviluppo dell'economia sociale, nelle forme cooperative, di impresa sociale, e di impresa autogestita dai lavoratori, attraverso attività di supporto, consulenza e valutazione dei progetti. È decano della Facoltà di Mondiality, all'Università del Bene comune (Bruxelles-Roskilde-Roma), fondata da Riccardo Petrella; è membro del comitato scientifico del progetto WISE dell'Unione europea, ed è stato direttore del Progetto Mediterraneo promosso dal CNEL (1991–2001). Tra i suoi ultimi libri in italiano: Il "mezzogiorno" d'Europa. Il Sud Italia, la Germania dell'Est e la Polonia Orientale nel contesto europeo, (a cura di) (Diabasis, 2011); Euro in bilico (Castelvecchi, 2011); Per il bene comune. Dallo stato del benessere alla società del benessere (Diabasis, 2010); Il Mediterraneo: incontro di culture (con Mario Alcaro e Giuseppe Cacciatore), (Aracne, 2007); Persone e comunità. Gli attori del cambiamento, (con Sergio Gomez y Paloma) (Dedalo, 2007); La stanza rossa. Riflessioni scandinave di Federico Caffè (Città Aperta, 2004); Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro (Dedalo editore); L'apartheid globale. Globalizzazione, marginalizzazione economica, destabilizzazione politica (Edizioni Lavoro, 1999); Il pianeta unico. Processi di globalizzazione (con Noam Chomsky e Salvo Vaccaro) (Eleuthera, 1999).

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